C

C [s.f.] Terza lettera dell’alfabeto mesorachese, corrispondente alla terza lettera dell’alfabeto latino, derivata dal Γ (gamma) greco. Inizialmente rappresentò la consonante occlusiva velare sonora “G” d’accordo con l’uso greco, ma nello stesso tempo anche la sorda “K”, probabilmente per influsso dell’uso etrusco che non distingueva sorde e sonore; col passare del tempo per indicare la sonora s’introdusse la nuova lettera G, lieve modificazione grafica del segno C. Il latino classico conosceva soltanto la occlusiva velare palatale sorda, ossia il cosiddetto C duro “K”; ma davanti alle vocali palatali (e e i) l’originaria pronuncia occlusiva velare (es. Cicero “kìkeroo”) passò a poco a poco, in età tarda, a una pronuncia affricata palatale, che tra il 4° e il 6° sec. d. C. si stabilizzò in un fonema, il nostro c dolce “Č”, ormai sentito come distinto dal fonema velare conservatosi intatto davanti ad a, o, u e a consonante (VT).

Ca1 [cong.s.] Congiunzione subordinativa ‘che’, introduce molte proposizioni specie di tipo causale, esempi: sientu ca mora stanotte ‘sento che morrà stanotte’, vida ca te fujanu e piecure ‘guarda che ti scappano le pecore’, u ra piare ca te vrusci ‘non prenderla che ti bruci’, finisciala ca te mignu ‘finiscila che ti meno’, (loc.) canta-ca’ ca te fai monaca ‘canta-ca’ che ti fai monaca’ (se ciarli troppo rischi di non maritarti e finirai col cantare in chiesa), ca pecchì u bbena puru patritta? ‘che perché non viene pure tuo padre?’, dille ca si ‘digli che (di) sì’, u sacciu ca pue cuffi ‘lo so che poi brontoli’, sugnu cuntenta ca ve siti fatti amici ‘sono contenta che vi siete fatti amici’ (sono contenta che vi siete rimessi insieme), facitilu sedire ca s’ha de ripusare ‘fatelo sedere che si deve riposare’, sugnu arrivatu c’ud eranu mancu e sette ‘sono arrivato che non erano nemmeno le sette’, u ffa atru ca durmire ‘non fa altro che dormire’, ci’hai cchjù culu ca medudda ‘ci’hai più culo che cervello’; non di rado si unisce con avverbî e altre parole (pienzica, capoca, callora) per formare congiunzioni composte; guarda anche chi.

Ca2 [avv.] Traduce la negazione ‘no’ oppure ‘non credo’, si intercala in un dialogo breve, esempi: (A) l’e misa a pasta? (B) Ca ‘(A) hai buttato la pasta? (B) no’, (A) arrivau fratitta da Marina? (B) Ca ‘(A) arrivò tuo fratello dalla campagna?’ ‘(B) non credo’.

Cabbìna [s.f.] Cabina, camerino.

Cacacàzzu [agg. s.m.inv.] Rompiscatole, persona molesta.

Cacajùelu [s.m.] Persona in genere magretta, delicata, malaticcia, che non sopporta né caldo né freddo, senza jenatu; guarda anche dipeddata.

Cacamìentu [s.m.] Alla lettera ‘cacamento’, ossia rompimento, scassamento, es.: cchi cacamientu e cazzi chi si ‘che rottura di cazzi che sei’; guarda anche rumpamientu.

Cacamìnchja [agg. s.m.inv.] Rompiscatole, sinonimo di cacacazzu.

Cacalùra [agg.] Varietà del frutto del fico d’India dal colore arancione, sia la buccia sia il frutto, molto ricco di semi e che ha la proprietà di stimolare l’evacuazione; guarda anche ficunniana.

Cacàre [v.tr. v.intr.] Cagare, significato identico all’italiano.

Cacarèdda [s.f.] 1 Diarrea, sciolta, es.: (loc.) a cacaredda u cci ne vo culu strittu ‘a diarrea non ci vuole culo stretto’ (quando si deve fare una spesa si deve fare e basta); guarda anche zilata. 2 Paura, fifa, es.: te vena a cacaredda quannu te cunta fatti e spirdi ‘ti viene la cacarella quando ti racconta fatti di spiriti’.

Cacareddiàre [v.intr. v.tr.] Alla lettera ‘fare piccole cacchine di diarrea qua e là’, il significato attribuito è quello di iniziare un lavoro a chiazze senza portarlo a conclusione; il termine calza a pennello per quanto riguarda la raccolta delle olive a terra, ossia lasciando piccole zone dove non si è passati; cfr zilare.

Cacareddùsu [agg.] Fifone, pauroso.

Cacatìna 1 [s.f.] Caccola, moccio indurito, cappero, ma anche cispa che si forma agli angoli degli occhi durante il sonno; guarda anche cacazza. 2 Piccolo escremento lasciato da un insetto, es.: na cacatina e musca ‘una “cacchina” di mosca’. 3 Porcheria, schifezza, il termine è spesso riferito a qualcosa riuscita male o dall’aspetto non invitante; cfr mprascatina.

Cacàtu [agg.] Persona un po’ fetente e un po’ spregevole, non è un bel complimento, ma nemmeno così brutto da offendere mortalmente, di solito è riferito ad una persona che fa il furbacchione, es.: si nnu cacatu ‘sei uno stronzo’.

Cacatùestu [agg.] Alla lettera (colui che) caca duro, avaro, taccagno, avido.

Cacatùra [s.f.] Scocciatura, fastidio, seccatura, quasi sinonimo di pilatura, es.: na cacatura e cazzu ‘una rottura di cazzo’.

Cacatùru [s.m.] Cesso, gabinetto, pozzo nero; sarebbe più corretto dire antenato del cesso, infatti Rohlfs lo definisce come ‘vaso alto e cilindrico per le necessità corporali’.

Cacàzza [s.f.] Termine dal significato simile a cacatina, ma viene prevalentemente usato per indicare la cisposità che si forma agli angoli degli occhi; cfr cacatina.

Caccagghjiàre [v.intr.] Balbettare, articolare male le parole, appuntare.

Caccaviàre [v.intr.] Maledire, lapidiare, augurare a qualcuno di girovagare senza fissa dimora o le pene dell’inferno, es.: (lap.) te viennu u caccavii ari sette caccavi du mpiernu ‘che tu possa vagare nei sette calderoni infernali’.

Caccavìeddu [s.m.] Recipiente simile al caccavu ma più piccolo, paiolo è l’analogo italiano.

Càccavu [s.m.] Recipiente di rame o d’alluminio, rotondo e profondo, molto simile ad una quadara, usato dai pastori per far cagliare e cuocere il latte.

Cacchi [s.m.] Sporcizie, lordure, in particolare quelle prodotte dal corpo; la voce è usata prevalentemente dai bambini per indicare appunto il lordume che il corpo produce e nello specifico le cispe degli occhi o le caccole del naso.

Cacciàre [v.tr.] Verbo italiano usato anche nel nostro dialetto, ma con un paio di accezioni in più, la prima è quella di porre, fare attenzione, es.: caccia mente figgharì ‘cacciaci mente figlio mio’ (poni attenzione, mettici testa, figlio mio), la seconda invece è più vicina al significato di squitare e indica il togliere dalla mente qualcosa che grava, talvolta anche in senso estremo nel senso di farla finita, esempi: cacciamunicce ppe oje ‘finiamola per oggi’, ne cacciamu u penzieru ‘ci togliamo il pensiero’, (loc.) quannu l’hai a fame cacciatila, ca pue venanu tiempi c’u tt’a pue cacciare ‘quando la hai la fame toglitela, che poi verranno tempi che non te la puoi togliere’ (il proverbio allude al fatto di soddisfare lo stimolo della fame senza troppi pensieri, anzi godendosi il momento, poiché sicuramente verranno giorni in cui non sarà possibile, per malattia o per vecchiaia), (loc.) acqua corrente, viva e nnu cacciare mente ‘acqua corrente, bevi e non porre attenzione’ (bevi tranquillamente), mi ce cacciu ‘mi ci caccio’ (mi tolgo il pensiero, anche in senso estremo ‘mi suicido’).

Cacchjàta [s.f.] Cazzata, es.: teh cchi cacchjata! ‘teh che cazzata!’ (guarda un po’ tu che mi capitò).

Cacchju 1 [s.m.] Gancio, cappio, guarda anche ncacchjare. 2 Cacchio, ovvero alterazione eufemistica di ‘cazzo’, es.: cchi cacchju dici? ‘che cacchio dici?’.

Cacentaràra [s.f.] Antico e particolare modo di preparare l’esca per la cattura delle anguille, consistente nel preparare una specie di groviglio fatto con lo spago su cui vengono infilati i vermetti (i cacentari); il “groviglio” era preparato aiutandosi con una specie di ago, con la punta arrotondata, che fungeva da guida; si creavano tanti anelli e in ultimo uniti tutti insieme: nella forma ricorda più un frutto a spicchi (o un piccolo provolone) piuttosto che un vero groviglio; il passo successivo consisteva nel legare il “frutto” ad uno spago più lungo e quest’ultimo attaccato a un legno che fungeva da canna, non aveva importanza la forma o l’estetica, doveva solo reggere questa particolare esca; una volta pronta veniva calata dentro l’acqua, magari tra le acque di un canneto, in ogni caso a bordo fiume, quando l’anguilla addentava i vermetti con i suoi dentini piccoli e stretti rimaneva agganciata allo spago, appena il pescatore avvertiva che stattonava, sollevava velocemente l’animale e nello stesso tempo le metteva sotto un ombrello aperto, senza questo espediente in brevissimo tempo si sarebbe sganciata e data alla fuga; questa forma di pesca, oltre ad essere sostenibile, l’amo è praticamante fornito dal pesce stesso.

Cacèntaru [s.m.] Verme di fiume usato dai pescatori come esca; qualcuno indica con lo stesso termine un altro anellide ricoperto da piccoli granelli di sabbia e che è possibile trovare sotto le pietre dei corsi d’acqua, entrambi appartengono al genere Lumbricus.

Caciarògna [s.f.] Pezzo di intonaco staccatosi dal muro per effetto dell’umidità.

Caciùeffulu [s.m.] Carciofo, Cynara cardunculus L., sottospecie scolymus.

Cachì [s.m.] Cachi, Diospyros kaki L.

Cacùmmaru [s.m.] Corbezzolo, Arbutus unedo L.

Cacummaru

Caddu [s.m.] Callo, durone.

Cadìre [v.intr.] Cadere, rotolare, variante càdare, esempi: (loc.) si vue cadare malatu mancia pierzucu e granatu ‘se vuoi cadere malato (ammalarti) mangia pesca e melograno’ (la rima ovviamente si è persa, il significato è che se i due frutti sono mangiati in abbondanza e in accoppiata, non sono salutari), (lap.) te vorranu cadire e manu ‘potessero caderti le mani’.

Caditìna [s.f.] Caduta, scivolata, il fatto di cadere, es.: (loc.) s’u mmueri da botta mueri da caditina ‘se non muori dalla botta muori dalla caduta’ (come fai fai muori lo stesso, non c’è scampo).

Càfara [s.f.] Terra fertile, terreno adatto alle colture, es.: ara Marina c’è na terra cafara ‘alla Marina (parte del territorio che si estende verso il mare) c’è un tipo di terreno adatto alle colture’.

Cafàssu [s.m.] Uomo grande e grosso, ma anche persona con un grosso appetito, mangione, vicino al significato di mancialaru.

Cafè [s.m.] Caffè, Coffea arabica L. (la specie da più tempo coltivata), esempi: l’adduru du cafè ‘l’aroma del caffè’, nu cucchjarinu e cafè ‘un cucchiaino di caffè’ (mezzo caffè o meno), si me vivu u cafè me pia u core ‘se mi bevo il caffè mi prende il cuore’ (rischio che mi vada in fibrillazione), u cafè fattu ccu a napulitana è n’atra cosa ‘il caffè fatto con la (macchinetta) napoletana è un’altra cosa’ (è più buono). Fino a qualche decennio fa, tra le fasce di popolazione che non potevano permettersi il caffè vero, non era inusuale farlo usando parti di altre piante; le piante più adoperate erano la cicoria comune e il tarassaco, di cui venivano usate anche le radici dopo essere state lavate e tostate; anche la miscela di chicchi di grano con chicchi di orzo era apprezzata (2 parti di grano e una di orzo); le varie miscele erano poi passate al macinieddu per ottenere la polvere, che era messa a bollire con acqua nella cicculatera al focularu; il commento delle persone anziane è che si trattava di una ciciorfata, per quanto salutare rimaneva un surrogato cattivo; guarda ciciorfa.

Cafuddiàre [v.tr.] Mangiare con ingordigia e voracità, trangugiare, rimpinzarsi, variante cafuddàre, es.: m’aju caffuddiatu na pignata e suraca ‘ho divorato una pignatta di fagioli’.

Càggia [s.f.] Gabbia, stia.

Caggiu [s.m.] 1 Persona insignificante, banale. 2 Fidanzato, ragazzo, anche al femminile a càggia ‘la ragazza’, es.: te prisìentu u caggiù miu ‘ti presento il mio ragazzo’.

Cagnàre [v.tr.] Cambiare, scambiare, sostituire.

Cagnàta [s.f.] Mascalzonata, furfanteria, comportamento riprovevole, es.: teh chi cagnàta! ‘teh (guarda tu) che fregatura!’; cfr cacchjata.

Cagnu 1 [s.m.] Eufemismo per la parola cazzu, equivalente all’italiano cacchio, es.: e chi cagnu! ‘e che cavolo!’. 2 Nocchio, nodosità del tronco di un albero, da cui cagnùsu ‘che presenta molti nodi’, quindi legno cagnusu, olive cagnuse e così via.

Cajìccu [s.m. agg.] Persona ossuta, molto magra di costituzione, es.: pari nu cajiccu ‘sembri uno deperito’.

Calafùerchju [s.m.] Buca, fosso, baratro.

Calàntra [s.f.] Flemma, placidità, pazienza.

Calantrédda [s.f] Passeriforme della famiglia delle Alaudidae (allodole) Melanocorypha calandra L. (JBT), altri autori riferiscono Galerida cristata L., (CFA), altri ancora Calandrella brachydactyla L. (VT).

Calantrédde [s.f.pl.] Umili calzature fatte con pelle di pecora o di altri animali, indossate da pastori o contadini.

Calascìnna [s.f.] Saliscendi, ovvero congegno di chiusura di porte e finestre; è usata anche la forma al maschile, calascìnnu.

Caliàre [v.tr.] Scaldare, rendere caldo, abbrustolire, da cui caliàtu ‘scaldato’, ma anche ‘tormentato’, ‘angustiato’, es.: (loc.) te via affrittu (o ecatu) e caliatu ‘che tu possa essere infelice (afflitto) e tormentato’.

Calìpsu [s.m.] Eucalipto, albero d’origine australiana; le specie più diffuse nel Marchesato sono Eucalyptus occidentalis Endl., Eucalyptus trabutii Vilm. e Eucalyptus camaldulensis Dehnh.

Callòra [avv.] Alla lettera ‘che allora’, ossia ‘sì, certamente’, usato talvolta anche come semplice affermazione con qualche venatura di stizza, esempi: callora u gghjiu ‘palese che andarono’, callora! ‘certo!’.

Calò [l.avv.] Espressione generica usata per indicare che un evento si è verificato al momento giusto, oppure che un qualcosa si è incastrato perfettamente, il termine è sempre preceduto dalla preposizione semplice “a”, esempi: c’è sta a calò ‘ci sta a pennello’, si arrivatu a calò ‘sei arrivato al momento opportuno’.

Camàggiu [agg.] Persona malandata, scalcagnata e anche un po’ scema; in origine questo termine descriveva un asino vecchio e indolente.

Camétriu [s.m.] Piccolo arbusto sempreverde appartenente alla famiglia delle Lamiacee e che produce delicati fiorellini rosa, conosciuto in italiano col nome di camedrio e scientificamente come Teucrium chamaedrys L.; in passato, i fiorellini freschi venivano tenuti a macerare per una notte in acqua, l’infuso (molto amaro) veniva bevuto al mattino e serviva per combattere la malaria; alcuni anziani raccontano di fiorellini bianchi/gialli anziché rosa, in tal caso si potrebbe pensare al camedrio alpino (Dryas octopetala L.) raro in Calabria, non è da escludere una confusione con la ruta.

Caminàta [s.f.] Camminata, passeggiata, ma anche farsi un giro usando un mezzo, esempi: me fazzu na caminata aru Steccatu ‘mi faccio un giro (in macchina) a(llo) Steccato, fatte na caminata a Luganu ‘fatti un giro (in treno) a Lugano’.

Camìnu [s.m.] Cammino, percorso.

Càmmara [s.f.] Camera, stanza, da cui cammaredda ‘cameretta’, es.: a cammara e liettu ‘la camera da letto’.

Cammérare [v.tr.] Mangiare carne, in passato usato sia in tono scherzoso, poiché la carne era rara, sia per ricordare che i venerdì di quaresima non se ne dovrebbe mangiare, esempi: oje amu cammeratu ‘oggi abbiamo mangiato carne’, oje u se cammera ‘oggi non si mangia carne’.

Cammiàre [v.tr. v.rifl.] Cambiare, sostituire, es.: me cammiu i quazietti ‘mi cambio le calze’.

Cammiàta 1 [s.f.] Alla lettera “camionata”, ossia la quantità di materiali contenuti e trasportata da un camion, esempi: ce vo na cammiata e rina ‘ci vuole una camionata di sabbia’, aju uscatu na cammiata e ligne ‘ho bruciato una camionata di legna’ (pari a 5 m3). 2 [v.tr. v.rifl.] Participio passato di cammiare.

Cammiggètta [s.f.] Camicetta, un tempo chiamata tàjittu.

Cammìsa [s.f.] Camicia, es.: (loc.) u culu c’ud avetta mmai cammisa na vota chi l’avetta sa cacau ‘il culo che non ebbe mai camicia, una volta che l’ebbe se la cagò’ (riferito ad una persona che si è arricchita e che poi non è riuscita a rimanerci).

Cammisòla [s.f.] Camiciola, gilet.

Càmmisu [s.m.] Camice.

Càmmiu 1 [s.m.] Camion, autocarro, da cui cammijìcchju ‘camioncino’, ‘leoncino’, inteso anche come giocattolo. 2 Cambio, ma anche prima persona singolare del verbo cambiare, es.: e ruttu u cammiu de marce, mo fratitta te fa na sarveregina ‘hai rotto il cambio delle marce, adesso tuo fratello ti darà un sacco di botte’.

Camòrcia [s.f.] Sonora razione di botte, es.: te fazzu na camorcia si te piu ‘ti do una lezione se ti prendo’; guarda anche liscibussu e sarvereggina.

Campa [s.f.] Bruco, in particolare ci si riferisce alle larve di alcune farfalle che si sviluppano a spese di alcuni ortaggi come le rape o i fagiolini, es.: (lap.) chi vorre campare ccu re campe all’uecchji ‘che tu possa vivere con i parassiti (vermi) agli occhi’.

Campàna [s.f.] Località di campagna di Mesoraca in posizione sud-est rispetto al comune.

Campanàru 1 [s.m.] Campanile. 2 Sagrestano.

Campanèdde [s.f.pl.] Vesciche che si creano sullo strato superiore della pelle dopo una scottatura, ma anche borse sotto gli occhi, occhiaie.

Campanòttu [s.m] Grosso campanello destinato agli animali che pascolano, come mucche, capre e pecore, meglio conosciuto col nome di campanaccio; adoperato anche il suo diminutivo campanottèddu, guarda anche cozzuliata; lo stesso, senza il battaglio, è anche uno strumento musicale a percussione.

Campiàre [v.intr.] Andare a dare un’occhiata in un luogo per vedere se è tutto a posto, ispezionare, letteralmente ‘andare per i campi’, es.: cchjù tardu campiaticce fore ‘più tardi fai una capatina (dai un’occhiata) in campagna’.

Campiàta [s.f.] Visita, capatina, l’atto del campiare.

Campìzzi [s.m.] Quartiere e località del comune di Mesoraca, lo stesso dove sorge l’ospedale e il nuovo istituto magistrale.

Campu 1 [s.m.] Rione di Mesoraca, quello posto più a valle di tutti, ovvero quello più vicino alla zona denominata Princivalle e dove un tempo sorgeva il vecchio sito di Mesoraca, ossia verso la confluenza dei due fiumi; è in questo quartiere che sorge la suggestiva chiesa del Ritiro. Prima del terremoto del 1832 era la principale porta d’ingresso del paese, chiamata ‘Porta Grecia’. 2 Campo, radura, zona pianeggiante di campagna.

Campusàntu [s.m.] Cimitero, da cui campusantàru ‘custode del cimitero’, ‘becchino’.

Cana [s.f.] Cagna, femmina del cane, parola molto poco usata.

Canalètta [s.f.] Grondaia, ma anche cunicolo protetto, solitamente interrato, per il passaggio di cavi, tubazioni e simili.

Canalétte [s.f.] Località di campagna di Mesoraca in posizione sud-est rispetto al comune.

Canalettùne [s.m.] Località di campagna vicina alla località Fatighedde; un tempo terra occupata illegalmente, ma anche zona in cui veniva tenuto in ammollo il lino.

Canalìcchju 1 [s.m.] Canale dell’acqua di piccole dimensioni. 2 Località presilana, castagneto, del territorio di Mesoraca posta a ovest rispetto al centro abitato.

Canàtu [s.m.] Cognato, da cui canàtimma ‘mia cognata’, canàtumma ‘mio cognato’, canàtitta ‘tua cognata’, canàtutta ‘tuo cognato’.

Canàzzu [s.m.] Parola che va fatta sempre precedere dalla particella ‘a’ ed è quasi sempre rivolta ad una persona che dimostra in quel momento grande fame e appetito, assume quindi il significato di ‘alla grande’, ‘a iosa’, ‘a sciupo’, es.: minale a canazzu a sa suppressata ‘affetta senza risparmio questa soppressata’ (finiscila).

Cancarèna [s.f.] Cancrena, il termine è però usato quasi esclusivamente per intercalare qualcosa di poco simpatico nei discorsi o come esclamazione per indicare stupore davanti ad una brutta notizia, esempi: ih cancarena! ‘maledizione!’, (lap.) te viennu u te fa cancarena ‘che ti possa far cancrena’ (quello che hai mangiato, bevuto, fatto).

Cancariàre 1 [v.tr.] Sparlare, riferire con maldicenza. 2 Rimproverare aspramente, ammonire. 3 Far diventare maligno attraverso la manipolazione, in particolare qualcosa che riguarda il proprio corpo come una verruca o un neo. 4 [v.rifl] Mangiare senza misura e voracità, es.:  ti l’e cancariati tutti i pisci ‘te li sei mangiati tutti i pesci’; guarda anche cafuddiare.

Càncaru [s.m.] Cancro, neoplasia, es.: te viennu u te pia nu cancaru ‘possa vederti prendere un cancro’.

Canceddàta [s.f.] Cancellata, chiusura o recinzione di palazzi o giardini.

Canciàre [v.tr. v.intr. v.rifl. v.intr.pron.] Cambiare, rimpiazzare, togliersi gli indumenti per indossarne altri, mutare nell’aspetto o nelle abitudini, esempi: e canciare si vue jire avanti ‘devi cambiare se vuoi andare avanti’, (loc.) si u bbidi metitura u canciare vestitura ‘se non vedi mietitura non cambiare vestitura’ (non bisogna farsi ingannare dai primi caldi per cambiarsi i vestiti, bisogna aspettare il grano maturo), (loc.) canciare l’uecchji ccu ra cuda ‘cambiare gli occhi con la coda’ (lasciare una cosa buona per una meno buona, specie quando si acquista qualcosa di nuovo).

Cancìeddu [s.m.] Cancello, chiusura di un varco.

Cane [s.m.] Cane, Canis lupus L., da cui canicìeddu ‘cagnetto’ ‘cucciolo’, esempi: nu bellu cane e lupu (o canelupu) ‘un bel pastore tedesco’, a Muntanu aju truvatu nove canicieddi chjusi intra na busta e gghjettati intr’u catone de munnizze ‘a Montano ho trovato nove cuccioli chiusi dentro un sacchetto e buttati nel bidone della spazzatura’; la stessa parola denota sia il maschile che il femminile, è l’articolo che determina il sesso, es.: na (nu) cane ‘una (un) cagna (cane)’, anche se raramente è usato cana per riferirsi al femminile.

Canìgghja [s.f.] Crusca, ovvero i residui della macinazione dei cereali, soprattutto gli involucri dei semi, usati come alimento per il bestiame, specie per i polli; viene preparata impastandola con acqua, es.: (loc.) a nnu quartu e canigghja cuemu e ra mamma e ra figgja ‘ad un quarto di crusca come è la mamma è la figlia’ (significa che la figlia è presa dalla mamma), (loc.) strittu ara canigghja e larigu ara farina ‘stretto alla crusca e largo alla farina’ (talvolta si pone più attenzione alle cose futili che alle importanti).

Canigghjùla 1 [s.f.] Segatura, trinciatura del legno. 2 Forfora.

Canna 1 [s.f.] La pianta della canna Arundo donax L. e per estensione il nome di altre piante dal fusto simile. 2 Tubo o canale di varia grandezza in genere di materiale plastico, ma anche la canna della gola, esempi: a canna e l’acqua ‘la canna dell’acqua’, si nne sta faciennu a canna a canna e chiddu gelatu ‘se lo sta gustando tanto quel gelato’ (curioso modo di dire a canna a canna ‘di cosa che ingolosisce molto’, di solito è riferito a qualcosa di dolce, ma il significato può essere esteso anche a categorie non alimentari; guarda anche cannaruezzu, cannarutia e cannarutu). 3 Spinello, joint, sigaretta fatta miscelando tabacco e marijuana (o hashish); guarda anche brodu.

Cannamàsca [s.f.] Pianta appartenente alla famiglia delle Poaceae, Calamagrostis epigejos (L.) Roth, conosciuta in italiano col nome di ‘cannella delle paludi’, tuttora adoperata per farne scope rudimentali, es.: scupulu e cannamasca ‘scovolo di cannamasca’.

Cannamèle 1 [s.m.] Persona smilza, alta e un po’ stupida. 2 [s.f.] Alla lettera canna del miele, ossia canna da zucchero, Saccharum officinarum L., un tempo coltivata anche in Calabria. 3 Varietà di mela, Malus domestica Borkh, con periodo di maturazione molto precoce, a cui è stato attribuito il nome della canna da zucchero, un tempo molto diffusa anche dalle nostre parti; questa varietà è stata riscoperta e coltivata nuovamente in Sicilia.

Cannarùezzu 1 [s.m.] Gargarozzo, in termini più scientifici la faringe, variante cannaròzze, esempi: (lap.) chi ti se vorra chjudare u passu de cannarozze! ‘che ti si possa chiudere il passo faringeo!’ (che tu possa strozzarti), (loc.) l’è nchjanatu u grassu are cannarozze ‘gli è salito il grasso alla gola’ (proverbio da usare quando si parla di qualcuno che ha raggiunto il benessere economico e ne è stato sopraffatto); il cannaruezzu favuzu ‘falsa gola’ è il tratto laringo-tracheale, ovvero il tratto interessato quando il cibo sbaglia strada e ci sentiamo strozzare. 2 Tipo di pasta a forma di piccoli tocchi di canna, ossia i meglio conosciuti ‘ditali’, da cui cannarozzìeddi ‘ditalini’ e cannarozzùni ‘ditaloni’.

Cannarutìa [s.f.] Squisitezza, leccornia, ciò che fa gola.

Cannarùtu [agg.] Goloso, ghiottone di dolci, epulone, esempi: è na guagliuna cannaruta e pittanchjuse ‘è una ragazza golosa di pittanchjuse’, (loc.) du cannarutu nn’hai ancuna cosa, ma e l’avaru u nn’hai nente ‘dal ghiottone ne hai qualcosa, ma dell’avaro non ne hai niente’; il termine è anche parte del nome di una formichina particolarmente attratta da cose dolci, come zucchero, frutta, briciole di torta, denominata culircia cannaruta ‘formica golosa’; si tratta, probabilmente, della specie Tetramorium caespitum L.

Cannàta [s.f.] Brocca, caraffa, ovvero contenitore cilindrico dotato di beccuccio, spesso in plastica, normalmente usato per travasare vino; guarda anche cannatieddu.

Cannatèdde [s.f.pl.] Pezzo di canna lungo dove si infilano i fichi secchi.

Cannatìeddu [s.m.] Caraffa di piccole dimensioni, col tempo ha assunto sia la funzione di bricco in metallo, e allora è utile per scaldarci il latte o acqua per il tè, sia quello di boccale di piccole dimensioni adatto a berci acqua o vino – se aspiri alla cirrosi; naturalmente se il materiale di cui è composto è la plastica, ritorna alla sua funzione originale e cioè comodo per colmare e riempire fiaschi di vino o di mosto.

Cànnavu [s.m.] Canapa, la pianta della canapa, distinta in Cannabis sativa L., adatta per ricavarne fibre tessili e Cannabis indica Lam., adatta a ricavarne una tisana da offrire a vecchie zie o resina da fumare.

Cannédda 1 [s.f.] Cannella o cinnamomo, droga aromatica molto usata nella preparazione dei dolci natalizi; guarda anche pittanchjuse; è distinta in Cinnamomum zeylanicum L. (la più pregiata) e Cinnamomum aromaticum Nees. (la più diffusa). 2 Spoletta, pezzo di canna tagliato da nodo a nodo su cui si avvolge il filo per tessere, es.: (loc.) canciare cannedda ‘cambiare spoletta’ (cambiare opinione).

Cannìeddu 1 [s.m.] Cannello, ossia custodia in legno a forma di canna per grossi aghi (guarda zaccurafa), in particolare quelli usati dai bastai. 2 Ditale in canna usato dai mietitori per allungarsi le dita così da aumentare la quantità di spighe che stanno in una mano, se ne indossavano tre per le prime tre dita.

Cannìla 1 [s.f.] Candela, da cui cannilàru ‘chi commercia o lavora le candele’, es.: s’è destinatu c’ame murire aru scuru avogghja u tu pii nu maritu mastru cannilaru ‘se è destinato che dobbiamo morire al buio hai voglia a prenderti un mastro candelaio’ (se è destino è destino e non ci si può fare niente); guarda anche siddu.

Canniliàre 1 [v.tr.] Consumare, ardere, dissipare come una candela. 2 [v.rifl.] Scottarsi, bruciarsi.

Cannilòra [s.f.] Candelora, chiesa (e quartiere) di Mesoraca, incastonata tra via Magna Grecia e piazza De Grazia; fino alla fine del ‘700 portava il nome di Santa Maria della Purificazione.

La chiesa della Cannilora

Cannìzza [s.f.] Struttura a rete di robusti legni di castagno legati insieme da fili di ginestra; fino alla seconda metà del Novecento era adoperata per far seccare velocemente le castagne accendendo un fuoco sotto, sulla superficie erano distribuite delle felci e sopra di esse le castagne; tutto il procedimento avveniva dentro le casette di montagna adibite proprio per la raccolta delle castagne, il luogo della tostatura era chiamato fumaru; guarda anche pastiddu e casedda.

Cannìzzu [s.m.] Rete composta da liste di legno o di canne; fino a non molto tempo fa, veniva appesa al soffitto della cucina e usata per conservare il pane o farvi asciugare lentamente le castagne o altra frutta; cfr cannìzza.

Cannùelu [s.m.] Cannolo, dolce tipico di origine siciliana.

Càntaru [s.m.] Cantaro, meglio conosciuto come pitale, orinale, vaso da notte, sinonimo di pisciaturu.

Cantìeddu [s.m.] Pezzo, spicchio, porzione, di formaggio, torta, e così via, es: aju spartutu na pezza e casu a quattru cantieddi ‘ho diviso una forma di cacio in quattro parti’.

Cantùni [s.m.pl.] Termine col quale i mesorachesi usavano chiamare gli abitanti di Petilia. Anche se la parola è ormai poco usata, la storia che si porta dietro è sicuramente molto simpatica: si narra che nella prima metà del diciannovesimo secolo, un nobile di Mesoraca, appartenente al consiglio comunale, probabilmente il decurione stesso, per rimpinguare le casse del comune e per canzonare gli abitanti di Policastro, fece scolpire su una pietra cantone la storia sull’origine di Policastro, che fece coincidere con la fondazione dell’antica città magnogreca di Petelia, dopodiché la seppellì in uno dei suoi campi in località Campizzi, lavorati da contadini policastresi alle sue dipendenze. I lavoratori appena la rinvennero chiamarono il simpatico (e astuto) nobile mesorachese, il quale recitò al meglio la farsa che aveva imbastito; la notizia arrivò al consiglio comunale di Policastro, vista l’importanza del rinvenimento, acquistò immediatamente la pietra e per un certo periodo di tempo trovò posto addirittura nella piazza principale del paese!

Canuscìre [v.tr. v.rifl.] Conoscere, sapere, sperimentare, variante canùsciare, es.: n’ame canuscire miegghju ppe ne piare ‘ci dobbiamo conoscere meglio per prenderci’, (loc.) ppe canuscìre n’amicu veru e reale, si cci’ha dde manciare nu quintale e sale ‘per conoscere un amico vero e reale, si ci deve mangiare un quintale di sale’ (muori e va a finire che non conoscerai l’amico veramente).

Canzuna [s.f.] Canzone, brano musicale.

Capadìrtu [avv.] In direzione della salita, della parte alta di un luogo o del paese, letteralmente ‘testa verso la salita’ capu ad irtu, esempi: l’aju vistu jire capadirtu ‘l’ho visto andare verso l’alto’, a rrobba e fore ci l’ha capadirtu ‘la roba (il terreno) di campagna ce l’ha nella parte superiore’.

Capecàzzu [s.m.] Letteralmente ‘testa di cazzo’, variante capidecàzzu.

Capeccìerru [s.m.] Foro centrale delle arcate del basto che ne definisce il centro, una cattiva centratura di questo foro compromette la regolarità stessa del basto, ovvero l’asino o il cavallo ne risentirà fisicamente.

Capeccùeddu [s.m.] Capocollo, ovvero famoso e rinomato salame tipico della Calabria, fatto da un pezzo cilindrico di carne tolta dalla regione dorsale del maiale presso il collo, salata e insaccata.

Ingredienti: 2,5 kg di lonza di maiale senza osso della parte del collo (è più buona perché c’è un po’ di grasso), peperone rosso dolce e piccante, pepe nero, 300 grammi di sale, vino bianco, rete di tessuto, un velu di maiale, spago.

Procedura: togliere l’osso dalla lonza e riporre quest’ultima in un contenitore largo, salarla strofinandola (quasi un massaggio) per tre/sette giorni tutti i giorni; trascorsa questa prima fase lavarla con vino bianco (alcuni anche con aceto) per due/tre volte cambiando il vino ogni volta, lasciare poi il pezzo di carne a temperarsi per un’ora nel vino bianco, quindi con uno strofinaccio asciugarlo bene. Lavare il velu (diaframma parietale suino) con acqua e limone, passarlo anche nel vino dove è stato il capocollo, asciugarlo e stenderlo su una superficie piana, cospargere di peperoncino dolce e piccante, aggiungere una piccola manciata di pepe in grani, quindi avvolgere la carne quasi come fosse una caramella; a questo punto vanno legati i capi del budello e sottoporre il pezzo ad una energica legatura con lo spago, punzecchiare qua e la e infine inserirlo nella rete di tessuto che servirà per appenderlo, diversamente si può usare lo spago per “comporre” una rete di sostegno. Stagionare il capocollo in locali ben areati per due/quattro mesi e successivamente conservato sottolio o sottovuoto.

Capepèzza [s.f.] Suora, anche se un po’ in forma spregiativa, letteralmente ‘testa di pezza’.

Capìcchju [s.m.] Capezzolo, o, più poeticamente, ‘caput mammæ’, (lap.) te viennu ppennu pii u capicchju ‘possa vederti non prendere il capezzolo’ (possa vederti non nutrirti alla tetta e quindi vederti morire da piccolo; intercalare bonario che si dice ad una persona adulta).

Capiddàru [s.m.] Trafficante di capelli (GR), ovvero persone che giravano per i paesi cercando capelli da barattare con altri oggetti, come pettini, pettinisse, rasoi, sapone; in tempi in cui c’era bisogno di tutto, i capelli erano un piccolo capitale.

Capiddèra [s.f.] Capigliatura, capelliera.

Capìddu [s.m.] Capello, pelo, da cui capiddùzzu ‘capello dei bimbi’ e capiddu e Venere ‘capello di Venere’ (capelvenere Adiantum capillus veneris L., genere di felce che abitualmente cresce nei luoghi umidi, specie agli ingressi di grotte calcaree; in passato usata in paese da neo mamme e bimbi piccoli come purificante), es.: cci’aju i capiddi cumu nu piritu e ciucciu ‘cci’ho i capelli come una scoreggia di ciuccio’ (intercalare per sottolineare di essere molto spettinati).

Capìre [v.tr. v.intr.] Far entrare (anche con un piccolo sforzo), contenere, calzare; il termine è usato sia per riferirsi a delle persone che devono entrare in un luogo angusto o limitato (auto, ripostigli, sedili), sia a degli oggetti che devono essere indossati (anelli, scarpe, maglie e così via) e sia a degli oggetti che devono essere conservati in un contenitore, esempi: u cce puetu capire tutti intra chidda cammara! ‘non possono entrarci tutti in quella stanza!’, u mme capa sa magghja ‘non mi entra questo maglione’, faccile capire tutte intr’u buccaccieddu ‘faccele entrare tutte dentro al vasetto’, (loc.) famme capire mpizzu mpizzu ca pue larigu mi nne fazzu ‘fammi entrare bordo bordo che poi spazio me ne faccio’ (dammi un po’ di spazio che poi ci penso io ad allargarmi).

Capiscìre [v.tr. v.rifl.rec.] Capire, nel senso di comprendere, afferrare con la mente, sapere e, in senso riflessivo, intendersi, andare d’accordo, esempi: e capisciutu tuttu chiddu chi t’ha dittu? ‘hai compreso tutto quello che ti ha detto?’, cchi c’è vue capiscire tu ‘cosa vuoi capire (saperne) tu’, u nne capiscimu cchjù ccu patritta ‘non ci intendiamo più con tuo padre’.

Càpissa [s.f.] Pallottola, proiettile e per estensione qualsiasi oggetto che abbia la forma di una capsula.

Capitìennula [s.f.] Parte superiore del fuso, il capitello.

Capitùestu 1 [s.m.] Arbusto che cresce vicino alla costa, i cui rami vengono impiegati per farci i mperrettati. 2 [agg.] Testardo, cocciuto.

Capitùne [s.m.] Anguilla femmina di grosse dimensioni, Anguilla anguilla L.; guarda anche ancidda.

Capìzza [s.f.] Cavezza, redini.

Capìzzi [s.m.] Capezzale, parte del letto dove si rivolge la testa; guarda anche pedizzi.

Capizzùne [s.m.] Bel giovane, personaggio, persona importante e influente.

Capòca [avv.] Parola composta da ca ‘che’ po ‘poi’ e ca ‘che’, alla lettera ‘che poiché’, si intercala nelle conversazioni per esprimere disapprovazione ‘non ci sperare’, ‘non è vero’, ‘per niente’, es.: (me divi duicientu euri) – capoca! ‘(mi devi duecento euro) – e come no!’.

Cappellu [agg.] Farina di grano duro, farina a cappellu, farina del senatore Cappelli; guarda anche casaluru.

Cappìeddu [s.m.] Cappello, berretto.

Capricciòla [s.f.] Striscette di stoffa cucite all’apertura delle federe dei cuscini e usate per chiudere con un fiocco al posto dei bottoni.

Capu 1 [s.m.] Testa, capo, sede del cervello, esempi: (lap.) chi vorre fare a puttana ppe nna capu e sarda ‘possa tu fare la puttana per una testa di sarda’, (loc.) cacciare a capu du saccu ‘togliere la testa dal sacco’ (emergere, diventare più importanti e quindi più esigenti), cce vo capu ‘ci vuole testa’. 2 Chi esercita un comando o ha funzioni direttive, presidente, capo, boss. 3 La parte superiore o iniziale di qualcosa, plurale capura, esempi: a capu du cazzu ‘la testa del cazzo’, (loc.) mo le fazzu a capu ‘adesso gli faccio la testa’ (metaforico per ‘adesso ci penso io’), ne simu affacciate e amu vistu e capura ‘ci siamo affacciate ed abbiamo visto le teste’.

Capubbànna [s.m.] Capobanda, boss.

Capùcciu [s.m.] 1 Cavolo cappuccio, Brassica oleracea L. var. capitata L.. 2 Cappuccio, di qualsiasi tipo, della penna, del giubbotto e così via.

Capùerchjula [s.f.] Prepuzio, la testa del membro, es.: si na capuerchjula e minchja ‘sei una testa di minchia’.

Capùne [s.m.] 1 Testardo, testone. 2 Chi ha la testa grossa.

Carcagghjiàre [v.tr. v.intr.] Balbettare, articolare male le parole, tartagliare, da cui carcagghjùsu ‘balbuziente’, variante caccagghjiàre.

Carcàgnu [s.m.] Calcagno, tallone.

Carcalùra [s.f.] Località di castagneti nel territorio del comune di Petronà, variante Caccalura.

Carcapàlle [s.m.f.] Alla lettera ‘schiacciapalle’, seccatore, rompiballe.

Carcàra [s.f.] Grosso e vivace fuoco domestico che si accende nei caminetti; una volta con carcara s’indicava un vigoroso fuoco impiegato per la preparazione della calce; infatti vi è una zona di campagna poco sotto il campo sportivo, che limita con Mazzaccaru e dove un tempo si cuoceva la calce, denominata proprio Carcara.

Carcaràzzu [s.m.] Gazza ladra, Pica pica L.; guarda anche pica.

Carcàre 1 [v.tr.] Atto sessuale tra i polli. 2 Calcare, pressare, premere con i piedi.

Carcariàre [v.intr.] I versi, ossia gli schiamazzi che fa la gallina quando depone l’uovo.

Càrciaru [s.m.] Carcere, prigione, variante càrceru.

Càrculu [s.m.] Calcolo, computo.

Cardarédda [s.f.] Secchio dei muratori, un tempo in metallo, ora in materiale palstico; guarda anche cueppu.

Cardatùra [v.tr.] Stigliatura, separazione a mano delle fibre dagli steli nella lavorazione delle piante tessili, come la canapa o il lino.

Cardédda [s.f.] Verdura selvatica commestibile dall’aspetto simile ad un piccolo cardo, Sonchus oleraceus L. e Sonchus asper Hill.

Cardìddu 1 [s.m.] Lucchetto, catenaccio. 2 Cardellino, Carduelis carduelis L., da cui cardiddùzzu ‘cardellino’. 3 Pene, pisello.

Cardu [s.m.] Scardasso, ovvero strumento costituito da un piccolo supporto di legno su cui sono fissati denti di ferro uncinati adoperato nella cardatura del lino; trova ancora impiego per raffinare e pettinare a mano la lana dei materassi; guarda anche cardatura.

Cardùne [s.m.] Cardo, Cynara cardunculus L.

Carìa [s.f.] Località di castagneti, confinante con la località Acqua frisca; il vuddu della Carrozzedda ne è parte.

Carìgghju [s.m.] Quercia, cerro, Quercus cerris L.

Carigghjùne [s.m] Il monte Gariglione, che insieme alla Caserma Gariglione costituiscono il confine comunale in posizione nord-ovest.

Carnàggi [s.m.pl.] Carne macellata, animali da macello, ma anche vari tipi di carne da fare alla griglia, magari in occasione di una scampagnata, es: porta i carnaggi c’arrustimu ‘porta le carni che arrostiamo’; la peculiarità rispetto all’italiano risiede nel fatto che il termine è prevalentemente usato al plurale.

Carnàra [s.f.] Affollamento, carnaio.

Carpàtu [agg.] Rugoso, persona che ha il viso molto segnato dalle rughe.

Carpinìettu [s.m.] Castagneto e contrada situati ai piedi del monte Giove.

Carpitèdda [s.f.] Località di campagna di Mesoraca in posizione sud-est rispetto al comune.

Carràcchja [s.f.] Grossa botte in legno, col tappo a lato, usata per trasportare acqua.

Carrettùne [s.m.] Mezzo di trasporto conciato molto male e per estensione persona che ha un’andatura claudicante, anche dovuta all’età, es.: nu carrettune e machina ‘un carrettone di macchina’ (un’auto molto malconcia); il termine deriva chiaramente da carretta e quest’ultima da carro.

Carriàre [v.tr.] Trasportare, trasferire, es.: e ligne è carriamu subra e re liste sutta ‘la legna la portiamo su e le liste giù’.

Carrica [s.f.] Carica, ovvero annata di raccolto abbondante delle olive. Nel comprensorio di Mesoraca gli ulivi un anno riposano, il successivo portano i frutti; ovviamente non ci sono anni i cui non ci sono frutti in assoluto e viceversa; guarda anche scarrica.

Carricàre [v.tr. v.rifl.] Caricare, sistemare carichi o fardelli su persone, animali da soma o mezzi motorizzati, caricare un congegno (la sveglia) o un’arma, imporsi un carico; anche in senso figurato, nel senso di incitare, stimolare, gasare, es.: u ru carricare ca si nno se ncazza ‘non caricarlo che se no s’incazza’. 2 Affibbiare, appioppare, gravare qualcuno di un impegno.

Carricatùru [s.m.] Grossa fune del basto, usata come legatura e dotata di nodi per regolare l’ampiezza in base al carico, in duplice copia per ogni lato della sella, es.: (loc.) mi se su attirrentati i carricaturi ‘mi si sono irrigiditi i carricaturi’ (sto gelando dal freddo).

Càrricu 1 [s.m.] 1 Nel gioco della briscola l’asso e il tre non di briscola, es.: ncugnace nu carricu ‘incuneaci (mettici) un carico’. 2 Carico, peso, soma.

Carròccia [s.f.] Mazzetto di ciliegie, es.: damme na carroccia ‘dammi un ciuffetto di cerase’.

Carrolìcchju 1 [s.m] Sentiero, viottolo, tipica stradina delle zone di campagna o di montagna, formata dal passaggio di uomini e animali. 2 Piccolo carro.

Carrozzèdda 1 [s.f.] Carrozzella, ovvero carrettino giocattolo usato dai bambini, spesso costruito artigianalmente con materiale da riciclo. 2 Nome di uno dei vuddi più belli del Vergari, non solo per la conformazione (molti scogli ove tuffarsi e cascata che funge da morbido scivolo), ma anche per la presenza di sorgenti e la bellezza del paesaggio, infatti è situato ai piedi di un versante del monte Petrara nella località denominata Carìa. In passato frequentato esclusivamente dai ragazzi del quartiere Petrarizzu.

Carrozzedda

Carrozzìna [s.f.] Passeggino, ovvero seggiolino montato su telaio a ruote, sul quale si portano a passeggio i bimbi.

Carrozzìnu [s.m.] Piccola carrozza trainata da cavalli, appannaggio, un tempo, delle famiglie ricche.

Carru 1 [s.m.] Carro, in tutte le sue accezioni dell’italiano. 2 Piccolo rudimentale “veicolo” costruito da bambini o ragazzini e costituito da una robusta tavola sulla quale sono apposti due assi muniti di cuscinetti a sfera che fungono da ruote – talvolta sono usate anche delle ruote di passeggino; l’asse posteriore è fisso, mentre quello anteriore è imperniato con un unico grosso chiodo in maniera tale che funzioni da manubrio, infatti alle estremità vengono attaccati due lacci che funzionano da “redini” e permettono di sterzare, ma non di frenare; qualcuno applica anche un sistema frenante, consistente in un pezzo di legno, montato a metà circa della tavola, che sfrega direttamente a terra e che si aziona come un freno a mano, anche questo fissato con un unico chiodo affinché ruoti; non tutti adottano questo sistema (l’altro sono i piedi), l’operazione è un po’ rischiosa, bisogna lasciare un laccio e questo espone a rischiosissime sbandate; ovviamente bisogna mettere in conto gambe sbucciate ed escoriazioni varie. Il gioco consiste nel sedersi sopra queste mini Formula 1 e lanciarsi in tanti da una discesa per vedere chi arriva per primo; ogni ruga ha il suo penninu.

Carrumàttu [s.m.] Grossa carriola in legno usata per trasportare merci.

Carticèdda [s.f.]  Documento cartaceo, spesso scritto a mano, per la sottoscrizione di accordi riguardanti cessione, acquisti e uso gratuito di beni e/o prestiti in danaro, con valore di scrittura privata.

Carticédde [s.f.pl.] Alla lettera ‘piccole carte’, ovvero ‘piccoli foglietti appuntati di qualcosa’, ‘coriandoli’, anche quelli che si lanciano allo stadio.

Cartolétte [s.f.] Dolce tipico di Natale realizzato con un impasto semplice, identico a quello per fare la cicerata, in questo caso bisogna tirare la sfoglia in maniera sottile e tagliarla a rettangoli lunghi massimo venti centimetri e larghi otto/dieci. Friggere fino a doratura, poi adagiarle su uno scolapasta per farle perdere l’olio di frittura; separatamente riscaldare del miele di castagno, poi prendere le cartolette e fare uno strato su un vassoio, spennellarle con il miele e poi fare un altro strato; servire il giorno dopo.

Carusàre [v.tr.] Tagliare, tosare i capelli molto corti.

Carusìeddu [s.m.] Salvadanaio, letteralmente piccolo fanciullo, in siciliano carùsu significa bambino, variante carosìeddu.

Carveddìse [s.m.] Figa, passera.

Carvunàru [s.m.] Carbonaio, lavoratore specializzato nella preparazione del carbone; attività ancora presente in molte zone della regione, ad esempio nelle Serre.

Carvùnchju 1 [s.m.] Carbonchio, malattia provocata dal batterio Bacillus anthracis Cohn. 2 Malattia del grano. 3 Grosso foruncolo, pustola, es.: (lap.) chi te vorra nescire nu carvunchju aru culu ‘possa venirti fuori una pustola al culo’; guarda anche tracina.

Carvùne [s.m.] Carbone, es.: niguru cuemu u carvune ‘nero come il carbone’.

Casalìni [s.m.] Località di campagna posta nella parte più a valle di Mesoraca, immediatamente sotto il rione Campu; è in questa zona che si trovano alcune grotte probabilmente abitate già nel neolitico.

Casalìnu [s.m.] Diminutivo di casale, il termine stesso denota l’origine umile di questo tipo d’abitazione; infatti, la maggior parte di queste costruzioni sono abbandonate da lungo tempo e sono diventate sinonimo di casa in rovina, casupola.

Casalùru [agg.] Casareccio, fatto in casa, il termine, come in italiano, è impiegato per indicare qualsiasi cibo che non sia di derivazione industriale; il casaluru per eccellenza è il pane; guarda anche pane.

Pane casaluru (per una fatta di pane): 70 kg di farina (a seconda della tradizione, in media si usa metà tennara e metà accappellu), 1,5 kg di levatu, 1 kg di sale.

Procedura: fare la levatina nel pomeriggio, unendo dieci chili di farina di grano duro ed il levatu, aiutandosi con acqua (abbastanza calda in inverno e tiepida d’estate); lavorare bene l’impasto e successivamente coprirlo; infine, a volte, si recitava questa semplice filastrocca criscia criscia levatina cuemu criscia Gesù bambino ‘cresci cresci levatina come cresce Gesù bambino’. Dopo una decina di ore sciogliere la levatina con acqua calda, quanto basta per amalgamare il resto della farina, quindi aggiungere il sale e impastare a mano il tutto per circa un’ora e mezza; aiutarsi ancora con acqua calda quando necessario. Far asciugare bene dall’acqua, suddividere poi l’impasto in pezzi grandi e riporli dentro grosse ceste (cistuni), addobbati con tovaglie di lino, fare una croce sulla pasta e recitare un’altra filastrocca criscia pasta criscia tantu, criscia n’atra tanta ‘cresci pasta cresci tanto, cresci un altro tanto’. Coprire con tovaglie e coperte e lasciare riposare per un’ora e mezza. Tagliare la pasta a pezzi, pesarli, dargli la forma del pane (scanare) e successivamente adagiarli su degli appositi ripiani di legno; per avere un chilo e mezzo di pane cotto viene pesato 1,7 kg di pasta, per una pitta da 750 grammi viene pesato un chilo di pasta. Coprire i pezzi così formati per un’ora e mezza ancora. Sui pani vengono fatte diversi tipi di tacche, la più comune è quella cosiddetta a quattru uruli, ossia un quadrato; a cruce, ma non tutti la preferiscono, a meno che non sia per pochi pani e nel periodo di Natale o Pasqua. La legna usata per preparare il forno è generalmente di pino o di faggio, molto ricercate le frasche di ulivo, irica, scini, spulitri, oggi vengono adoperati listelli di pino, se ne bruciano circa due mazzi; in seguito si tirano le braci, si portano vicino alla bocca del forno e si coprono con cenere ed un pezzo di lamiera. Pulire il pavimento del forno da braci e carbone residuali, adoperando un palo con alla sommità uno straccio (scupulu du furnu). È giunto il momento di infornare, per prima cosa si mettono a cuocere le pitte (10 o 15 minuti a seconda della grandezza della pitta) e dopo il pane (un’ora di cottura).

Cascatùru [s.m.] Grosso setaccio, simile al grimune, impiegato nella cernita delle castagne secche.

Cascétta [s.f.] Cassetta, cassa di piccole dimensioni dotata di coperchio.

Cascettùne 1 [s.m.] Cassettone, canterano. 2 Ferrovecchio, sfasciume. 3 [agg.] Persona falsa, ciarliera, chiacchierona.

Cascia [s.f.] Baule e per estensione cassa, scatola.

Casciabbàncu 1 [s.m.] Cassapanca, variante casciabbanca. 2 Mobile vecchio e malmesso.

Casciòtta 1 [s.f.] Il contenitore in legno dei fruttivendoli usato per contenere frutta o verdura, es.: na casciotta e portugalli ‘una cassetta di arance’. 2 Cassa di piccole dimensioni, scatola; casciottèdda ne è il diminutivo ma anche metafora di bara, cassa da morto, es.: aspiettu a casciottedda ‘aspetto la morte’. 3 Automobile molto malmessa, in pratica da demolire; guarda anche cascettune nel secondo significato.

Casciùettu [s.m.] Scatolone di cartone.

Casciùne 1 [s.m.] Bara, cassa da morto, sinonimo di tavùtu. 2 Grossa cassa di legno, fino alla metà del secolo scorso adoperata per conservare derrate alimentari, come grano o legumi; è suddivisa in due scomparti, alta circa un metro e mezzo e larga uno.

Casèdda [s.f.] Piccola casetta di campagna o di montagna (baita) fatta di tavole e pietre; usata come riparo temporaneo, sia se si portano a pascolare le greggi sia se si eseguono lavori di raccolta, come le castagne o le olive; guarda anche caseddùne.

Caseddùne [s.m.] Come casedda, solo molto più grande e quindi può trovare alloggio anche il gregge.

Casìnu [s.m.] Casa agricola signorile, composta da più unità; i più famosi casini sono Casinu e Stranci ‘Casino di Stranges’ e Casinu Zinzi, il primo vicino alla località Campizzi, ossia dove è ubicato il campo sportivo, il secondo dal cognome di un altro ricco latifondista, posto nel confine del territorio comunale in posizione sud, il territorio più vicino al mare.

Cassalòra [s.f.] Casseruola, pentola, variante cassaròla, mentre cassalorìeddu, il suo diminutivo, viene impiegato per descrivere il ‘pentolino’.

Càssida 1 [s.f.] Cassetta del telaio che regge il pettine. 2 Tipo di fodera usata per farne tasche in molti tipi di vestiti.

Castagnàru [s.m.] Persona che coltiva, commercia o è impiegata nella raccolta e lavorazione delle castagne; guarda anche pastiddi.

Castìeddu 1 [s.m.] Castello, rocca. 2 Rione di Mesoraca confinante con la Nuzziàta e il Timpùne; sulla sommità di questo rione un tempo sorgeva un castello, oggi ne rimangono visibili tracce. Probabilmente il primo castello costruito su questa altura risale al XII secolo abitato dal feudatario De Pagliara, successivamente con l’arrivo degli Svevi, Federico II concesse il “Castrum di Mesuratae” a Pietro Ruffo di Calabria. Subentrarono gli Aragonesi e poi i Francesi dai quali i mesorachesi si difesero da soli, ma poi maltrattati e stuprati “nell’honore e nella robba senza discrettione” dal marchese Caracciolo, assaltarono il castello e uccisero quasi tutta la famiglia; fu Ferrante Spinelli a riedificare (restaurare pesantemente) il castello, ma anche a vendicarsi (ASC).

                                                                                                 Castieddu

Casu [s.m.] Formaggio, cacio, in genere pecorino, esempi: casu du quagghju ‘cacio del caglio’ (formaggio pecorino infestato dalle larve di una mosca, Piophila casei L.), (loc.) manciate chiddu chi vue è lassate a vucca a casu ‘mangia quello che vuoi e lasciati la bocca a formaggio’ (sembra che lasciare la bocca col sapore di cacio sia cosa buona), (loc.) ha dittu u surice aru casu, damme tiempu ca te cupu (o te rusicu) ‘ha detto il sorcio al formaggio, dammi tempo che ti cavo – o ti rosico (col tempo riuscirò a fare ciò che mi ero prefissato).

Casùeppulu [s.m.] Baracca, casupola.

Catabùbbu 1 [s.m.] Persona chiusa, che parla e socializza poco. 2 Grosso impiccio, grattacapo, altrove in Calabria ‘locale sotterraneo buio e piccolo’.

Catafàrcu [s.m.] Catafalco, oggetto voluminoso.

Catafàssu [s.m.] Vecchio mobile ingombrante, variante catafràssu.

Catafùne [s.m.] Persona grossa, omone.

Catàmparu [agg. s.m.]  Persona di sesso maschile molto vecchia, fragile di salute, es: è nu catamparu ‘è uno molto vecchio e malandato’.

Catamùne [s.m.] Masso, grosso scoglio di fiume.

Catanànnu [s.m.] Bisnonno.

Catapàsimu [s.m.] Impiastro, persona che ingombra, ma anche persona piena di acciacchi.

Catapìezzu [s.m.] Persona alta e robusta, marcantonio.

Catarràttu [s.m.] Apertura, botola.

Caterinèdde [s.f.pl.] Capricci, bizze, lagne, es.: u fare caterinedde ‘non fare storie’.

Catìna [s.f.] Catena in senso stretto, ma anche stratagemma adottato dai falegnami usando cunei e pezzi di legno in sostituzione delle morse in ferro, le quali rovinerebbero il legno.

Catinàzzu [s.m.] Catenaccio, lucchetto.

Catòja 1 [s.f.] Sgabuzzino esterno o sottoscala, dove di solito venivano rinchiuse le galline. 2 Tugurio, umilissima et sudicissima abitazione.

Catòne [s.m.] Grosso bidone, spesso riferito a quello della spazzatura, quando ancora non si faceva la differenziata e distribuiti in varie parti del paese, es.: jettalu intr’u catone de munnizze ‘buttalo dentro al cassonetto della spazzatura’.

Catràmma [s.f.] Catrame, asfalto.

Catrèa [s.f.] Schiena, parte inferiore della spina dorsale, es.: mi cci’aju ruttu a catrea ‘mi ci sono spezzato la schiena’; guarda anche scatreare.

Catrìcchju [s.m.] Aggeggio, strumento, macchinario, malmesso e di poco valore, perché molto usato o non originale, variante catrìcchja.

Cattiva [agg. s.f.] Vedova, donna alla quale è morto il marito, es.: è rimasta cattiva ‘è rimasta vedova’; parola poco adoperata, ancora più di rado è usato anche il maschile.

Catu [s.m.] Secchio, catino, anche nella variante quatu o cuatu, esempi: nu catu e stierru ‘un secchio di calcinacci’, u catu de munnizze ‘il secchio della spazzatura’.

Catùsu [s.m.] Condotto sotterraneo per il convoglio delle acque; per estensione, con tale termine viene anche indicato il tombino.

Cavàdda 1 [s.f.] Cavalla, Equus caballus L., da cui cavaddùzzu ‘cavallo giovane’, (loc.) pari nu cavaddu e parata ‘sembri un cavallo da parata’ (persona che si atteggia, che si mette comodo). 2 Usare smodatamente un mezzo di locomozione come un motorino o una bici, es.: cc’e fattu a cavadda a chidda brigichetta ‘c’hai fatto la cavalla a quella bici’ (hai quasi scassato la bici con l’uso smodato che ne hai fatto); guarda anche cavadduniare.

Cavaddàru 1 [s.m.] Architrave in legno, ossia l’elemento che divide a due metà il tetto di una casa, in particolare s’intende quello delle case usate dai lavoratori della montagna o della campagna; guarda anche casedda e custana. 2 Cavalletto ad incastro.

Cavaddìna [agg.] Qualcosa che è riferito al cavallo, in particolare la mosca cavallina, con questo termine è indicato sia il tafano (Tabanus bovinus L.) che la mosca cavallina propriamente detta Hippobosca equina L.; entrambe sono ditteri, si somigliano, ambedue succhiano sangue sia bovino che equino e non disdegnano naturalmente quello umano.

Cavadduniàre [v.tr.] Spassarsela in maniera esagerata, scalpitando come i cavalli, scavallare; il termine spesso si riferisce al divertimento procurato dall’andare in giro con un mezzo come un’auto o una bici; variante cavaddiàre, cfr azziare.

Cavagghjùne [s.m.] Covone fatto da una cinquantina di fasci di grano (gregne), ma anche insieme di fasci di lino accumulati come un covone, (loc.) facimu festa e cavagghjiuni sabatu duminica e luni! ‘facciamo festa e covoni, sabato domenica e lunedì’ (facciamo festa lunga).

Cavarcatùra [s.f.] Cavalcatura, ovvero cavallo o altra bestia da sella.

Cavìgghja [s.f.] Caviglia, collo del piede.

Cavìżżu [s.m.] Cavillo, vizio.

Càvuce 1 [s.m.] Calcio, pedata, es.: te jiettu nu cavuce si u tta finisci ‘ti tiro un calcio se non te la finisci’. 2 [s.f.] Calce, esempi: rimina cavuce e cimentu ‘impasta calce e cemento’, (loc.) ce pierdi a cavuce e a rina ‘ci perdi la calce e la sabbia’ (proverbio che si dice quando si vuole sottolineare che facendo un determinato lavoro si corre il rischio di rimetterci).

Càvudu [agg. s.m.] Caldo, afa, calura.

Cavùne 1 [s.m.] Burrone, dirupo alla cui base in genere scorre un torrente, es.: (lap.) te viennu u te ncavuni a na rasa e cavune ‘possa vederti cadere in un angolo di burrone’; guarda anche timpa. 2 Zona di Mesoraca compresa, grosso modo, tra via R. La Rosa e via Roma.

Càvuzi [s.m.] Pantaloni, calzoni, esempi: (loc.) a santi ccu ri cavuzi u lle dire patarnuesti ‘a santi con i pantaloni non dirgli padrenostri’ – rosari (le pulzelle non devono farsi ingannare da chi porta i pantaloni, poiché non è un santo ma un uomo), (loc.) calare i cavuzi ‘calare i pantaloni’ (essere accomodabili, a discapito di un po’ di dignità).

Cavuzunìeddi [s.m.] Letteralmente ‘calzoncini’, ‘piccoli pantaloni’, il significato è quindi di mutande o mutandoni.

Cavuzutìsu [agg. sm.] Letteralmente ‘pantalone teso’ e cioè dei pantaloni puliti e non sgualciti; il termine è impiegato figurativamente per descrivere tutti quei mestieri in cui non ci si sporca molto, non si fatica granché, ad esempio sarti, calzolai, negozianti; per estensione il termine è anche adoperato per indicare una persona che lavora poco o non ne ha molta voglia, es.: (loc.) si vue manciare pane majise te piare nu riccu massaru, ca si te pii nu cavuzutisu u ti cce mprighi ccu ru mulinaru ‘se vuoi mangiare pane a maggio ti devi prendere un ricco massaro, che se ti prendi un cavuzutisu non ci bisticci col mugnaio’.

Cazzarédda [s.f.] Ragazzina vispa e briosa.

Cazzarìeddu 1 [s.m.] Ragazzino vivace e birichino. 2 Piccolo contenitore, anche oggetto di poco conto.

Cazzarrunàti [s.m.] Cose o oggetti inutili, in ogni caso di poco conto, es.: cce su sulu cazzarrunati intra chiddu tiraturu ‘ci sono solo oggetti di poco conto dentro quel cassetto’.

Cazzecatùmmula [s.f.] Capriola, capitombolo, variante cozzicatùmmula.

Cazzeddùsu [agg.] Permaloso, scontroso, incazzoso.

Cazziàre [v.tr.] Rimproverare, redarguire in maniera pesante, alla lettera ‘picchiare col cazzo’.

Cazziàta [s.m.] Sgridata, rimprovero, da cui l’accrescitivo cazziatùne ‘grossa ramanzina con parole pesanti’, ‘sfuriata’.

Cazzìdda [s.f.] Stizza, irritazione, malumore.

Cazzu [s.m.] Cazzo è una parola della lingua italiana, considerata volgare e che indica il pene. Non è un semplice sinonimo del termine anatomico, bensì rappresenta una forma dell’espressività letteraria, cinematografica e popolare; nel nostro dialetto rappresenta l’alternativa a minchja, ovviamente con gli stessi correlati semantici e all’incirca con la stessa frequenza d’uso. Talvolta nella lingua parlata può essere utilizzato per il compiacimento nell’uso di un termine proibito o di registro eccessivo, il che non può essere reso dal semplice uso di “pene!”, alcune volte è anche usata una sua variante femminile cazza, esempi: e cchi cazzu! ‘e che cazzo!’, m’aju scialatu u cazzu ‘mi sono ristorato il cazzo’ (l’anima), m’e ruttu u cazzu ‘mi hai rotto il cazzo’, u cazzu chi te chjava nculu ‘il cazzo che ti fotte in culo’, u cazzu chi te strafrica ‘il cazzo che ti strafotte’ (vaffanculo), stasira c’è a cazza da partita ‘stasera c’è la cazzo di partita’. Il termine è usato piuttosto spesso nella lingua parlata anche senza correlativo semantico, con la funzione linguistica di “rafforzativo del pensiero”, ovvero come un intercalare con funzione emotiva per rendere un’espressione colorita o enfatica (Wiki), esempi: u mme rumpare u cazzu ‘non mi rompere il cazzo’ (non scassarmi l’anima), (loc.) fatti i cazzi tui, ca campi viecchju ‘fatti i cazzi tuoi che campi vecchio’, (loc.) nne cunti cazzi! ‘ne racconti cazzi’ (racconti stronzate), (loc.) ha dittu a pica aru carcarazzu ca s’u fatighi te manci stu cazzu! ‘ha detto la gazza alla gazza ladra che se non lavori ti mangi sto cazzo!’ (altro modo per dire ‘alza il culo e muoviti!’). Nel dialetto parlato non di rado è impiegato per indicare assenza di qualcosa, esempi: ci nn’ha cazzi! ‘ce n’è cazzi! – a voglia’ (non c’è niente), ud è cazzu du tue ‘non è cazzo (del) tuo’ (si intercala per sottolineare all’interlocuore che non è in grado di fare una certa cosa, per scarse doti intellettuali e/o di forza fisica); cfr nnugghja, tuetula, pisciola e minchja.

Cazzunàggine [s.f.] Stupidità, dabbenaggine, o per rimanere in tema, coglionaggine, (loc.) ara cazzunaggine u ci nn’ha medicina ‘alla cretinaggine non ce n’ha (n’è) medicina’.

Cazzùne [s.m.] Individuo sciocco, deficiente per antonomasia, talvolta imbecille nella definizione che ne dà Umberto Eco, esempi: (loc.) e vennari e de luni se spusanu i cazzuni ‘di venerdì e di lunedì di sposano i coglioni’ (un tempo non conveniva sposarsi in questi giorni poiché la gente lavorando duro tutti i giorni, tranne la domenica, difficilmente sarebbe intervenuta con una busta), (loc.) cazzune cazzunazzu, nn’avie tre e ne volie quattru ‘cazzone cazzonaccio, ne avevi tre e ne volevi quattro (proverbio utile a chi non si contenta mai, simile nel significato all’italiano ‘chi troppo vuole nulla stringe’).

Cca [avv.] Qua, qui, anche nella forma epitetica ccadi, esempi: gira de cca ‘gira di qua’, cca e fore de cca ‘qua e fuori di qua’ (intercalare tipico calabrese e del gergo malavitoso usato quando si vuol dare forza ad una certa affermazione), antura era ccadi ‘un momento fa era qui’.

Ccadulìddu [avv.] Poco più in qua, un po’ più in qua, qua vicino, è sempre preceduto dall’avverbio cchjù ‘più’, esempi: cchjù ccaduliddu da porta ‘(poco) più in qua della porta’, spostate cchjù ccaduliddu ‘spostati (un po’) più in qua’; cfr ddaduliddu.

Cce [pron.] Guarda ce.

Ccedi [pron.] Guarda ce settima accezione.

Cchi [pron.rel.int.] Guarda chi.

Cchjù [avv. agg.compar. s.m.inv.] Più, di più, varianti rafforzative cchjùdi o cchjùni ‘ancora un poco’ o un po’ di più’, non di rado viene usata anche la forma raddoppiata cchju-cchjù con il significato di ‘più che altro’, esempi: cchjù pilu ppe tutti ‘più pelo (gnocca, sesso) per tutti’, u cc’è vidu cchjù ‘non ci vedo più’, (loc.) vai cercannu a tila cchjù fina, e cchjù grossa te vena a trama ‘vai cercando la tela più fine, e più grossa ti viene la trama’  (a volte fare le cose puntigliosamente produce effetti contrari a quelli desiderati), (loc.) mamma e gioventù su due cose chi s’apprezzanu quannu u cce su cchjù ‘mamma e gioventù si apprezzano quando non ci sono più’, (loc.) a lingua maligna è cchjù brutta da gramigna ‘la lingua maligna è più brutta della gramigna’, (loc.) sa cchjù u pazzu in casa sua ca u saviu in casa e l’atri ‘sa più il pazzo in casa sua che il savio in casa degli altri’ (il pazzo sa farsi i fatti propri mentre il savio s’impiccia), u cchjù è fattu ‘il più è fatto’, cchju-cchjù ppe ttie u fazzu ‘più che altro per te lo faccio’, mintaccenne cchjudi ‘metticcene di più’.

Ccu [prep.] Preposizione semplice con, esempi: va’ ccu patritta ‘vai con tuo padre’, ccu ll’uecchji strividdicati ‘con gli occhi strabuzzati’, (loc.) ccu l’amici tui patti chjari ‘con gli amici tuoi patti chiari’; spesso questa preposizione nella pronuncia si trova unita ad alcuni pronomi personali ccummìe ‘con me’, ccuttìe ‘con te’, ccuvvùe (o ccubbùe) ‘con voi’; guarda anche cu.

Ce 1 [pron.dim.] Pronome dimostrativo ‘ci’ o ‘ce’, assume la forma forte cce quando preceduto dalla negazione u o dalla congiunzione e, esempi: u cce vidu ‘non ci vedo’, u cce puezzu fare nente ‘non ci posso fare niente’. 2 [pron.pers.] Pronome personale ‘ci’, esempi: nue ce jamu ‘noi ci andiamo’, ce vulerramu pulizzare ‘ci vorremmo pulire’; per la stessa funzione guarda anche ne. 3 [avv.] Avverbio di luogo ‘ci’, esempi: a funci ce vaju a duminica ‘a funghi ci vado domenica’, mo ce simu ‘adesso ci siamo’. 4 [loc.verb.] Come in italiano è anche adoperato in locuzioni verbali con valore indefinito, esempi: io ce staju si iddu ce sta ‘io ci sto se lui ci sta’, ce vulerra nu pocu e furtuna ‘ci vorrebbe un poco di fortuna’. 5 [pron.pers.comb.] Pronome cce (ce) combinato con il pronome e (le), la grafia corretta è cc’e, esempi: cc’e bbue e pira? ‘ce le vuoi le pere?’, cc’e mintu domane i chjantuni ‘ce li metto domani i polloni’ (da notare che cc’e rimane invariato anche per il maschile ‘li’; guarda anche ci. 6 [pron.pers.comb.] Il pronome cce (ci) combinato con il verbo essere è, es.: cc’è sorta? ‘c’è tua sorella?’; spesso, in risposta ad una domanda, è usata la forma cc’èdi, con ‘di’ in funzione epitetica, es.: (A) cc’è patritta? (B) u cc’èdi ‘(A) c’è tuo papà? (B) non c’è’. 7 [s.m.] Apocope del nome Cenzu, a sua volta aferesi dell’italiano Vincenzo, anche nella sua forma raddoppiata Cecè, es.: Cè due stai jiennu? ‘Vincè dove stai andando?’.

Cecàtu [agg. s.m.] Cieco, non vedente, es.: (loc.) i sordi fanu venire a vista ari cecati ‘i soldi fanno tornare la vista ai ciechi’.

Cedamìedu [s.m.] Tegola a coppo, esempi: quasi nessunu fa cchjù i tetti ccu ri cedamiedi ‘quasi nessuno fa più i tetti con le tegole a coppo’, ccu nu cedamiedu cc’aju fattu na funtanedda a nna sorgiva ‘con un coppo ci’ho fatto una fontanella ad una sorgente’.

Ceddàru [s.f.] Cantina, locale adibito per conservare il vino, es.: (loc.) si vue inchjire u tue ceddaru, zappa e puta intra jennaru ‘se vuoi riempire la tua cantina, zappa e pota in gennaio’.

Centupìezzi [s.m.] Letteralmente ‘cento pezzi’, ossia parte dello stomaco bovino così chiamato per via delle numerose pliche e fogli.

Cerasa [s.f.] Ciliegia, Prunus avium L., la specie più diffusa, esempi: (loc.) e parole su cuemu e cerase, ne tiri una e ne venanu tante ‘le parole sono come le ciliegie, ne dici una e ne viene un grappolo’, (loc.) ccu ru culu ruttu e senza cerase ‘con il culo rotto e senza ciliegie’ (lavoro fatto e non pagato, ma anche persona prima illusa e poi ingannata, come una donna (o uomo) lasciata dopo esserci stati a letto), (loc.) te canusciu e quann’ere nu cerasu e ncapu nn’avie tre cocce ‘ti conosco da quando eri un ciliegio e in cima ne avevi (solo) tre chicchi’ (metafora per ‘ti conosco da tanto tempo’; simpatica la storiellina che c’è dietro: un contadino piantò un ciliegio, con gli anni l’albero crebbe e diventò grande, solo che non portava frutti; il contadino decise di tagliarlo con l’intento di farne un crocefisso; così fece, regalò il manufatto alla sua parrocchia; il contadino col tempo vi si recava spesso per chiedere delle grazie (vincite, fortune ecc.); un giorno il sagrestano sentendolo per l’ennesima volta fare richieste, prese e si nascose dietro il crocefisso e, imitando la voce del Signore, disse “devi andare a lavorare”; il contadino, memore che quel crocefisso fu costruito da un ciliegio che non portava frutti, non si fece incantare e pensò ‘e io sto qui a chiederti grazie, non portavi frutti da albero figuriamoci se fai miracoli!’, allora esclamò te canusciu e quann’ere nu cerasu).

Cercàre 1 [v.tr.] Adoperarsi per trovare qualcuno o qualcosa. 2 Chiedere, questuare, es.: (loc.) u mare cerca acqua e tu cierchi sempre sordi ‘il mare domanda acqua e tu chiedi sempre soldi’ (frase spesso riferita a figli spendaccioni, guarda anche cercataru).

Cercatàru [s.m.] Scroccone, persona con l’attitudine a chiedere, elemosinare.

Cerceddìna [s.f.] Località di campagna di Mesoraca, in posizione nord-est rispetto al comune, variante Ciarceddìna.

Cernavìentu [s.m.] Alla lettera ‘cerni-vento’ ossia persona che si adopera in azioni inutili o inefficaci, specie agli occhi di un datore di lavoro o in generale della gente, perditempo, (loc.) maritumma se chjama cernavientu e io me chjamu la scanzafatiga ‘mio marito si chiama cerni-vento ed io la scansafatica’ (siamo una bella coppia).

Cernìre [v.tr.] Cernere, distinguere, setacciare.

Cerràta [s.f.] Scherzo ormai caduto in disuso, poco bello e poco igienico, effettuato da ragazzi e ragazzini, consistente nell’atterrare un compagno preso di mira per l’occasione, immobilizzarlo in tre o quattro persone, nel frattempo qualcun altro provvedeva a raccogliere delle erbacce o altre schifezze, talvolta spazzatura di strada, dopodiché gli slacciava i pantaloni e svuotava il contenuto nelle mutande, infine il malcapitato veniva liberato fra le risate generali.

Cerrédda [s.f.] Capelli scombinati, termine adoperato per indicare i capelli disordinati delle bambine.

Cerrìgghja [s.f.] Vaso, brocca di terracotta (oggi anche in plastica) usato per bere.

Cervèdda [s.f.] Cervello, anche se è indicata la forma plurale, probabilmente per indicare il doppio emisfero.

Cervìeddu 1 [s.m.] Cervello, emisferi cerebrali. 2 Capretto, variante ciarvìeddu, da cui cerveddùzzu ‘capretto da latte’, variante ciarvieddùzzu, es.: (loc.) duve va a crapa va a ciarvedda ‘dove va la capra va la capretta’ (dove va la mamma va la figlia).

Cerza [s.f.] Quercia, Quercus ilex L., da cui cerzòla ‘quercia giovane figlia di una più grande vicino’.

Cerzìtu [s.m.] Località di campagna (uliveti) confinante con la località Mazzaccaru, variante Cerzitìeddu.

Cessu [s.m.] Cesso, gabinetto, latrina.

Chi1 [cong.s.] Congiunzione subordinativa ‘che’, esempi: (lap.) chi te viennu u t’ammazzanu ‘che possa vederti ammazzato’, doppu chi l’e stufuliatu ce minti u pumadueru ‘dopo che lo hai stufato ci metti il pomodoro’; guarda anche ca.

Chi2 [pron.rel.] Pronome relativo ‘che’ (o cui), esempi: u figghju chi fa l’avvocatu ‘il figlio che fa l’avvocato’, ciercu ancunu chi m’aiuta a carriare e ligne ‘cerco qualcuno che mi aiuti a portare la legna’, c’eranu perzune chi se facianu i cazzi sui ‘c’erano persone che si facevano i cazzi propri’, a stessa machina ch’avia l’annu scorsu ‘la stessa auto che aveva l’anno scorso’, u cumpari chi t’aju parratu u ppo benire ‘il signore cui ti ho parlato non può venire’; assume la variante cchi (o cchid davanti al verbo essere, avere e dovere) nell’uso interrogativo, esempi: cchi bbue? ‘che vuoi?’, cchi ti nne frica? ‘che te ne frega?’, e cchi bbue, n’ame cuntentare ‘e che vuoi, ci dobbiamo contentare’ (e che ci vuoi fare), cchid’è su strusciu? ‘che è questo rumore?’), cchid’è chi vue? ‘cos’è che vuoi?’, cchid’è? U tte sientu! ‘cosa c’è? Non ti sento!’,  cchid’ha, u sta bbuenu? ‘cos’ha, non sta bene?’, cchid’é fare oje? ‘cosa devi fare oggi?’; davanti ad una frase o domanda non udita o non capita correttamente, non è infrequente udire la forma epitetica cchidi?, traducibile con ‘che cosa?’, es.: (A) va piame u cuteuzzu (B) cchidi? (A) va piame u curtedduzzu ‘(A) vai a prendermi il coteino (B) che cosa? (A) vai a prendermi il coltellino’.

Chìccara [s.f.] Tazzina per il caffè, variante chiccarèdda.

Chiccariàre [v.intr.] Bere molto e disordinatamente, “bicchierare”, es.: anu chiccariatu tuttu u pomeriggiu ‘ha bevuto tutto il pomeriggio’.

Chìccaru [s.m.] Termine generico che indica un recipiente di piccole dimensioni, barattolo, tazza, bicchiere, anche se quasi sempre è indicato un barattolo di latta, esempi: u chiccaru di pelati ‘il barattolo (di latta) dei pelati’, pia nu chiccaru intr’u stipu ‘prendi un bicchiere nello stipo’, u chiccarieddu da carne ‘il barattolino della carne’.

Chidda [agg.dim. pron.dim.] Quella, maschile chiddu ‘quello’, plurale chidde ‘quelle’ e chiddi ‘quelli o quei’, esempi: damme chidda paletta ‘dammi quella paletta’, a chiddi tiempi u cci nn’era luce ara Fratta ‘a quei tempi non c’era luce alla Fratta’, chiddu ddà ‘quello là’, chidde da scola elementare ‘quelle della scuola elementare’, (loc.) chiddu chi è scrittu ncielu, nterra u ppo mancare ‘quello che è scritto in Cielo in terra non può mancare’ (poiché il destino è scritto dal Signore inesorabilmente si rifletterà sulla terra), (loc.) a fine è chidda chi cunta ‘la fine è quella che conta’ (ride bene chi ride ultimo), (loc.) chiddu c’u vvue ppe ttie ad atri u fare ‘quello che non vuoi per te ad altri non fare’, (loc.) e miegghju parole su chidde c’u sse dicianu ‘le migliori parole sono quelle che non si dicono’ (se devi sparlare è meglio che tu stia zitto, campi vecchio), (loc.) chiddu chi tieni ara mente u ru dire aru dente ‘quello che hai alla mente non lo dire al dente’ (proverbio dal significato simile al precedente); spesso il termine si trova legato al pronome indefinito atru (con funzione di sostantivo) chiddàtra ‘quell’altra’, chiddàtru ‘quell’altro’, chiddàtre ‘quelle altre’ e chiddàtri ‘quegli altri’, esempi: cchi bbo chiddatru? ‘che vuole quell’altro?’, …chissu chiddatru… ‘…questo quell’altro…’ (e così via, oppure eccetera eccetera).

Chimàncu [avv.] Molto, assai, unione delle parole chi ‘che’ e mancu ‘manco’, ma anche ‘che nemmeno’ se separate, esempi: (A) cci nn’ha ficu a su pede? (B) cci nn’ha (o cci nn’è) chimancu (A) ‘ce n’ha (o ce n’è) fichi a questo albero?’, (B) ‘ce n’è tante’, chi mancu li cani ‘che nemmeno i cani’; il termine è anche impiegato per esclamare davanti a qualcosa di inaspettato o esagerato, in questo caso traduce espressioni come ‘che successe!’, ‘e che cavolo!’, es.: e chimancu! ‘e che cazzo!’ (oppure ‘porca miseria!’).

Chine 1 [pron.rel.] Pronome relativo ‘chi’ (colui il quale), con paragoge di ‘ne’, esempi: chine appiccia u fuecu pue l’ha d’astutare ‘chi accende il fuoco poi lo ha da spegnere’, c’è chine dicia ca sì ‘c’è chi dice che sì’, (loc.) chine te vo bene te fa ciancire, chine te vo male te fa ririre ‘chi ti vuol bene ti fa piangere, chi ti vuol male ti fa ridere’ (chi ti fa ridere dimostra superficialità, al contrario di chi ti fa piangere), (loc.) chine se guardau (o spagnau) se sarvau ‘chi si guardò (o si mise paura) si salvò’ (chi pone più attenzione si avvantaggia), (loc.) chine te sapa, te rapa ‘chi ti conosce ti rapisce’ (chi ti conosce ti sa far aprire), (loc.) chine male fa male aspetta, tardare u ppo ma arriedi u resta ‘chi male fa male aspetta, tardare non può ma indietro non resta’ (la pagherà, e se non gliela faccio pagare io gliela farà pagare il Signore), (loc.) chine prima u penza doppu suspira ‘chi prima non pensa dopo sospira’, (loc.) chine te vo bene cchjù de nu patre e de na mamma o te trada o te nganna ‘chi ti vuol bene più di un padre e di una mamma o ti tradisce o ti inganna’, (loc.) chine pocu ha, caru s’u tena ‘chi poco ha, caro se lo tiene’, (loc.) chine e speranza campa, disperatu mora ‘chi di speranza campa disperato muore’, (loc.) chine puntu passa cent’anni dura ‘chi punto passa cent’anni dura’ (chi supera una determinata avversità – una sventura, una disgrazia – è come se avesse vissuto una vita intera), (loc.) chine u sse fa l’affari sui ara casa sua, cu a lunterna va cercannu guai ‘chi non si fa gli affari suoi a casa propria, con la lanterna va cercando guai’ (normalmente bisogna farsi i cazzi propri per campare cent’anni, questo proverbio è ancora più stringente, bisogna farseli anche a casa propria; in passato era spesso riferito ai tradimenti amorosi), (loc.) chine in vita non ti dona a morte è na cogliona ‘chi in vita non ti dà a(lla) morte è una burla’ (una persona che non ha avuto riguardi verso un’altra persona che adesso non c’è più, ne avrà ancora meno dopo la morte), (loc.) amaru chine pata ‘amaro chi patisce’, (loc.) chine tuttu vo’, tuttu perda ‘chi tutto vuole, tutto perde’ (proverbio adatto a persone ciniche e insaziabili, identico, nel significato, all’italiano ‘chi troppo vuole nulla stringe’). 2 [pron.rel.int.] Pronome interrogativo ‘chi’ (quale persona), esempi: chin’è l’urtima? ‘chi è l’ultima?’ (domanda che si pone quando si è davanti ad una fila non ordinata, specie dal medico), chine s’u pia? ‘chi se lo prende?’, va vida chin’é ‘vai a vedere chi è’, chin’é c’u bbena? ‘chi è che non viene?’, e chine su chissi? ‘di chi sono questi?’, chine mi l’ha mannatu su discurzu?! ‘chi me l’ha mandato questo discorso’ (frase che si intercala davanti ad una cattiva notizia, usata spesso anche in forma scherzosa).

Chissu [agg.dim. pron.dim.] Guarda chistu.

Chistu 1 [agg.dim.] Questo, variante chissu o stu (aferesi dell’antico esto), femminile chista o chissa, esempi: chistu cca u sse tocca ‘questo qua non si tocca’, chissu è nu latru ‘questo è un ladro, e stu guagliune mi nne pisa ‘di questo ragazzo me ne dispiace’, chissa e chidda ‘questa e quella’. 2 [pron.dim.] Pronome dimostrativo, esempi: chissu è u mmerda e fratimma ‘questo è il merda di mio fratello’, chissu u ru vuegghju ‘questo non lo voglio’, chistu sì, chistu jettalu ‘questo sì, questo buttalo’, chissa m’è nova ‘questa mi è nuova’, chissu dicia ca vo pane (1), chissu dicia c’u nn’avimu (2), chissu dicia u l’arrubamu (3), chissu dicia u ru mpennimu (4) e chissu dicia: piripiriddu piripiriddu apara a cascia ca ti nne pigghju, ti nne pigghju pane e casu, vena a gatta (5) e te scippa u nasu (6) ‘questo dice che vuole pane, questo dice non ne abbiamo, questo dice di rubarlo, questo dice di appenderlo e questo dice:  piripiriddu piripiriddu apri la cassa che te ne prendo, te ne prendo pane e formaggio viene la gatta e ti prende il naso’ (filastrocca che si diceva ai bambini quando chiedevano qualcosa da mangiare, si recitava tenendogli le dita della manina ad uno a uno; al piripiriddu si teneva il mignolo e finendo la formula con il pizzicargli il nasino, punto 6); spesso il termine si lega al pronome indefinito atru (con funzione di sostantivo): chissàtru o chistàtru (o statru) ‘quest’altro’, chissàtra o chistàtra (o statra, plurale statre) ‘quest’altra’, chissàtri o chistàtri (o statri) ‘questi altri’.

Chjàcchjara [s.f.] Chiacchiera, discorso di poco conto.

Chjaga [s.f.] Piaga, lesione, es.: (loc.) u miedicu pietusu fa ra chjaga verminusa ‘il medico che prova pietà, fa (causa) la piaga con i vermi’.

Chjamàre [v.tr.] Chiamare, interpellare, svegliare, es.: (loc.) ancora ud è natu e u chjami Dunatu ‘ancora non è nato e lo chiami Donato’ (cantar vittoria prima di aver vinto). 

Chjana [s.f.] Attrezzo del falegname che permettere di eseguire fili diritti sulle assi e di rettificare grandi superfici, conosciuto in italiano col nome di piallone.

Chjana

Chjanca [s.f.] Macelleria, da cui chjanchìeri ‘macellaio’, es.: a quale chjanca vinnanu a crapa? ‘a quale macelleria vendono la capra’.

Chjancàtu [s.m.] Sottotetto (soffitta), soppalco, in passato adibito a luogo dove far maturare la frutta lentamente, es.: (loc.) i veri parienti su i dienti, e u veru parentatu è u pane du chjancatu ‘i veri parenti sono i denti, e il vero parentado è il pane della dispensa’ (rima persa).

Chjanètte [s.f.] Località di campagna compresa tra Sofome e il bivio di Petilia, prima del ponte di ferro.

Chjanìeddu [s.m.] Attrezzo del falegname che serve per piallare, più piccolo della chjana.

Chjanta 1 [s.f.] Pianta, albero di piccole dimensioni, arbusto, da cui l’accrescitivo chjantùne ‘piantone’ ‘pollone’ ed il diminutivo chjantìna ‘piantina’ ‘pianticella’, es.: cc’è na chjanta intr’u mmiezzu ‘c’è una pianta (un albero) in mezzo’. 2 Palmo della mano o del piede, es.: a chjanta du pede ‘la pianta del piede’. 3 Suola, soletta.

Chjantàre [v.tr.] Piantare, trapiantare, interrare.

Chjantatùru [s.m.] Legnetto un po’ curvato usato per piantare piccoli virgulti di ortaggi.

Chjantèdda 1 [s.f.] La suola interna delle scarpe. 2 L’accoppiarsi, il fare sesso, variante chjantèlla.

Chjantu [s.m.] Pianto, lacrime, esempi: quantu chjanti chi n’amu fattu ‘quanti pianti che abbiamo fatto’ (quante lacrime che ci siamo fatte), (loc.) tena u chjantu mpizzu ‘ha il pianto sull’orlo’ (ha il pianto facile, labilità).

Chjantùne [s.m.] Guarda chjanta.

Chjanu 1 [s.m.] Piano, pianoro, luogo pianeggiante, spesso è anteposto a un nome proprio per formare un toponimo, indica sia zone del paese sia località di campagna ovviamente pianeggianti, esempi: chjanu e Laura ‘piano di Laura’ (piccolo e suggestivo rione dove sono nato), chjanu e l’arance ‘piano delle arance’ (località di campagna), chjanu da porta ‘piano della porta’ (l’attuale piazza De Grazia), chjanu e Mantella ‘piano di Mantella’ (l’attuale piazza Tonin di Filippa, dal cognome del signore che vi abitava; guarda anche mparu. 2 [avv.] Lentamente, con cautela, esempi: e trasire chjanu ‘devi entrare lentamente’, chjanu chjanu ‘piano piano’, (loc.) chjanu chjanu la lana se fila e ogne nudu aru piettine vena ‘piano piano la lana si fila ed ogni nodo al pettine viene’, (loc.) chjanu chjanu u malatu arriva aru sanu ‘piano piano il malato raggiunge il sano’ (a fare troppo lentamente si corre il rischio di non concludere nulla).

Chjanùezzulu [s.m.] Piccola pialla simile al chjanieddu.

Chjappa [s.f.] Natica, gluteo.

Chjàpparu [s.m.] Cappero, Capparis spinosa L.

Chjaru [agg. avv. s.m.] Chiaro, limpido, esempi: e nnu vinu chjaru ‘è un vino limpido’, ce vuegghju vidire chjaru ‘ci voglio vedere chiaro’, aru chjaru ‘al chiaro’ (col giorno, con la luce, dove c’è luce).

Chjarùre [s.m.] Chiarore, luminosità.

Chjassu [s.m.] Chiasso, onda sonora alta di persone che parlano allegramente tra loro.

Chjatràre [v.intr.] Ghiacciare, gelare.

Chjatrùelu [s.m.] Ghiacciolo, ossia pezzo di ghiaccio che si forma generalmente dalle grondaie quando ci sono le gelate, variante metatetica trachjùelu.

Chjattu [agg.] Piatto, pianeggiante, schiacciato.

Chjave [s.f.] Chiave, es.: (indovinello) sacciu na cosa, gira gira e se riposa, cchid’è? (R) a chjave ‘so una cosa, gira gira e si riposa, cos’è? (R) la chiave’.

Chjàvica [s.f.] Chiavica, incapace, impedito.

Chjavìnu [s.m.] Chiave lunga e sottile.

Chjica [s.f.] Piega, balza; guarda anche chjiche.

Chjicàre [v.tr.] Piegare, distorcere, da cui chjicatùra ‘piegatura’; qualche volta il termine è impiegato anche al posto dei verbi mangiare o bere, es.: n’ha chjicamu n’atra pizzetta? ‘ce la pieghiamo un’altra pizzetta?’ (ce la sbafiamo un’altra pizzetta?).

Chjiche [s.f.] Pieghe anteriori di un pantalone e che partono dalla cintura.

Chjìcchjara [s.f.] Burla, scherzo, bufala, talvolta è usato anche il diminutivo chjicchjaredda nel significato di ‘voce di corridoio’ ‘notizia falsa’.

Chjicchjariàre [v.intr.] Chiacchierare, burlare in maniera leggera, scherzare, prendere per il culo senza esagerare.

Chjinìnu [s.m.] Chinino, in termini chimico-farmacologici solfato basico di chinina; alcaloide estratto dalle cortecce di china, nome di varie specie di alberi del genere Cinchoma; il chinino è usato principalmente come febbrifugo (VT).

Chjinu [agg.] Pieno, colmo, esempi: u barru è chjinu ‘il bar è pieno’, vuegghju nu bicchieri chjinu chjinu ‘voglio un bicchiere pieno pieno’ (colmo), mattune chjinu ‘mattone pieno’ (senza fori), (lap.) chi te via chjinu e guai ‘possa vederti pieno di guai, (lap.) chi te via riccu, santu e chjinu e salute ‘possa vederti ricco, santo e pieno di salute’ (una rarissima lapida che augura cose buone), (loc.) a casa chjina fa a fimmina fina, a casa vacante fa a fimmina viannante ‘la casa piena fa la moglie fine, la casa vuota fa la moglie viandante’ (la casa piena di marmocchi tiene la donna occupata, viceversa la donna si trova dei diversivi fuori casa); questo termine non si usa dal benzinaio, non si dice quindi famme u chjinu, semmai si può dire inchjalu ‘riempilo’ (sottinteso il serbatoio) oppure u pienu ‘il pieno’; il termine al femminile, anteposto alla voce ‘pasta’, identifica un buonissimo piatto locale.

Pasta chjina: 500 grammi di pasta, sugo di pomodoro (fatto con basilico, olio, aglio, prezzemolo, sale, un peperoncino, pepe), 4 uova sode, 300 grammi di provola, 250 grammi di carne macinata per le polpettine (guarda vrasciole e carne), un etto circa di soppressata tagliata fine e a piccoli pezzi, formaggio grattato (misto pecorino-vaccino).

Procedura: fare innanzitutto il sugo di pomodoro e friggere le polpettine (in alternativa si possono cucinare nel sugo stesso), mettere a cuocere la pasta (rigatoni o penne rigate grandi) e scolarla a metà cottura, quindi rimetterla nella pentola dove ha cotto, aggiungere il sugo e tutti gli altri ingredienti e amalgamare; a questo punto prendere una teglia e fare uno strato di sugo, rovesciarci la pasta e tutto il resto, aggiungere ancora un po’ di sugo sopra insieme ad una spolverata di formaggio; infornare per 20 minuti a 180 °C; un tempo era il piatto delle domenica, alcune famiglie se lo potevano permettere solo alle feste principali.

Chjinulìdde [s.m.p.] Tipico dolce natalizio a forma di piccola mezzaluna (variante chjinuliddi) a base di farina tipo 0, olio, uva passa, zucchero, cioccolata fondente, mandorle, uova, mosto cotto, limone, cannella e un pizzico di sale; alcune varianti includono i fichi secchi o la ricotta.

Chjipu [s.m.] Guarda chjopa.

Chjìrica 1 [s.f] Chierica, ovvero la rasatura rotonda che si fanno i chierici sulla sommità della testa; nella lingua mesorachese ha assunto il significato “ristretto” del punto più alto del capo dove in genere i capelli si diradano, es.: (loc.) l’abitu u ffa u monacu e na chjirica u ffa nu prievite ‘l’abito non fa il monaco e una chierica non fa un prete’ (l’apparenza inganna). 2 [s.f.] La parola usata al plurale chjìriche (ma anche al singolare) ha assunto il significato figurato di ‘niente’, ‘cazzi’, ‘stronzate’, esempi: ci nnà chjiriche ‘ce ne sono chieriche’ (cioè, non c’è niente), te dugnu na bella chjirica ‘ti do una bella chierica’ (ti do un bel niente), sta chjirica! ‘sta minchia!’ (un cazzo!).

Chjiricolìnu [s.m.] Modo simpatico per denominare un ragazzino e, ironicamente, una persona più grande ma piccola di statura.

Chjiricùeppula [s.f.  agg.] Legare qualcosa intorno alla sommità di un oggetto, es.: ci l’è ligare a chjiricueppula ‘devi legarcelo sopra, giro giro’. 2 Sinonimo di chjirica, es.: te dugnu na bella chjiricueppula ‘ti do una bella chierica’ (non ti do proprio nulla).

Chjòchjaru [s.m.] Persona che parla a vanvera, inconcludente nei suoi discorsi.

Chjodìnu [s.m.] Chiodino Armillaria mellea Vahl & Kumm., ovvero il fungo che cresce nelle ceppaie dei boschi di latifoglie.

Chjopa [s.f.] Donna in carne, corrispondente al napoletano ciaciona, maschile (poco usato) chjipu metatesi di picchju.

Chjopanàru [agg.] Paffutello, cicciottello.

Chjovitùsa [agg.] Piovosa, piovigginosa, es.: annata chjovitusa ‘annata piovosa’.

Chjudìre [v.tr. v.rifl.] Chiudere, serrare, variante chjùdare, esempi: chjuda a putiga ‘chiudi la bottega’, chjudate intra ‘chiuditi dentro (casa)’.

Chjùevu [s.m.] Chiodo, quello più usato dai muratori o carpentieri misura all’incirca 10 centimetri, esempi: vasta nu chjuevu ‘basta un chiodo’, (loc.) u malu chjuevu sempre ncasa l’ai ‘il cattivo chiodo sempre in casa ce l’hai’ (il cattivo marito (chiodo) è un problema perché vive nello stesso tetto); guarda anche chjùevuru.

Chjùevuru [s.m.] Chiodo, di misura più piccola del chjuevu, plurale chjùevura o chjùevuri, esempi: (loc.) quannu na musca se rusica nu chuevuru ‘quando una mosca si rosicchia un chiodo’ (locuzione usata per indicare che una certa cosa o un certo evento non si verificherà mai), (loc.) sta tirannu e chjuevura ‘sta tirando i chiodi’ (persona che temporeggia), nn’ha tiratu capu e chjuevura ‘ne ha tirato teste di chiodo – a voglia’ (modo d’intercalare, volgare, tra maschi adulti, per indicare una donna o una ragazza che in un periodo della sua vita, prima di sposarsi di solito, ha fatto un sacco di irrumazioni’.

Chjummàre [v.intr.] Pesare, gravare, piombare, la proprietà degli oggetti di essere o apparire pesanti, es.: ha dde chjummare assai u paccu ‘ha da pesare molto il pacco’.

Chjummu 1 [s.m.] Il metallo piombo. 2 Pistolettate, bossoli, spari; guarda anche nchjummàre. 3 [agg. v.intr.] Nel gioco del tressette indica essere sprovvisti di un seme o avere un’unica carta di ‘buon gioco’ in quel seme, da chjummare, es.: chissu m’u chjummu (o semplicemente chjummu) ‘questo me lo scarto’ (tanto è da solo).

Chjumpimìentu [s.m.] Alla lettera ‘maturamento’, ovvero persona (ma anche animale e talvolta oggetto, strumento) che è un rompimento continuo, che secca, che fastidia; guarda anche jumpiture.

Chjumpìre 1 [v.intr.] Maturare, anche oltre la giusta misura, variante poco usata chjùmpare, ne deriva chjumpùtu ‘maturo’, es.: su chjumpute e puma ‘sono maturate le mele’. 2 [v.tr.] Riferito ad una persona significa esasperarla, venirle a noia, es.: u mme chjumpire ‘non mi rompere le scatole’. 3 [v.intr.] Suppurazione, ovvero il processo di formazione del pus, es.: m’è chjumputa na spina e carne ‘mi è arrivato a maturazione un foruncolo’.

Chjumpitùre [agg. s.m.] Colui che esaspera e scassa la minchia, scocciatore, variante chjumpitùru; guarda anche jumpimientu.

Chjuppu [s.m.] Pioppo, Populus tremula L. la specie più diffusa, es.: (lap.) ih chi vorre jire aru chjuppu ‘che tu possa andare al pioppo’ (nel secolo scorso, in occasione di ricorrenze religiose, vicino alla statua del Cristo al convento dell’Ecce Homo, c’era un grande pioppo dove usavano radunarsi mendicanti e bisognosi in attesa della questua da parte dei frati; la lapida quindi augura al ricevente di diventare un mendicante).

Chjurìre [v.intr.] Prudere, pizzicare.

Chjurìtu 1 [s.m.] Prurito, irritazione cutanea che induce a grattarsi, es.: (loc.) chine u sse rasca ccu re manu sue, u ssi nne caccia chjuritu ‘chi non si gratta con le sue mani, non se ne toglie di prurito’ (se non fai le cose con le tue mani non è detto che vengano bene – chi fa da sé fa per tre). 2 Voglia, desiderio, capriccio, soddisfatto a volte anche con notevoli rischi, esempi: (loc.)  u chjuritu du culu è cchjù forte du terrimuetu ‘il prurito del culo è più forte del terremoto’ (ci sono capricci che è difficile fermare), mi nn’aju cacciatu chjuriti e culu quann’eru giuvane ‘me ne sono tolti di pruriti di culo (capricci) quando ero giovane’; guarda anche gulia e scilu.

Chjùrulu 1 [s.m.] Chiurlo maggiore, Numenius arquata L. 2 Nome, quasi scherzoso, dato ai carabinieri (o alle guardie carcerarie) ed usato ulteriormente in senso metaforico, es.: u mme fare u chjurulu ‘non farmi il chiurlo’ (non farmi arrabbiare).

Chjusùra [s.f.] Recinto, chiusura, serratura.

Chjuvàre [v.tr.] Schiodare, disarmare, usate anche le varianti, chjòvare, sciòvare e sciuvàre, es.: chjova chidde tavule ‘schioda (dividi) quelle tavole’; guarda anche nchjuvare; unica parola del nostro dialetto ad iniziare con questo suono.

Chjuvìettu [s.m.] Grosso chiodo.

Chjuvìre [v.intr.impers.] Piovere, variante chjòvare, da cui chjuvùta ‘rovescio’, ‘temporale’, esempi: ha chjuvutu tutta a notte ‘è piovuto tutta la notte’, (loc.) chjova e chjova e a gatta fria l’ova e u surice se marita ccu na cueppula de sita ‘piove e piove e la gatta frigge le uova e il sorcio si sposa con una coppola di seta (filastrocca per bambini), (loc.) a chjovare e a murire u cce vo nente ‘a piovere e a morire non ci vuole niente’ (se una cosa è destinata non ci si può fare niente), (loc.) quannu chjova u sicca nente ‘quando piove non secca nulla’ (l’acqua è fondamentale).

Ci 1 [part.pron. avv.] Pronome o avverbio italiano ‘ce’, assume la forma forte cci soprattutto quando preceduto dalla negazione u o dalla congiunzione e, esempi: ci nne vue? ‘ce ne vuoi?’, u cci nn’ha ‘non ce n’ha’ (‘non ce n’è’); guarda anche ce. 2 [pron.pers.comb.] Pronome personale ci (ce) combinato con i pronomi personali u (lo), a (la) ed e (le, li), per particolari caratteristiche fonetiche, u ed a, sono sempre accentati, esempi: ci’ù mintu io ‘ce lo metto io’, ci’à raganu stasira ‘ce la portano stasera, u cc’e mannare ‘non ce le (o li) mandare’. 3 [inter.] Zitto, forma tronca di citu, usato non in maniera direttiva, es.: ci’! ‘zitto!’; si usa anche in forma raddoppiata per aumentare l’effetto, esempi: ci’! ci’! ‘zitto! zitto!’, eh ci’-ci’ ‘eh zitto un po’’; talvolta si intercala, specie tra comari, per indugiare durante una conversazione, es.: ci’-ci’ ca mo ni nne jamu ‘zitta che adesso ce ne andiamo’ (ancora cinque minuti e si va).

Ciafrànu [agg. s.m.] Persona imbranata, un po’ tonta.

Ciàgula 1 [s.f.] Tordo, Corvus monedula L. 2 Ragazza un po’ frivola, che parla tanto e ripetutamente, da cui l’accrescitivo ciagulùne.

Ciàmpa 1 [s.f.] Pianta del piede, misura del piede, da cui ciampùne ‘piede di ragguardevoli dimensioni’. 2 Ferro del cavallo o l’orma lasciata dal suo zoccolo.

Ciampalinàzze [s.m.inv.] Persona buona a calpestare la filaccia grossa del lino, ossia ‘buono a nulla’ ‘cialtrone’ ‘fannullone’, è l’equivalente maschile di sciacqualattuca.

Ciampaòva [s.m.] Alla lettera ‘persona che calpesta le uova’ ossia persona inetta, incapace.

Ciampàre [v.tr.] Calpestare, pestare, schiacciare, esempi: u cce ciampare subra u cimentu friscu ‘non calpestarci sopra il cemento fresco’, te ciampu ‘ti pesto’, ciampa chidda cirantula prima u fuja ‘schiaccia quel ragno prima che scappi’.

Ciampàta [s.f.] Pedata, orma di piede umano, es.: te fazzu na passa e ciampate ‘ti faccio una passata di pedate’ (ti do un sacco botte).

Ciampatìne [s.f.] Piccole orme, tracce, riferite anche a quelle lasciate da animali di piccole dimensioni, es.: ciampatine e vurpa ‘orme (tracce) di volpe’.

Ciamprìeddu [s.m.] Cretino, babbeo, semplicione.

Ciampuniàre [v.tr.] Calpestare, zampettare, pigiare (l’uva dentro al palmento), es.: e ciampuniatu u vurvinu ‘hai calpestato le pianticelle’ (il semenzaio).

Cianciacucìna [s.m.f.] Alla lettera ‘piange cucina’, persona, più spesso un bambino, che fa storie nel mangiare.

Ciancianìeddi [s.m.pl.] Fronzoli rumorosi, ad esempio tanti anelli, bracciali, catenine et similia, ornamenti svolazzanti; il termine è impiegato per indicare orpelli apparentemente inutili e rumorosi. In Sicilia è sinonimo di sonagli, campanelli, ma anche i dischi di latta che si trovano nei tamburelli; variante trantranìeddi.

Ciancìre [v.intr.] Piangere, versar lacrime per qualcosa, variante ciànciare, esempi: para ca ciancia ‘sembra che pianga’, (loc.) ciancianu u muertu e fricanu u vivu ‘piangono il morto e fottono il vivo’ (l’allusione è sui preti, che si fanno pagare i loro servigi), (loc.) a cianciare nu muertu su lacrime perze ‘a piangere un morto sono lacrime perse’ (ci si dovrebbe volere bene da vivi), (loc.) u cianciu ca è morta a nanna, cianciu ca a morte se mpara a via ‘non piango la nonna, piango che la morte si impara la via’ (la morte inizia a portarsi via la nonna e piano piano si porta via gli altri), (loc.) allatta e ciancia ‘allatta e piange’ (sta bene ma si lamenta lo stesso).

Cianciulènte [s.f.] Guarda cianciulera. 

Cianciulèra [s.f.] Piagnona, che si lagna facilmente.

Cianciuliàre [v.intr.] Piagnucolare, frignare.

Cianciùta [s.f.] Sinonimo di chjantu, ossia aver pianto molto per un dolore, es.: s’è fattu na cianciuta e pue si nne gghjutu ‘si è fatto un pianto e poi se ne andato’.

Ciaramèdda [s.f.] Aerofono ad ancia doppia; guarda bifara. 

Ciàrra [s.f.] Giara, orcio, recipiente panciuto a bocca larga di terracotta smaltata per la conserva di olio o vino, dalla capacità media pari a 180 litri, variante giarra; cfr lancedda e zirru.

Ciarra

Ciarvìeddu [s.m.] Guarda cervieddu.

Cicàla [s.f.] Grossa sbronza, da cui cicalìnu ‘sbornia’, es.: aru Pascune n’amu piatu na cicala ‘a Pasquetta ci siamo presi una sbronza colossale’. Naturalmente il termine è impiegato anche per descrivere i rumorosi insetti appartenenti alle specie della famiglia delle Cicadidae.

Cicchéttu [s.m.] Ramanzina, cazziatone, rimprovero.

Cicculàta [s.f.] Cioccolata, in particolare quella a quadrettini, da cui cicculatèdda ‘cioccolatino’.

Cicculatèra [s.f.] Piccolo e semplice recipiente a forma di cono tronco, generalmente in alluminio, dotato di un piccolo coperchio e manico, usato per preparare il caffè sulle braci.

Ciceràru [s.m.] Contrada e località di campagna vicina alla contrada Santa Venneri e al quartiere Santu Marcu.

Ciceràta [s.f.] Dolce formato da tante piccole palline somiglianti ad un insieme di ceci, tipico del periodo natalizio.

Ingredienti: mezzo kg di farina 00 (tennara), 3 uova, miele di castagno, zucchero, alcuni mettono anche un po’ di vino bianco e un po’ d’olio. Procedura: impastare la pasta con le uova e scilarla a piccoli cordoni dal diametro minore di un cece, tagliarli a pezzettini e friggerli, quando dorati toglierli e adagiarli in uno scolapasta per farli asciugare dall’olio; nel frattempo che si raffreddano, prendere una pentola e mettere il miele e lo zucchero, quando il composto è sufficientemente fluido aggiungere i “piccoli ceci” e amalgamare per 5 minuti. Svuotare la pentola su una carta forno, stenderla e ungerla con un po’ d’olio, poi prendere uno strofinaccio bagnato (ben strizzato) e pressare adeguatamente fino a far prendere la forma di un parallelepipedo appiattito (una pirofila quadrata aiuta di più), aggiungere ancora un po’ di zucchero e far riposare per una notte. Servire tagliando a forma di piccoli torroncini.

Cìciaru [s.m.] Cece, Cicer arietinum L.; guarda anche mmitu.

Cicimmàrra [s.f.] Sperma, liquido seminale.

Cicimmò [s.m.] Umile zuppa a base di pane raffermo, olio e sale, cipolla e un uovo se si hanno in casa, es.: (loc.) s’averramu nu pignatieddu cu acqua e sale ne facerramu nu ciccimmò ‘se (solo) avessimo una piccola pignata con acqua e sale ci faremmo una minestra’.

Cicinè [inter.] Richiamo per le galline, varianti cìcinne e cicinné.

Cicìnnu [s.m.] La passerina delle bambine, l’equivalente femminile di paparedda ‘pisellino’.

Ciciòrfa [s.f.] Caffè che un tempo veniva preparato con la cicculatèra; oggi è sinonimo di caffè cattivo o di un generico liquido comunque imbevibile, ne deriva ciciorfàta ‘bevanda cattiva’.

Ciciuliàre [v.intr.impers.] Piovigginare, es.: ciciulia nu pocu ‘pioviggina un po’’.

Ciciulùne [s.m.] Grossa goccia di pioggia.

Cicùeru [s.m.] Cicoria selvatica, Cichorium intybus L. Ottimi quelli lessati e poi spadellati con un po’ d’olio, aglio e peperoncino, infine messi dentro la pitta.

Cidùrzu [s.m.] Località di campagna e contrada di Mesoraca, vicino alla località denominata Cerzìtu.

Cìentu [agg.num.card.invar.] Il numero cento, esempi: na mamma pò badare a cientu figghji, cientu figghji u sanu badare a na mamma ‘una mamma può badare a cento figli, cento figli non sanno badare ad una mamma’, (loc.) cientu misure, nu sulu tagghjiu ‘cento misure, un solo taglio’ (prima di fare una cosa importante è meglio pensarci bene), (loc.) chine tena cientu amici u mmora mai ‘chi ha cento amici non muore mai’ (se sarai in difficoltà avrai sempre qualcuno disposto ad aiutarti), (loc.) miegghju na bona parola ca cientu lignate ‘meglio una buona parola che cento legnate’ (è più efficace ed educativo trovare le parole giuste che dare le botte).

Cìerru [s.m.] Ricciolo, ciuffo di capelli, es.: (loc.) ha fattu u cierru aru core ‘ha fatto il ciuffo al cuore’ (persona che non perdonerà mai il torto subito).

Cìevuzu [s.m.] Gelso, Morus nigra L. e Morus alba L., es.: (loc.) aru larigu du cievuzu pannu, ppennu a patimu cuemu tannu ‘vicino all’albero del gelso (stai attenta al) panno, altrimenti la patiamo come allora (le more sporcano)’ (io ti avverto ma se tu hai la testa dura).

Cigna [s.f.] Cinghia, da cui cignètta ‘cinturino’.

Cignàle [s.m.] Cinghiale, Sus scrofa L., guarda anche puercu.

Cilintràre [v.intr.] Camminare, andare, nel senso di levarsi, far muovere i cilindri appunto, es.: cilintra! ‘cammina!’ (vai via, levati!); nulla in comune con l’italiano cilindrare, a parte l’etimo.

Cilìntru [s.m.] Mulino a cilindri per la macinazione di grano e altri cereali; il termine è più conosciuto come punto di riferimento, situato all’inizio del vicoletto a destra di Via Nazionale, venendo dal Timpune, accanto al palazzo dove una volta c’era la banca; fino a poco tempo fa vi sorgeva un mulino a cilindri.

Cilùeticu [agg.] Stralunato, svanito, che parla a vanvera.

Cimèntu [s.m.] Cemento, esempi: cimentu grassu ‘cemento grasso’ (malta con abbondante cemento, impiegato per pilastri, solai, intonaci), cimentu macru ‘cemento magro’ (malta scarsa di cemento, impiegata come collante per i pavimenti).

Cingòmma [s.f.] Gomma da masticare, chewing gum.

ngulu [s.m.] Lacciolo, stringa, ma anche la corda dell’abitino dei monachieddi.

Cìnnara [s.f.] Cenere, in genere quella prodotta dalla combustione della legna, esempi: a cinnara è bona cuemu cuncime ‘la cenere è buona come concime’, (loc.) chine u ffa cinnara aru fuecularu sue, fa na mala fine ‘chi non fa cenere al proprio focolare, fa una cattiva fine’ (chi sta troppo in giro e non sta a casa, va in cerca di guai).

Cinquelìre [s.f.] Schiaffone (dato o ricevuto) che non si dimentica facilmente, es.: finisciatila ca te jiettu nu cinquelire cu tte azi cchjù ‘finiscila che ti do una sberla che non ti alzi più’.

Cinquìna 1 [s.f.] Insieme di persone, o animali, o oggetti, o eventi pari a cinque o circa cinque. 2 Antica moneta borbonica, es.: (loc.) quannu vidi e puttane filare, vo ddire ca l’è mancata a cinquina ‘quando vedi le puttane filare, vuol dire che gli è mancata la cinquina’. 3 La cinquina della tombola o del lotto.

Cintràre 1 [v.intr.] Entrare a far parte, essere conteggiato in un gruppo, c’entrare, variante poco usata cintrìre, esempi: u mmi cce c’intrare c’u gghjuecu ‘non mi conteggiare che non gioco’, u c’intra nnente chissu ‘non c’entra niente questo’. 2 [v.tr.] Centrare, colpire nel centro, es.: l’e cintratu? ‘lo hai centrato?’.

Ciòcia [s.f.] Minchia, organo genitale maschile, variante ciòciara. Etimo incerto, in altre parti della Calabria, con lo stesso significato, si usa cioncia, in tal caso dal greco CHION -ONOS colonna, escrescenza (JBT).

Ciociàna [agg.] Aggettivo riferito all’acqua acqua ciociana, con significato di ‘sporca, morta’ e per estensione, all’aspetto poco invitante che assume una bevanda quando deriva dall’unione di altre due; cfr ciciorfa.

Ciocigghjùne [s.m.] Persona poco dotata intellettualmente, imbecillone, tontolone; probabile derivato di ciociò.

Ciociò [agg. s.m.] Ingenuo, semplicione, gonzo; guarda anche ciociorociò.

Ciociorociò [agg. s.m.] Probabile sinonimo di ciociò, persona stupida e inconcludente.

Ciòlla [s.f.] Pene, pisello, forma più usata a Crotone che a Mesoraca.

Ciòpa [agg.] Ragazza formosa, ma anche graziosa, da cui cioparèdda ‘simpatica’, ‘carina’.

Ciòrva [agg.] Sgraziata, poco intelligente, stupida.

Ciòta [agg.] Femminile di ciuetu.

Ciotàina [s.f.] Stupidaggine, cretinata, fesseria, es.: teh chi ciotaina ‘guarda un po’ che idiozia’.

Ciotalànu [s.m.] Persona poco intelligente, bonaccione.

Ciotìa [s.f.] La Stupidità, la mancanza di intelligenza, l’imbecillità intesa come misura del quoziente intellettivo, ma anche stupidaggine, cretinata, esempi: cchi ciotia carriare e cirme ncueddu ‘che stupidità trasportare i sacchi in spalla’, Cerenzia u paise da ciotia ‘Cerenzia il paese dell’idiozia’ (motteggio appioppato agli abitanti di Cerenzia ma solo solo perché fa rima), è na ciotia jire e bbenire u stessu juernu ‘è una scemenza andare e venire lo stesso giorno’.

Ciotiàre [v.tr. v.rifl.] Fare il cretino apposta, atteggiarsi dicendo e/o facendo cose stupide.

Ciotìgnu [agg.] Aggettivo per persona senza tanta misura, che esegue comportamenti da stupido, ne sono esempio ostinarsi in maniera esagerata verso qualcosa, farsi lunghe tratte a piedi, compiere grossi sforzi, azioni che solo persone senza tanto senno possono fare.

Cìpia [s.f.] Costruzione, ormai datata, che si può trovare nelle campagne o nelle zone premontane, utile per la raccolta dell’acqua proveniente da una sorgente o quella piovana, usata per innaffiare orti o far abbeverare gli animali; di solito ha forma rettangolare o quadrata, è fatta di mattoni (simili a cocci) e cemento, ma non sempre, alcune volte sono stati usati gli scarti (calcinacci e simili) di costruzione delle case impastati con fango; la superficie è variabile da pochi metri quadri a circa quindici, la profondità raramente supera il metro, non coperta.

Cippu 1 [s.m] Sgabello di legno molto semplice formato da un pezzo di tronco, da cui cipparìeddu ‘piccolo ceppo’ tagliato ad hoc per far sedere i bambini accanto al focolare. 2 Pezzo di tronco d’albero usato dai macellai per tagliarci pezzi grossi di carne. 3 Gelato alla vaniglia ricoperto di cioccolata.

Cipùdda [s.f.] Cipolla, Allium cepa L., da cui cipuddùzza ‘cipollotto’.

Cipuddìna [s.f.] Piccole pianticelle di cipolla, germogli da trapiantare.

Cira 1 [s.f.] Paura, fifa, strizza. 2 Cera, (loc.) a cira se squagghja e a prucessione u camina ‘la cera si squaglia e la processione non cammina’ (proverbio usato per indicare a qualcuno, o ad un gruppo di persone, che il tempo sta passando e non sta combinando niente).

Ciràntula 1 [s.f.] Ragno, tarantola, grosso ragno, es.: c’è chjinu e cirantule ‘c’è pieno di ragni’. 2 Bambina vivace, irrequieta.

Cirantuliàre [v.intr.] Perdere tempo, cincischiare.

Ciràre [v.intr.pron.] Avere timore, provare paura.

Circhju [s.m.] Cerchio, da cui circhjùne ‘cerchione’, es.: (loc.) na botta aru circhju e n’atra ara vutta ‘una botta al cerchio ed un’altra alla botte’ (equilibrati per non scontentare nessuno).

Ciriciànguli [s.m.pl.] Piccoli pezzi di corda, stoffa o altro materiale; lo stesso termine indica i lunghi pezzi di plastica (o altro materiale) che compongono certi tipi di tenda.

Ciricìgghja [s.f.] Piccola biscia innocua, non si tratta di un serpente, ma di una lucertola che ha perso le zampe durante la sua evoluzione, il suo nome comune è orbettino, quello scientifico Anguis fragilis L. 2 Ciricilla, località silana del comune di Taverna, nota sia per essere (assieme alla attigua località denominata Spinietu) frequentata da pastori e allevatori mesorachesi, sia per un eccidio di soldati tedeschi da parte dell’aviazione anglo-americana durante la seconda guerra mondiale; le truppe tedesche, in ritirata, prima di giungere a Ciricigghja passarono da Mesoraca, il paese corse il rischio di essere cannoneggiato perché un paesano sventolò la bandiera rossa al loro passaggio (alcuni dicono quella americana), es.: (lap.) te viennu u te distruggi cuemu i surdati e Ciricigghja ‘possa vederti annientato come i soldati di Ciriciglia’.

Cirimpàmpulu [s.m.] Grosso scivolone, cadere malamente.

Cirma [s.f.] Sacco adoperato durante la raccolta delle olive dalla capacità di circa 30 kg, in genere di iuta o materiale plastico, in passato anche di canapa saccu e cannavu.

Cirògenu [s.m.] Lumino, ovvero il tipo di candela adoperata nei cimiteri, nelle chiese o davanti ad immagini sacre, altrimenti detta candela stearica; guarda anche lucìgnu.

Cirùsu [agg.] Fifone, pauroso.

Cistèdda [s.f.] Cestino, piccola cesta, fatta da lamine di legno, variante tistedda.

Cisteddàru [s.m.] Cestaio, ossia chi vende e fabbrica le cistèdde.

Cistùne [s.m.] Grosso cesto fatto da lamelle di legno avente la base quadrata, variabile in capacità; spesso il termine sostituisce il cistune luengu ‘grosso cesto simile al cistune’ a base rettangolare, lungo circa un metro e mezzo, destinato al trasporto di cibarie; entrambi i contenitori vengono portati (di solito) dalle donne poggiandoselo sopra la testa; variante tistùne, guarda anche curuna.

Citàre [v.intr. v.dif.] Zittire, fare silenzio; guarda anche accitare.

Citrùelu [s.m.] Guarda tritruelu.

Citu [inter.] Zitto, muto, da cui citu citu ‘zitto zitto’, ma anche ‘di nascosto’, esempi: citu! ‘mosca!’ (fai silenzio!), e mo citu nu pocu ‘e adesso zitto un po’’, citu citu si nn’è gghjutu ‘zitto zitto (alla chetichella) se n’è andato’, (loc.) citu citu e gghjazza a ppenninu ‘chiotto chiotto da piazza a discesa’ (si dice qualcosa sussurrandola, ma è una cautela inutile poiché si tratta del segreto di Pulcinella); talvolta viene usata la forma tronca, guarda anche ci.

Ciuccìettu [s.m.] Ciuccio, tettarella di gomma.

Ciuccìgnu [agg.] Chi si comporta, in termini di fatica, come un asino; guarda anche ciotignu.

Ciùcciu 1 [s.m.] Asino, somaro, Equus asinus L., da cui ciucciarìeddu ‘asinello’, esempi: (loc.) u ciucciu viecchju mora mmanu ai cazzuni ‘l’asino vecchio muore in mano ai cretini’, (loc.) quannu u ciucciu u bbo bivare avogghja u frischi ‘quando l’asino non vuol bere è inutile fischiare’ (quando una persona è fieramente decisa è inutile insistere), (loc.) si stunatu cumu nu ciucciu all’organu ‘sei stonato come un asino all’organo’, (loc.) è nu ciucciu e fatiga ‘è un somaro da lavoro’ (è un grande lavoratore instancabile), (loc.) u ciucciu te mina ru cavuce e tu le tagghji u pede ‘l’asino ti da il calcio e tu gli tagli il piede’ (punire severamente chi ci ha fatto un torto potrebbe essere controproducente), (loc.) è miegghju u mora Cicciu ca lu ciucciu, ca u ciucciu va a ligne e Cicciu noni ‘è meglio che muoia Ciccio che il ciuccio, ché il ciuccio porta la legna mentre Ciccio noni’, (loc.) u ciucciu c’ud ha fattu a cuda ai tre anni, u ra fa cchjù ‘l’asino che non ha fatto la coda ai tre anni, non la fa più’ (se una persona, o una situazione, non matura dopo un buon periodo di tempo, è sicuro che non maturerà più), (loc.) quannu cadanu i cugghjuni du ciucciu ‘quando cascano i coglioni dell’asino’ (proverbio utile per  comunicare all’interlocutore che una certa cosa non accadrà mai oppure che deve passare molto tempo), (loc.) l’anni se cuntanu aru ciucciu ‘gli anni si contano all’asino’ (intercalare per non deprimersi davanti all’età che avanza), (loc.) è ncavaddu e bba cercannu u ciucciu ‘è sul cavallo e va cercando l’asino’ (persona che sta bene ma elemosina lo stesso), (loc.) i ciucci se mpriganu e i varrili se scascianu ‘gli asini litigano e i barili si scassano’ (non sempre è conveniente intervenire in una disputa, gli asini rappresentano i contendenti, i barili le persone che cercano di sedare la lite). 2 Persona stupida, ignorante, termine naturalmente molto usato a scuola. 3 Piccolo asse da stiro, impiegato nelle lavanderie per stirare le parti più difficili degli indumenti.

Ciuciuniàre [v.intr.] Spettegolare, mormorare, parlottare.

Ciùennulu [s.m.] Ciondolo, pendente.

Ciùetu 1 [s.m.] Cretino, tardo, stupido, esempi: lassalu fricare ch’è ciuetu ‘lascialo perdere che è cretino’, (loc.) fa u ciuetu ppe nu gghjire ara guerra ‘fa il cretino per non andare alla guerra’ (fingersi tonto per non fare una cosa, o per ottenerne una, ad esempio una pensione). 2 Il sesso femminile ciota, poco usato in questa accezione; guarda anche l’etimologia del termine.

Ciumàre [v.intr.] Dormicchiare, sonnecchiare, dormire, da cui ciumarèdda ‘abbiocco’; guarda anche alàre.

Ciùncu [agg.] Persona a cui manca un arto, storpio, zoppo, ma anche persona colpita da paralisi fisica, con conseguente inabilità a muoversi, es.: (lap.) te via ciuncu ‘che io ti possa vedere storpio’.

Civàre 1 [v.tr.] Imboccare, nutrire, in particolare un bambino o una persona impossibilitata a farlo autonomamente, es.: t’aju civatu io quann’ere picculu ‘ti ho imboccato io quando eri un infante’. 2 Dare da mangiare, nutrire le bestie, es.: civa e gaddine ‘dai da mangiare alle galline’. 3 Verbo usato anche in senso traslato per indicare che una certa azione (spesso compiuta in maniera involontaria) è stata eseguita per facilitare o semplificare al massimo la persona che poi la completerà o ne beneficerà, esempi: li l’ha civatu chiddu gollu ‘glielo ha regalato quel gol’, l’ha civatu tutti i sordi ‘gli ha elargito tutti i soldi’, li l’è civatu chiddu caricu ‘glielo hai messo su un piatto d’argento quel carico’ (nel gioco della briscola); cfr mmuccare.

Civètta 1 [s.f.] Ragazza frivola e un po’ vanitosa, con i suoi atteggiamenti cerca di attrarre l’attenzione di uomini e ragazzi, ne deriva civettùne ‘donna facile’, in altre parole ‘femmina che civetta con gli uomini con più malizia che garbo’. 2 Rapace notturno, Athene noctua Scop.

Civettiàre [v.intr.] Amoreggiare, flirtare, civettare.

Civilìzza [s.f.] Servigi, cortesie, gentilezze di modi, attenzioni e riguardi verso un parente o una persona a cui si tiene, senza un compenso ma per gentilezza, affetto, rispetto o riconoscenza, variante civiliżża, esempi: (loc.) a fare civilizze a ppuerci è na pazzia, dalle l’agghjanna ca è u civu sue ‘a fare gentilezze – dare cibi raffinati – a porci è una pazzia, dagli le ghiande che è il suo cibo’ (è inutile fare regali raffinati se poi la persona che li riceverà non saprà apprezzarli, in generale è inutile fare cortesie a chi non le merita), (loc.) chine fa civilizze vulerra a capu ammaccata ‘chi fa (dispensa) cordialità vorrebbe (meriterebbe) la testa ammaccata’ (nel senso che a volte sbattersi per qualcuno non è produttivo, è tempo sprecato, bisognerebbe saper indirizzare le civilizze), avogghja u li nne fai civilizze, tamarru era e tamarru è rimastu ‘a voglia a fargli gentilezze, zotico era e zotico è rimasto’.

Civiliżżàtu [agg.] Emancipato, civilizzato.

Civu 1 [s.m.] Seme, in particolare quello delle zucche o delle angurie; da sottolineare il cosiddetto civu e saccu (cibo da sacco) ovvero frutta secca, come fichi, noci, nocciole, castagne, consumata lungo la strada che portava in campagna; alcuni anziani fanno ricadere in questa categoria anche i legumi e altre graminacee come fave, ceci, fagioli, grano, avena. 2 Cibo per gli animali, es.: civu ppe re gaddine ‘cibo per le galline’.

Còcara [s.f.] Bolla, bollicina.

Cocariàre [v.dif.] Il brontolare di un liquido, per effervescenza o perché bolle appunto; cfr spissiddia.

Cocciàre [v.tr.] Raccattare, raggranellare, le ultime olive (o castagne) rimaste sul terreno dopo la raccolta.

Còciare [v.tr.] Guarda cucìre.

Cocitùru [s.m.] Persona che ha la caratteristica di ‘cuocere’ le persone, che rompe le scatole con discorsi insistenti e pretenziosi; più di qualche volta, tale persona, la proprietà di scassare la minchia ce ha come tratto caratteriale.

Cocorocò 1 [s.m.] Termine per indicare i vortici che si vengono a creare nei fiumi o nei laghi, sinonimo di giralupu. 2 Il nome del vuddu situato circa a metà strada tra il vuddu della Carrozzèdda e quello della Làzara; famoso perché la legenda narra che ci morì un pastore risucchiato da un vortice; l’ampia cascata e il buio degli alberi ne fanno (facevano) un posto abbastanza lugubre.

Codda 1 [s.f.] Colla, adesivo. 2 Colle, altura, esempi: Codda da rina ‘Colle della sabbia’ (località silana vicina al villaggio Fratta, tradotto anche con ‘Colle d’Arena’), Codda di Bersaglieri ‘Colle dei Bersaglieri’ (località silana situata a nord-ovest rispetto al villaggio Fratta, vicino alla località denominata Gàlina). 3 [v.tr.] Imperativo del verbo ingoiare, es.: codda! ‘ingoia!’ (butta giù!).

Coddàre [v.tr.irr.] Guarda cuddàre.

Cofana [s.f.] Grossa cesta di vimini o in legno, in genere rotonda, adoperata per trasportare frutta o verdura.

Cogliòna [s.f.] Fare la cogliona, ovvero prendere in giro qualcuno, deriderlo bonariamente specie in gruppo, es.: chine in vita non ti dona ara morte è na cogliona ‘chi in vita non ti dà alla morte è una burla’ (se da una persona avevi delle attese in vita, non aspettartele in punto di morte; sarebbe quindi buono non fare promesse sapendo che poi non si potranno mantenere); guarda anche cugghjuniare.

Colaìta [s.f.] L’uccello ballerina Motacilla alba L.

Colamàru [s.m.] Calamaro, Loligo vulgaris Lam.

Colàre [v.intr.] Avere fortuna, avere culo, in un gioco, es.: me cola ‘mi va (bene)’; poco usata la forma all’infinito.

Colonnètta [s.f.] Comodino, ovvero diminutivo di colonna.

Comma 1 [s.f.] Termine generico per indicare un frutto o un fungo di dimensioni superiori alla media, es.: na comma e siddu ‘un grosso porcino’. 2 Prominenza alla estremità di un pezzo di legno, bastone grezzo dei pastori, es.: (loc.) si da comma ‘sei del bastone dei pastore’ (sei rozzo e sgarbato). 3 Sesso maschile di innaturali dimensioni.

Commàta [s.f.] Batosta, legnata; il termine è anche impiegato figurativamente per indicare una grossa sconfitta a calcio.

Còmmidu 1 [s.m.] Termine generico per indicare un utensile o contenitore, utile per una certa azione o a contenere momentaneamente qualcosa (vino, olio, frutta, soppressate, e così via) che in quel momento è necessario spostare, in altre parole un oggetto comodo. 2 [agg.] Agiato, benestante, es.: u figghju criscìu beddu commidu ‘il figlio crebbe comodamente’ (in una famiglia benestante).

Compenzàtu [s.m.] Compensato, ovvero materiale composto da più fogli di legno sottili incollati tra loro sotto pressione.

Cona [s.f.] Edicola votiva, nicchia o tempietto che accoglie nel mezzo una statua o un’immagine religiosa, specie della Madonna; molto diffuse sono quelle situate lungo le vie che portano nelle campagne mesorachesi; presenti anche nelle abitazioni private, ricavate nel muro o all’ingresso; diminutivo conicèdda.

Condoléo [s.m.] Località di campagna di Mesoraca confinante col territorio di Cutro.

Conètta [s.f.] Cunetta, ovvero piccolo canale affiancato ai bordi della carreggiata stradale o tra i confini di proprietà, per la raccolta dell’acqua piovana. La curiosità di questo vocabolo risiede nel fatto che di solito le parole italiane che hanno la vocale ‘o’ al loro interno, nel dialetto mesorachese si trasformano acquisendo la vocale ‘u’, in questo caso è accaduto il contrario, probabilmente è opera di un abitante di Filippa, infatti lì si dice cunetta.

Cònnice [s.m.] Poltrone, persona pigra che lascia faticare gli altri atteggiandosi, a volte, scherzosamente da nobiluomo, variante cùennice, vicino al significato di fraccommidu, es: s’è stennutu cuemu nu connice ‘s’è steso come uno scansafatica’.

Contra [s.f.] Piaga, contusione; il lemma è usato per indicare le lesioni o escoriazioni di asini o cavalli, causate dal basto sulla schiena, ma non è raro che venga riferito anche a persone.

Conzatìna [s.f.] Piccola riparazione sartoriale, ripristino momentaneo di un guasto idraulico, elettrico, murario, meccanico; il termine è applicabile a qualsiasi attività, ma è maggiormente usato per mestieri artigianali; non di rado, il lavoro effettuato, essendo temporaneo, non è eseguito con molta arte.

Copanàta [s.f.] Bastonata, indica soprattutto una grande sberla, quasi sinonimo di mappina o mascata; cfr commata.

Copaniàre 1 [v.tr.] Percuotere, prendere a botte; in senso esteso indica anche un tamponamento con l’auto. 2 Sfrugugliare allegramente e spensieratamente il naso, scaccolarsi di brutto, es.: se copaniava u nasu subra a virdura chi vinnia ‘si scaccolava il naso sopra la verdura che doveva vendere’. 3 Impegnarsi a fondo, lavorare sodo.

Còpanu [agg.] Rintronato, sordo.

Coppa 1 [s.f.] Insalatiera grande, da cui copparèdda ‘scodellina’ ‘ciotola’. 2 Castagna vuota o mezza vuota.

Coppìnu [s.m.] Mestolo, ramaiolo, es.: nu coppinu e sarza ‘un mestolo di salsa’ (di sugo di pomodoro).

Coppulìnu 1 [s.m.] Tipo di fungo conosciuto in italiano col nome di mazza di tamburo Macrolepiota procera Scop., eccezionale arrostito sulla brace aggiungendo soltanto un po’ di sale, variante cueppulìnu. 2 Berretto, coppola.

Coppulùta [agg.] Che è a forma di coppola, di coppa, che segue la rotondità della testa es.: (loc.) cumu a pii avuta e coppuluta! ‘come la prendi alta e rotonda!’ (come la prendi esagerata!).

Corchja 1 [s.f.] Buccia, membrana, sia della frutta che della verdura e per estensione la corteccia degli alberi. 2 La proprietà di alcune persone di essere rozze e grossolane, esempi: c’hai sulu corchja ‘hai solo buccia’ (sei proprio un villano), tamarru ccu a corchja ‘tamarro con la buccia’ (zotico elevato a grezzo). 3 Cotenna del maiale; guarda anche pedda.

Còrchjacu [s.m.] Tamarro esagerato, uno al di fuori della civiltà, es.: si nnu corchjacu ‘sei un troglodita zotico’.

Corchjulùtu [agg.] Gretto, volgare, rude, che ha modi villani.

Core [s.m.] Cuore, oltre che muscolo che pompa il sangue anche sede di spiritualità, generosità, affettività, esempi: apara u core aru Segnure ‘apri il cuore al Signore’, è unu e core ‘è una persona di cuore’ (generosa), c’è vo core ‘ci vuole cuore’ (ci vuole coraggio e/o sentimento a fare una certa cosa), mi si ci’affuca u core ‘mi ci si soffoca il cuore’ (mi viene meno il respiro, mi viene forte ansia), (loc.) u core cuntientu e a viertula ncueddu ‘il cuore contento e la bisaccia addosso’ (contenti in amore, contenti anche nella povertà), (loc.) quannu u ttieni nente chi ffare, sparamenta cueri ‘quando non hai niente che fare, sperimenta cuori’ (impiegare il tempo per testare l’amicizia di un’altra persona), (loc.) na cosa c’u bbena du core è cuemu na cucina senza sale ‘una cosa che non viene dal cuore è come una pietanza senza sale’, mi se sicca u core ‘mi si secca il cuore’ (me ne dispiace tanto).

Coriùsu 1 [agg.] Carino, simpatico, grazioso, variante curiùsu. 2 Curioso, attento.

Cornavàgghju [agg.] Tradito, che ha le corna appunto, marito cui la moglie abbia rotta la fede.

Cornétta [s.f.] Variante mesorachese della zampogna tradizionale.

Cornètte 1 [s.f.pl.] Fagiolini, sinonimo di vajanedde. 2 Modello di zampogna.

Corvicàre [v.tr.irr.] Sotterrare, seppellire, variante cuervicàre, esempi: ajieri l’anu corvicatu e già appicci a televisione! ‘ieri lo hanno seppellito e già accendi la televisione!’, (lap.) chi te viennu u te corvinanu ‘possa vederti seppellito’.

Cosicìeddu [agg.] Letteralmente ‘cosettino’ ‘oggetto piccolino’ e figurativamente spaccone, smargiasso, saccente.

Cota 1 [s.f.] Piccolo appezzamento di terreno agricolo. 2 [v.tr.] Sinonimo di cugghjuta p.p. di cugghjire.

Cotìste [s.m.] Alla lettera ‘quotista’, ma non nel significato italiano di ‘socio di una società che detiene una quota’, bensì assegnatario di un terreno demaniale, in particolare si fa riferimento agli assegnatari dei terreni dell’Opera Sila negli anni 50 con la cosiddetta Riforma Agraria; variante cotista.

trachi [s.m.pl.] Zona vicina a piazza De Grazia, contigua al palazzo Stranges.

tracu 1 [s.m.] Particolare tipo di terreno molto duro e pietroso, costituito da argilla e, in minima parte, da terra normale; un terreno non utile alle coltivazioni. 2 Incrostazione di sporco.

Cotulàre [v.tr.] Guarda cotuliare, forse cotulare rappresenta la versione ‘forte’, cioè una maggiore intensità dell’azione.

Cotuliàre [v.tr.] Scuotere, abbacchiare, percuotere, variante cotulàre; guarda anche scuetulare.

Covatìeddi [s.m.] Varietà di pasta fatta in casa diffusa in tutto il Meridione e conosciuti nell’italiano parlato come ‘covatielli’ o ‘cavatielli’. Si prepara tagliando la pasta in cilindretti come se fossero dei piccoli gnocchi, dopodiché con un’abile mossa del pollice e dell’indice, si fa ruotare il pezzo su una forchetta facendone assumere la forma cava e rigata. Se tale pasta viene condita con ragù di capra è d’obbligo anche la ricotta stagionata.

Covatùsu [agg.] Letteralmente ‘uovo da covare’, in realtà indica un uovo marcio.

Cozzarìeddu [s.m.] Nuca, guarda anche cuezzu.

Cozzuliàta [s.f.] Procedura artigianale praticata dai pastori, consistente nel battere con un martello il campanaccio di caprini e bovini per accordarne il suono; guarda anche campanottu. 2 Sonore percosse, buona razione di legnate, sinonimo di topuliata.

Crapa [s.f.] Capra, Capra aegagrus hircus L.; nel nostro territorio la capra è ancora molto apprezzata, sia in termini di latte, sia in termini di formaggi e sia come bontà delle carni.

Crapicciòla [s.f.] Fettuccia di stoffa per fare i legacci, mappine, cuscini, e altri piccoli usi.

Crapìettu [s.m.] Capretto, guarda anche cervieddu.

Crapìgna 1 [agg.] In maniera molto grezza, es.: ara crapigna ‘in maniera molto grezza’. 2 Con testardaggine e caparbietà.

Cràpiu [s.m.] Capriolo, Capreolus capreolus L.

Criànza [s.f.] La totalità delle buone maniere di una persona ben educata.

Criatùru [s.m.] Bambino, creatura.

Cricca [s.f.] Manipolo di persone, combriccola, accomunate dagli stessi interessi, con finalità non necessariamente edificanti e di favorirsi reciprocamente; infatti, il termine è diventato d’uso comune anche per indicare ‘compagnia di amici’, oltre che ‘banda di malavitosi’, ‘piccola mafia locale’.

Cridènza [s.f.] Credenza, credito, esempi: nuddu le fa cchjù cridenza ‘nessuno gli fa più credito’, (loc.) all’amicu u fare cridenza, ca mancia e viva e puecu te penza, quannu te vida scanza aru vicu, pierdi i sordi e pierdi l’amicu ‘all’amico non fare prestiti, che mangia e beve e poco ti pensa, quando ti vede scansa al vico, perdi i soldi e perdi l’amico’.

Crìesima [s.f.] Cresima, confermazione.

Crinu [s.m] Tessuto fatto col crine di cavallo.

Cripentàre [v.tr.] Bucare, forare da parte a parte, praticamente sinonimo di perciare; guarda anche scripentare.

Criscìenti [s.m.pl.] Rocchetto fatto di canna, su cui viene avvolto il filo tolto dall’arcolaio, quest’ultimo è un apparecchio di uso domestico o artigianale adoperato, specie in passato, per ridurre in gomitoli le matasse di filo, come lana e simili.

Criscimùgnu [s.m.] Periodo della crescita, dello sviluppo, ma anche quando la luna è al minimo; guarda anche freve.

Criscìre [v.tr. v.intr.] Crescere, svilupparsi, maturare, variante crìsciare, esempi: u criscire cchjù ‘non crescere più’ (sei già altissimo), (loc.) criscianu l’anni e criscianu i malanni ‘crescono gli anni crescono i malanni’.

Crista [s.f.] Cresta, l’escrescenza carnosa dei polli, es.: (loc.) vascia a crista! ‘abbassa la cresta!’ (proverbio italiano col significato più immediato di ‘ridimensionarsi’, in altre parole di ‘volare basso’, cfr tenate; da sottolineare che (almeno) a Mesoraca questo modo di dire spesso si connota con una buona dose di aggressività).

Cristarìeddu [s.m.] Falchetto o adorno, Pernis apivorus L.

Cristi [s.m.pl.] Piccole travi in legno temporanee, usate nell’edilizia per puntellare.

Cristiànu [s.m.] Persona, cittadino, cristiano, es.: i cristiani bueni e bbo u Segnure ‘i cristiani buoni li vuole il Signore’ (frase che dovrebbe consolare quando si è davanti alla morte di una persona buona).

Cristìeri [s.m.] Clistere, es.: va fatte nu cristieri ‘vai a farti un clistere’ (vai a farti fottere).

Crita [s.f.] Argilla, creta, da cui critùsu ‘argilloso, cretoso’.

Critàcchju [s.m.] Luogo ricco di argilla dove è facile sporcarsi, es.: tantu e fattu chi si gghjutu a finire intra nu critacchju ‘tanto hai fatto che sei andato a finire in un terreno argilloso’ (ovvero sei andato a sporcarti).

Critàru [s.m.] Giacimento di argilla.

Crivu [s.m.] Setaccio di forma cilindrica dal diametro di 50 cm circa e altezza di 15, usato per separare (setacciare) le olive dalle foglie durante la raccolta, attraverso una superficie di fili di ferro intrecciati a raggiera somigliante ad una ragnatela, es.: (loc.) si caduta du crivu ‘sei caduta dal setaccio’ (equivalente a ‘caschi dal pero’); con lo stesso termine ci si riferisce anche ad un setaccio della stessa forma e di misura variabile, usato per cernere la farina, es.: (loc.) u crivu ara piertica penna, vuegghju vidire all’annu a farina chi cerna ‘il setaccio sulla pertica pende, voglio vedere all’anno la farina che cerne’ (il proverbio fa riferimento ad una storia di una suocera, richiamata dal genero sul fatto che mancasse il setaccio alla dote della figlia, al che lei piccata gli rispose come sopra, evidenziando il fatto che lui era uno scansafatiche).

Croma [s.f.] Cocciutaggine, testardaggine.

Cromatìna [s.f.] Lucido per le scarpe.

Cromìgnu [agg.] Testardo, inflessibile, con sfumature da tignoso.

Crozza 1 [s.f.] Testa, capo. 2 Cocciuta testarda.

Crozzapilàtu [agg. s.m.] Alla lettera ‘testa pelata’, ossia persona con la testa rasata a zero, ma anche persona che ha perso i capelli, da cui crozzapilàta ‘testa rasata’, esempi: teh chi crozzapilatu chi si diventatu ‘teh che pelatone che sei diventato’, è crozzapilatu, u tt’u piare ‘è calvo non te lo prendere’ (è vecchio, non ti fidanzare), t’e fattu a crozzapilata ‘ti sei fatto la testa rasata’.

Cruce [s.f.] Toponimo che identifica la sommità del monte Petrara, meta di una processione il mercoledì prima di Pasqua.

Crucètta [s.f.] Fichi secche con un pezzetto di noce al loro interno, disposte a croce e infornate.

Ingredienti: raccogliere fichi parzialmente secchi da seccare meglio al sole, cannella macinata, zucchero, noci o mandorle. Procedura: pulire i fichi da eventuale polvere (alcuni gli danno una lavata o addirittura una sbollentata), spaccarli in senso longitudinale, togliere solo la parte finale del peduncolo e passarli con la parte interna nella cannella in polvere; aggiungere un po’ di zucchero e un pezzo di noce, dopodiché richiudere con altri due fichi. Metterle su una lannia e spolverare ancora un po’ di cannella e zucchero; infornare a temperatura moderata, sono pronti quando ben dorati. Conservare in barattoli di vetro con un po’ di alloro e bucce d’arancio secche.

Cruci [s.m.] Lunghi bastoncini di legno sui quali s’incrociano i fili dell’ordito.

Crùeccu 1 [s.m.] Sgambetto, es.: m’ha mmisu u crueccu ‘mi ha fatto lo sgambetto’. 2 Lungo gancio in legno, adoperato per abbassare i rami degli alberi da frutto, specie quelli di fico; da notare anche crueccu e astratìla ‘gancio di stadera’.

Crùegnu [s.m.] Grugno, persona poco socievole, insuperbita, variante crugnu.

Crùstulu [s.m.] Frittella semplice (farina, olio, sale, acqua) dalla forma toroidale-bitorzoluta, da inzuppare nello zucchero o nel vinicuettu, tipica del periodo natalizio; sono così sfiziose che ormai ogni occasione è buona per prepararle; ottime anche con gli affettati.

Cu 1 [prep.s.] Preposizione semplice ‘con’, guarda ccu. [pron.c.] 2 Termine composto dal pronome relativo ca ‘che’ unito al pronome personale u ‘lo’ oppure all’avverbio di negazione u ‘non’, la grafia giusta è quindi c’u, assume la forma eufonica c’ud se la parola che segue inizia per vocale; spesso la parola successiva raddoppia la consonante con cui inizia, esempi: para c’u manicu è ruttu ‘sembra che il manico sia rotto’, (loc.) va cercannu chiddu c’u ttena ‘va cercando quello che non ha’, u tte preoccupare c’ud è nente ‘non ti preoccupare che non è nulla’, chin’è c’u bbò? ‘chi è che non vuole?’, u cce cridire c’u ru vo ‘non crederci che non lo vuole’.

Cuàzzu [s.m.] Modo enfatico per dire cazzu, es.: u cuazzu chi te strafrica ‘il cazzo che ti strafotte’.

Cucchja [s.f.] Coppia, due esemplari di un insieme, es.: na cucchja e ova ‘una coppia di uova’ (due uova).

Cucchjàra [s.f.] Grosso mestolo di legno, usato per cucinare grosse quantità di vivande, ad es. le frittule, per cui usato su pentoloni e quadare, esempi: ha minatu u maritu ccu a cucchjara ‘ha picchiato il marito con la cucchiaia’, (loc.) va vida duv’e mpennare a cucchjara ‘vai a vedere dove devi (è meglio) appendere la cucchiaia’ (proverbio a cui spesso si intercala la frase cchi (cazzu) me cunti?! ‘che (cazzo) mi racconti?!’, ossia vai a vedere dove è meglio rompere il cazzo, vai a cagare va’, ovvero vedi come guadagnarti da vivere; abbastanza evidente il simbolismo cucchjara-fallo).

Cucchjaràta [s.f.] Cucchiaiata, il termine è anche usato per indicare una piccola porzione di un determinato cibo, es.: damminne na cucchjarata ‘dammene una porzione normale’.

Cucchjariàre [v.tr.] Mangiare, anche con una certa avidità, a cucchiaiate, ma anche assaggiare continuamente da una pentola, non lontano dall’italiano di scucchiaiare.

Cucchjarìnu [s.m.] Cucchiaino, di rado si sente la variante al femminile cucchjarìna, da cui cucchjarinàta ‘piccola quantità’, esempi: u cucchjarinu du cafè ‘il cucchiaino del caffe’, nu cucchjarinu e cafè ‘un cucchiaino di caffè’ (mezzo caffè, un sorso), cucchjarinu a lingua e passaru ‘cucchiaino a lingua di passero’ (cucchiaino con la parte finale appuntita).

Cucchjaròttu [s.m.] Cazzuola piccolina, adoperata dai muratori per le rifiniture, come per piastrelle e le rifiniture di stucco.

Cucchjàru [s.m.] Cucchiaio, es.: nu cucchjaru e pastina ‘un cucchiaio di pastina’ (una porzione piccola).

Cucchjarùne [s.m.] Alla lettera “cucchiaone”, ossia cafone, ingordo.

Cucci [inter.] Forma di richiamo per i cani, in particolare quando li si chiama per dargli da mangiare, si combina insieme a cuccité, es.: fiuu fiuu cucci cucci, cucci té fiuu fiuu ‘fiuu fiuu cucci cucci, cucci tieni fiuu fiuu (fischio)’.

Cuccu 1 [s.m.] Cuculo, Cuculus canorus L., es.: ci’ha sputatu u cuccu ‘ci’ha sputato il cuculo’ (il finocchio selvatico, per essere usato in risotto o minestra, va ovviamente colto quando è ancora tenero, di solito a maggio, esiste un indicatore per capire se è ancora buono, ossia controllare se c’è uno sputo di cuculo tra i rametti, in tal caso significa che è passata la stagione, il finocchietto è diventato duro, quindi non più commestibile; alcune anziane riferiscono che il cuculo sputa anche su altre erbe selvatiche, come le secre; in realtà non è il cuculo a sputare sulla pianta, la schiumetta bianca che si rinviene è prodotta da un insetto chiamato sputacchina, Philaenus spumarius L. Un’ulteriore credenza popolare, vede questo uccello legato alla simbologia del matrimonio e della morte; vi è una filastrocca a testimonianza di questa superstizione: cuccu miu de sita, quanti anni ce vuelu ppe me maritare? ‘cuculo mio di seta, quanti anni ci vogliono per maritarmi?’; la ragazza che recitava questi versi doveva contare i suoni (i rintocchi) prodotti dall’uccello per misurare gli anni che mancavano all’evento, ogni rintocco un anno; alla stessa maniera, se si è anziani, si può interrogare il fato riguardo ai rimanenti anni di vita. 2 Stupido, tardo, rimbambito.

Cuccuvèdda [s.m.] Civetta, Athene noctua Scop.

Cucìna [s.m.] Sinonimo di minestra, es.: vaju e me fazzu tecchjedda e cucina ‘vado a farmi un po’ di minestra’.

Cucinàtu [s.m.] Participio passato di cucinare, ovvero le vivande che si sono preparate e sottoposte a cottura, assimilabile a cena o pranzo.

Cucìre 1 [v.tr.] Cuocere, cucinare, far da mangiare, meno usato della variante còciare, esempi: cociame due ova ‘preparami due uova’ u ru cucire assai ‘non cucinarlo molto’, (loc.) cociala cumu vue sempre cucuzza è, ‘cuocila come vuoi sempre zucca è’ (è inutile negare certe evidenze), (loc.) u mmi cce dare carne a cociare ‘non darmici carne a cuocere’ (non mi dare ulteriori impegni oppure ‘non darmi occasione per arrabbiarmi’). 2 [v.intr.] Come nell’italiano, il termine è impiegato anche in senso figurato per indicare qualcuno che o, più di rado, qualcosa ci ha angustiato, assillato, rotto i coglioni. 3 [v.intr.pron.] Tormentarsi, assillarsi, le palle ce le possiamo cuocere bene anche autonomamente, es.: avie vidire cuemu mi cci’aju cuciutu ‘dovevi vedere come mi ci sono angustiato’.

Cucìvule [agg.] Cucinabile, cibo che si può preparare per essere mangiato, es.: (loc.) ud è cucivule ‘non è cucinabile’ (persona non accomodabile, puntigliosa).

Cucùddu [s.m.] Bozzolo, il bozzolo del baco da seta.

Cùcuma [s.f.] Grossa pentola in terracotta; viene designata con questo nome anche una casseruola in alluminio smaltato e un contenitore per prendere l’acqua; da cui cucumìeddu sorta di cucuma dai bordi più alti.

Cucùzza [s.f.] Termine usato per indicare sia la zucca (Cucurbita maxima Duchesne) che la cucuzza longa (zucca lunga), ossia la variante rampicante e dal frutto lungo della zucchina (Cucurbita pepo L.); guarda anche cucuzzieddu; come nell’italiano vale anche il significato figurato di ‘testa’, es.: a capu c’u parra è chjamata cucuzza ‘la testa che non parla è chiamata zucca’ (la persona che non parla non sa difendersi, anche se è in gamba).

Cucuzzàru [s.m.] Venditore di zucche.

Cucuzzìeddu [s.m.] Zucchina classica, anche nella sua variante tonda, Cucurbita pepo L.; guarda anche cucuzza.

Cucuzzìtu [s.m.] Località di campagna, alla fine della località chiamata Putrini.

Cucùzzu [s.m.] La parte più alta di una collina o di una montagna, cocuzzolo.

Cucuzzùne [s.m.] Frutto della pianta del lino Linum usitatissimum L., ossia la capsula che contiene i semi.

Cuda [s.f.] Coda, parte finale di qualcosa, es.: te cada a cuda ‘ti cade la coda’ (strana esclamazione usata in riferimento ad un regalo che supera le aspettative di chi lo riceve e ne desta meraviglia); guarda anche cudidda.

Cuddàra [s.f.] Grasso (armulicchji) che riveste l’intestino crasso del maiale, variante cuddura.

Cuddàre 1 [v.tr.irr.] Ingoiare, deglutire, inghiottire, variante coddàre; il termine indica anche il grado di appetibilità di un cibo ed è anche usato in senso figurato per segnalare inganno e raggiro, esempi: codda e citu ‘ingoia (mangia) e zitto’, u mme codda ‘non mi va’ (non riesco a mandarlo giù), si l’ha cuddata? ‘se l’è bevuta?’ (ingoiata). 2 [intr.] Tramontare, es.: è cuddatu u sule ‘è tramontato il sole’.

Cuddàru [s.m.] Collare, mentre nel linguaggio dei bastai s’intende una fascia di pelle morbida (ricavata dagli otri usati) usata nella costruzione della sella.

Cuddùru 1 [s.m.] Pane o dolce a forma di ciambella, da cui il diminutivo cuddurìeddu; da segnalare un cuddurieddu per bambini (cuddurieddu e casucavaddu) composto da un’anima di materiale vegetale ricoperto di caciocavallo, aveva la duplice funzione di arricchire la dieta del bimbo con il calcio contenuto nel formaggio, allo stesso tempo, una volta finito, il piccolo si faceva i denti sulla fibra vegetale, era commissionato ai pastori; infine, un cudduru che (in pratica) non si fa più, chiamato cudduru ccu grassu ‘ciambella con strutto’, ciambella fatta con l’impasto del pane, al quale era aggiunto un pizzico di sale in più e lo strutto, recuperato dalla bollitura delle frittule; era poco più grande di un taraddu e si configurava come una vera gulia; guarda anche taraddu, cuzzupa e gucceddatu. 2 Salsiccia composta da un unico budello e poi suddivisa in più parti tramite lacci di spago e che assume la forma di una ciambella, es.: nu cudduru e suzizza ‘un anello si salsiccia’; non è infequente sentire, sempre riferito alla salsiccia, il diminutivo (e al femminile) cudduredda.

Cudicìnu [s.m.] Picciolo, peduncolo, gambo di un frutto; il plurale Cudicini rappresenta una contrada e una zona di campagna di Mesoraca in posizione est rispetto al comune.

Cudìdda [s.f.] Coccige, osso sacro.

Cùecciu 1 [s.m.] Acino, chicco, oliva, esempi: nn’aju cuetu quattru coccia ‘ne ho raccolte quattro chicchi’ (poca roba), cchi pastina mintu? A cuecci e spieżżu, a cuecci e granu o a cocce e vena? ‘Che pastina metto? A grani di pepe, a chicchi di grano o chicchi di avena?’. 2 Pustola, foruncolo, brufolo, herpes al labbro, es.: si c’hai u cuecciu aru labbru, vo ddire ca te piasti l’impruvenza ‘se hai l’herpes al labbro, vuol dire che ti sei beccato l’influenza’.

Cùecula [s.f.] Occhio, palla dell’occhio.

Cùeddu [s.m.] Collo, es.: (lap.) te viennu u te rumpi l’uessu du cueddu ‘possa vederti rompere l’osso del collo’.

Cùefina [s.f.] Grande cesto in vimini a forma di mezzo uovo, un tempo usato prevalentemente per il trasporto a basto.

Cùemu [avv. cong. s.m.] Come, alla maniera di, variante molto usata cumu, esempi: cuemu te truevi ara Merica ‘come ti trovi in America (USA)?’, cuemu l’ha saputu e partutu ‘appena lo seppe partì’, mo me spieghi cuemu e quannu ‘adesso mi spieghi come e quando’, (lap.) chi te via cumu fai l’opere ‘che ti possa vedere come fai le opere’ (e quindi stare male per quello che fai), (loc.) cuemu la casa mia po gghjire avanti si unu spara a Levante e l’atru a Punente? ‘come la casa mia può andare avanti se uno spara a Levante e l’altro a Ponente?’, (loc.) cuemu t’adùetti te puerti ‘come ti adotti ti porti’ (come ti comporti appari e, quindi, sei), (loc.) fa cuemu t’è statu fattu c’ud è peccatu ‘fa come ti è stato fatto che non è peccato’, (loc.) a santu cuemu u prieghi, a maritu cuemu le parri ‘a santo come lo preghi, a marito come gli parli’ (con ogni soggetto bisogna saper parlare).

Cuemudedè [l.avv.] Come sia sia, in qualsiasi maniera, variante cumudedè, es.: cumudedè ame finire ‘in ogni caso dobbiamo finire’; guarda anche dedè e duededè.

Cuemuquànnica [l.avv.] Letteralmente ‘come quando che’, ovvero come se.

Cùenzu [s.m.] Ingrediente, condimento, es.: i cuenzi da pasta chjina ‘gli ingredienti della pasta piena’ (ovviamente la traduzione non rende granché la bontà di questo piatto tradizionale).

Cùeppu [s.m.] Secchio dei muratori, costituito da materiale plastico con il manico in metallo, esempi: ce vo nu cueppu e cimentu ‘ci vuole una secchiata di cemento’, (loc.) ormai u cueppu è chjinu e l’abbucchi! ‘ormai il secchio è pieno e lo rovesci!’ (proverbio usato quando qualcuno manda a monte qualcosa per la quale ha atteso a lungo), jetta l’acqua cueppi cueppi ‘butta l’acqua secchie secchie’ (piove con molta intensità, a catinelle per dirla in italiano); guarda anche cardaredda.

Cùeppula [s.f.] Coppola, berretto.

Cùeppulu [s.m.] Asta di legno su cui gira l’incannatoio, quest’ultimo è il dispositivo con cui si effettua l’incannatura, ossia l’avvolgimento del filato su rocchetti o bobine; guarda anche ntricatùru.

Cuerchjulùta [agg.] Legume o verdura che ha la buccia grossa o cotta male, infatti il termine trova più impiego nella cottura troppo veloce dei legumi, quando non sono stati preventivamente messi in ammollo e sono passati direttamente in pentola a pressione piuttosto che in una pignata al fuoco, in quest’ultima la cottura sarà omogenea e il legume ovviamente buonissimo, es.: si a suraca a cueci ara pentola a pressione te nescia cuerchjuluta ‘se i fagioli li cuoci nella pentola a pressione verranno fuori con la buccia in risalto e dura a mangiare’; variante corchjulùta.

Cùeriu [s.m.] Cuoio capelluto e per estensione anche la pelle umana, variante cùeru.

Cùernu 1 [s.m.] Corno. 2 Curvatura della stoffa.

Cùerpu [s.m.] Corpo, es.: jire e cuerpu ‘andare di corpo’.

Cùervu [s.m.] Corvo, Corvus corax L., es.: tra cuervu e cuervu u ssi ne caccianu uecchji ‘tra corvo e corvo non se ne cavano occhi’ (nella stessa categoria, professionale o meno, ci si rispetta).

Cùestu 1 [s.m.] Costola, costato. 2 Costo, prezzo.

Cùettu [agg.] Cotto, cucinato, ma anche sfinito, spacciato, ubriaco fradicio.

Cùezzu 1 [s.m.] Nuca, parte posteriore e inferiore della testa (cozzarìeddu), ma anche parte posteriore del corpo che congiunge il capo al tronco, il collo, esempi: cuezzu e pica ‘testa di pica’ (intercalare usato scherzosamente e affettuosamente, (loc.) li si nne ncrassa u cuezzu ‘gli se ne ingrassa il collo’ (proverbio che s’intercala, anche un po’ stizziti, quando qualcuno commette una bassezza oppure quando un negoziante non fa nemmeno un piccolo sconto oppure quando qualcuno si appropria di un bene pubblico, di poco valore e che potrebbe permetterselo). 2 Parte posteriore, non di taglio, di coltelli, asce, attrezzi agricoli, es.: mintalu e cuezzu ‘appoggialo dal lato non di taglio’.

Cuffàre [v.intr.] Sbuffare, soffiare nel senso di tollerare, spazientirsi, scocciarsi.

Cugghjìre 1 [v.tr.] Cogliere, raccogliere, variante cògghjare, es.: jamu a cugghjìre l’olive ‘andiamo a raccogliere le olive’. 2 Colpire, centrare un bersaglio, urtare, esempi: c’ha cuetu? ‘ci’ha colpito?’, u ll’ha de cugghjire ‘non lo deve urtare’.

Cugghjunàta [s.f.] Coglionata, cosa fatta da un coglione, poco seria, una presa in giro o una canzonatura.

Cugghjùne [s.m.] Testicolo, e tutto ciò che figurativamente indicano le accezioni dell’italiano e del dialetto, esempi: (loc.) ce si natu ccu i cugghjuni torciniati! ‘ci sei nato con i coglioni girati!’, (loc.) ne manciamu cugghjuni all’uegghju ‘ci mangiamo palle sott’olio’ (intercalare per dire che non c’è molto da mangiare; alcuni usano dire cugghjuni all’acitu ‘testicoli all’aceto’), si bbenutu ccu ri cugghjuni are manu ‘sei venuto con i coglioni in mano’ (ovvero ‘sei venuto senza portare nulla’).

Cugghjunèdda [s.f.] Cosa non vera, voce di corridoio, ma anche cosa futile e superficiale, di poco valore es.:  è na cugghjunedda ‘è una burla’ (chiacchiera, stupidaggine, quisquilia…).

Cugghjuniàre [v.intr.] Scherzare, prendere in giro, coglionare.

Cugghjunùtu [agg.] Permaloso, irritabile, collerico, di persona che ha i coglioni però girati.

Cugìnu [s.f.] Cugino, da cui cugìnamma ‘mia cugina’, cugìnumma ‘mio cugino’, cugìnatta ‘tua cugina’, cugìnutta ‘tuo cugino’.

Cugnunùta [agg.] Persona dura e poco dedita ad arrendersi, cazzuta; cfr cugghjunùta.

Cugnu [s.m.] Cuneo, sia quello di legno che quello in ferro adoperato per spaccare la legna; il termine è adoperato anche per indicare un terreno a forma di cono.

Cugnùttu [s.m.] Persona di bassa statura, tracagnotto.

Cujìre [v.intr.] Trattenersi dal parlare, sforzarsi a non rivelare, es.: (loc.) cuju cuju cuju u bbidi ca caju ‘mi sforzo mi sforzo mi sforzo non vedi che cado’ (insistendo nel voler conoscere un’informazione segreta, anche con abilità dialettica, l’interlocutore potrebbe “cadere” ossia cedere e quindi rivelare qualcosa che doveva rimanere segreto); guarda anche ncujìre.

Cula [s.f.] La proprietà di essere zuppi di sudore, la maggior parte delle volte a causa del caldo e/o di uno sforzo eccessivo, es.: sugnu na cula ‘sono tutta zuppa’.

Culaìta [s.f.] Passeraceo della famiglia Moticilladae, conosciuto in italiano col nome di ‘ballerina’ e scientificamente con i termini Motacilla alba L.

Culàrda [s.f.] Taglio di carne del vitello compreso tra la parte alta della coscia e la parte inferiore del filiettu strittu.

Cularìnu [s.m.] Parte finale del colon, il retto per intenderci, che talvolta per vari motivi può fuoriuscire dalla sua sede naturale.

Cularrìedi [avv.] Indietro, letteralmente ‘culo indietro’.

Culàta [s.f.] Colpo dato con le natiche, es.: dodici la culata ‘dodici la culata’ (guarda unamantellaluna).

Culiàre [v.intr.] Sculettare, ancheggiare.

Culiazzu [s.m.] Fondo di bottiglia o di fiasco, es.: ci nn’e rimastu nu culiazzu ‘ce n’è rimasto un fondo’.

Culigrùessu [agg.] Letteralmente ‘culo grosso’, persona robusta e/o persona con un gran sedere dal punto di vista anatomico, al femminile culigròssa denota di più una donna un po’ chiattona.

Culimùsciu [agg.] Letteralmente ‘culo moscio’, persona molto magra.

Culinìguru [s.m.] Tirato, spilorcio.

Culinùdu [agg.] Letteralmente ‘culo nudo’, ossia persona senza vestiti, nuda, es.: (loc.) e tantu chi si brutta pari na gaddina culinuda! ‘da tanto che sei brutta sembri una gallina nuda!’ (in effetti le galline quando fanno la muta sono orrende).

Culìrcia [s.f.] Formica, es.: na vota m’è trasuta na culircia intra l’oricchja ‘una volta mi è entrata una formica nell’orecchio’; guarda anche cannaruta.

Culirciàru [s.m.] Formicaio, nido e rifugio delle formiche.

Culistrìttu [agg.] Letteralmente ‘culo stretto’, il termine è da intendere figurativamente, ossia persona tirchia, tirata.

Culitìsu 1 [agg.] Persona che si atteggia, che si da delle arie, altezzosa. 2 [s.f.] Al femminile culitisa indica invece una ragazza col sedere nella classica forma a mandolino.

Culòstra [s.f.] Colostro, ossia liquido bianco giallastro (detto comunemente primo latte, latte immaturo), secreto dalla ghiandola mammaria dal 4° mese di gravidanza sino al 4°-5° giorno dopo il parto; costituisce il primo alimento del neonato, per cui è un alimento molto ricco di sostanze (aminoacidi, vitamine, grassi, sali minerali) e agenti immunitari, quest’ultimi fondamentali nei primi mesi di vita; in paese resiste una tradizione che ritiene non utile dare il colostro al neonato; un’usanza chiaramente sbagliata.

Culu 1 [s.m.] Culo, fondo schiena, chiappe, orifizio anale, esempi: (loc.) l’e fare intr’u culu ‘lo devi fare dentro il culo’ (col cazzo che farò come dici tu), (loc.) fore du culu miu due vo gghjire va ‘fuori dal mio culo dove vuole andare va’ (in senso strettamente fisico si vuole ribadire a un maschio che nessun rapporto anale sarà mai possibile, in senso metaforico si vuol sottolineare all’interlocutore che può fare quello che gli pare, basta che non rompa il cazzo. 2 Fortuna, buona sorte, da cui culùtu ‘fortunato’, es.: cchi culu chi cc’ha! ‘che culo che ci’ha!’ (che fortuna che ha).

Culùmpra [s.f.] Fioroni, i primi fichi buoni da mangiare, Ficus carica L.; non sempre si tratta di primizie, infatti alcune volte questi frutti sono molto in anticipo anche rispetto alle primizie stesse, è l’albero del fico che è così, a tarda primavera o inizi giugno porta a maturazione subito alcuni frutti, il resto in estate.

Culumprìeddu [s.m.] Albero di fico ancora troppo piccolo per portare frutti, ma anche piccolo fiorone.

Culùre [s.m.] Colore, tinta, es.: e cchi culure u vue? ‘di che colore lo vuoi?’ (oltre al significato esplicito, la frase è usata anche in senso scherzoso-cattivo nelle situazioni in cui l’interlocutore chiede un qualcosa di troppo pretenzioso agli occhi di lo deve elargire).

Cumannamìentu [s.m.] Comandamento, precetto.

Cumannànte [s.m.] Comandante, capo.

Cumannàre [v.tr.] Comandare, ordinare, variante cummannàre, es.: (loc.) chine cummanna u ssuda ‘chi comanda non suda’.

Cumànnu [s.m.] Comando, ordine.

Cummàri 1 [s.f.] Signora, comare, amica, vicina di casa. 2 Madrina di battesimo.

Cummàttare [v.intr.] Combattere, lottare.

Cummattimìentu [s.m.] Combattimento, lotta, più che altro a parole e imprecazioni, specie in quelle situazioni in cui una persona persevera in comportamenti che fanno arrabbiare, es.: ogne bbota è nnu cummattimientu, triculia e nu se dispriga mmai ‘ogni volta è uno scontro, temporeggia e non si sbriga mai’; poco adoperato il senso figurato di ‘conflitto interiore’.

Cummenàre 1 [v.tr.] Combinare, concludere, esempi: chi cazzu cummieni? ‘che cazzo combini?’, l’e cummenate chidde cose? ‘le hai combinate quelle cose?’ (hai concluso quegli affari?). 2 [v.intr.pron.] Conciarsi, ridursi, es.: s’è cummenatu cuemu Gesù Cristu ‘s’è conciato come Gesù Cristo’ (è così concio da somigliare a Gesù flagellato).

Cummenaziòne [s.f.] Combinazione, circostanza, coincidenza, es.: cummenazione l’aju vidutu e li l’aju dittu ‘combinazione l’ho visto e gliel’ho detto’.

Cummenìre 1 [v.intr.] Convenire, tornare utile, vantaggioso, opportuno, es.: u tte cummena u parti oje ‘non ti conviene a partire oggi’. 2 [v.intr.impers.] Essere vantaggioso dal punto di vista economico, es.: custa puecu, cummena ‘costa poco, conviene’.

Cummertazìone [s.f.] Conversazione, discorso, diatriba, esempi: u mmi cce truevu mmai a certe cummertazioni ‘non mi ci trovo mai a certe discussioni’, era mmiegghju ppennu mi cce truvava a sa cummertazione ‘era meglio se non mi ci trovavo a questa chiacchierata.

Cummiàre [v.intr.] Convincere, persuadere, una persona in generale a fare qualcosa, ad es. incontrare una certa persona, andare in un certo posto e così via.

Cummìeddia [s.f.] Commedia, sceneggiata, messinscena.

Cummìentu [s.m.] Convento, esempi: u cummientu e l’Acciomu ‘il convento dell’Ecce Homo’, u cummientu da Santa Spina ‘il convento della Santa Spina’.

Cummugghjàre [v.tr. v.rifl.] Coprire, ammantare, celare, ma anche proteggersi dagli agenti atmosferici, variante cummògghjare, esempi: cummogghja a pasta ccu na mappina ‘copri la pasta con un canovaccio’, cummogghjate buenu ca nivica ‘copriti bene che nevica’.

Cummurziòne [s.f.] Convulsione, contrazione, in particolare quella provocata da una forte febbre.

Cumò [s.m.] Comò, cassettone, canterano.

Cumpàne [s.m.] Companatico, ciò che si mangia col pane, varianti meno adoperate cumpanàggiu e cumpanàticu, es.: (loc.) u miegghju cumpane è u pitittu ‘il miglior companatico è l’appetito’ (quando si ha fame qualunque cosa da mangiare va bene).

Cumpàri 1 [s.m.] Signore, compare, es.: ccu ru cumpari Peppe, ci’avimu fatigatu assai ‘con il signor Giuseppe ci abbiamo lavorato molto’. 2 Padrino nella cresima o nel battesimo, ma anche testimone di nozze, es.: cumpari d’anellu ‘testimone di nozze’.

Cumpariscìre [v.intr.] Fare bella figura, mettersi in vista, comparire e per estensione mostrare di essere capaci di fare una buona figura, esempi: risparmi e cumparisci ‘risparmi e comparisci’, ccu re tende nove cumparisci e cchjù ‘con le tende nuove fai più bella mostra’; guarda anche scumpariscire.

Cumparùzzu [s.m.] Alla lettera ‘piccolo compare’, ‘comparuccio’, diminutivo affettuoso di cumpari; il termine viene inoltre adoperato anche in forma sarcastica o derisoria per indicare una certa disapprovazione verso qualcuno che, pur essendo un cumpari, ha combinato o detto qualcosa non perfettamente in linea nei confronti dell’interlocutore.

Cumpatiscìre [v.tr.] Compatire, provare compassione anche con senso di superiorità, scusare, valutare con bonaria indulgenza, variante cumpatìsciare, esempi: te cumpatisciu pecchì si nnuccu ‘ti compatisco perché sei stupido’, m’avite cumpatiscire si u sugnu pututa venire ‘mi dovete perdonare se non sono potuta venire’.

Cumpessàre [v.tr. v.rifl.] Confessare, dichiarare, ammettere, ma anche dire i propri peccati al confessore, ovvero confidarsi.

Cumpessionàle [s.m.] Confessionale, es.: na vota avie fare a fila aru cumpessionale ‘una volta dovevi fare la fila al confessionale’.

Cumpessùeru [s.m.] Confessore, variante cumpessore, il termine è quasi sempre usato per riferirsi ad un prete, es.: (loc.) chine tena a comodità e u ssi nne serva, u trova nu cumpesssore chi l’assorva ‘chi ha la comodità e non se ne serve, non trova un confessore che l’assolve’ (proverbio che sottolinea come sia una grande scempiaggine, tale da meritare una punizione, avere delle possibilità, che altri magari non hanno, e non servirsene).

Cumpettàre [v.tr.] Confettare, ricoprire di zucchero una mandorla o altro.

Cumpettàta [s.f.] Letteralmente ‘confettata’, dolce del periodo natalizio.

Ingredienti: 1 kg di farina (metà tennara e metà accappellu), 2 parti di vino e una d’olio per l’impasto, pizzico di sale, vinicuettu, zucchero noci/mandorle tritate, piccole quantità di uvetta.

Procedura: impastare farina, vino e olio (tiepidi), sale.  Amalgamare bene e modellare a forma di pitta, cuocere bene ad una temperatura di 220 °C. La pitta una volta cotta e fredda va sfarinata dentro il suzieri (mortaio) o nel frullatore (per gli amanti della modernità), poi prendere una pentola e mettere vino cotto e zucchero, quando la miscela è in ebollizione, aggiungere la farina della pitta, senza fretta per non formare grumi; amalgamare bene fino a raggiungere una crema morbida e compatta, a questo punto bisogna addizionare noci/mandorle e poca uvetta (a piacere). Infine, prendere della carta forno, ungerla e spolverarci sopra una manciata di zucchero, adagiarci l’impasto della pentola e modellare, con un cucchiaio di legno, a forma di parallelepipedo schiacciato (una pirofila quadrata, come per la cicerata, aiuta molto), spolverare ancora con zucchero; fare raffreddare e tagliare a piccoli torroncini, servire il giorno dopo. Si sta affermando anche una variante, ossia aggiungendo un pizzico di peperoncino calabrese in polvere nell’impasto.

Cumpidìenza [s.f.] Confidenza, familiarità, es.: u ddare cumpidienza ari strani ‘non dare confidenza agli estranei’.

Cumpìettu [s.m.] Confetto, guarda anche miennula per maggiori dettagli.

Cumpòrma [avv.] Mentre, nel frattempo, varianti cumpàrma e mporma, esempi: cumporma c’aspietti io vaju e piju l’acqua ‘nel frattempo che aspetti io vado aprendere l’acqua’, cumporma arriva chjamame ‘appena arriva chiamami’.

Cumprìccula [s.f.] Compagnia, combriccola.

Cumpurtàre [v.tr.] Sopportare, tollerare, subire, ma anche confortare, esempi: aju cumpurtatu a mammata 18 anni! ‘ho sopportato tua mamma 18 anni!’, (loc.) chine cumporta fumu cumporta corna ‘chi sopporta fumo sopporta corna’ (persona che lascia passare tante cose, troppe).

Cumpusiòne [s.f.]  Confusione, disordine.

Cumu [avv. cong. s.m.] Guarda cuemu.

Cumunicàtu [s.m.]  Comunicato, annuncio, es.: appiccia a radiu ca sentimu u cumunicatu de sette ‘accendi la radio che ascoltiamo il giornale radio delle sette’; durante la seconda mondiale era sinonimo di giornale radio, poi di telegiornale, oggi (poco usato) denota una comunicazione qualsiasi.

Cunchètta [s.f.] Sorta di pentola d’alluminio a bocca larga, più piccola della più piccola quadara.

Cunchjudìre [v.tr.] Concludere o conchiudere, realizzare, definire, variante cunchjùdare.

Cuncòciare [v.tr.] Far terminare insieme la cottura a due cibi che hanno avuto una prima cottura separata, per creare un giusto amalgama.

Cunìgghju [s.m.] Coniglio, Oryctolagus cuniculus L.; da notare che la specie cunigghju suricìnu (coniglio ‘sorcesco’) è invece in italiano il porcellino d’India (Cavia porcellus Pall.).

Cunnànna [s.f.] Condanna, pena, es.: teh cchi cunnana ch’é su figghju ‘guardo un po’ che sfiga che è questo figlio’.

Cunnannàre [v.tr.] Condannare, biasimare.

Cunnàta [s.f.] Alla lettera ‘figata’ ma il significato attribuito nel dialetto è di ‘cazzata’, ‘stupidaggine’, ‘cavolata’.

Cunnìeddu [agg.] Chi ha scarsa personalità, sempliciotto, es.: oih cunnieddu, ti l’e fatta fujire ‘oh cialtrone, te la sei fatta scappare’.

Cunnimùsciu [s.m.] Letteralmente ‘fica moscia’, ovvero persona (maschile) non di buona presenza, poco brillante in situazioni sociali, vicino al significato di cunnieddu.

Cunnìre 1 [v.tr.] Condire, insaporire con olio, es.: (loc.) chine resta se cunna a minestra ‘chi resta si condisce la minestra’ (chi resta ne ha benefici, chi parte o passa a miglior vita evidentemente no).  2 [v.intr.pron.] Lordarsi d’olio o altro grasso, es.: e cunnutu a mappina para para ‘hai sporcato d’olio il canovaccio completamente’.

Cunnirìepulu [s.m.] Pipistrello, nottola, forse Nyctalus noctula Schreber, sinonimo di nuettula.

Cunnu 1 [s.m.] Figa o fica, vulva e per estensione una donna o ragazza molto carina, esempi: nu pezz’e cunnu ‘un pezzo di figa’, u cunn’e mammata ‘la figa di tua mamma’, le piacia u cunnu ‘gli piace la gnocca’, ci nn’era cunnu aru centru commerciale? ‘ce n’era carnazza al centro commerciale?’. 2 Stupido, cretino, fesso, esempi: si propriu cunnu ’sei proprio scemo’, cunnu e Borgia ‘fesso di Borgia’ (fesso per eccellenza, ancora dibattuto il motivo per il quale si dica così, naturalmente gli abitanti di Borgia non ci stanno ad essere etichettati come dei cretini patentati). 3 Fortuna, ma solo nel dialetto mesorachese, non in quello calabrese, esempi:  cci’ha nu cunnu! ‘c’ha una fortuna!’, ce vo cunnu ‘ci vuole buona sorte’.

Cunnùttu [s.m.] Cunicolo, passaggio stretto, condotto.

Cunnùtu [agg.] Unto, sporco d’olio o di grasso.

Cunòcchja 1 [s.f.] Attrezzo per filare la lana o il lino, usato in accoppiata con il fuso, variante conòcchja. 2 Parte del nome dello strumento musicale chiamato cunocchja sonora, in questo caso la parte bombata dell’attrezzo è riempita con sassolini, o semi di vario genere.

Cuntàre 1 [v.tr.] Contare, enumerare, es.: cunta quantu simu ‘conta quanti siamo’. 2 Far parte, mettere in conto, es.: u mmi cce cuntare ppe stasira ‘non mi ci contare per stasera’. 3 Menarla, raccontarla, infastidire con discorsi poco veritieri o esagerati, es.: u mmi l’è cuntare però ‘non raccontarmela (menarmela) però’. 4 Raccontare, dire, esempi: cuntame na fragulidda ‘raccontami una fiaba’, (loc.) chine cunta i sui dolori perda u mienzu onore ‘chi racconta i propri dolori perde (il) mezzo onore’ (chi racconta le proprie sfighe perde in parte l’onore e la dignità). 5 [v.intr.] Avere il rispetto altrui, essere stimato, esempi: u ccunti nente ‘non vali niente’, chi cazzu cunti tu!? ‘che cazzo conti tu!?’.

Cuntèra [s.f.] Ciarliera, persona che non sa tenere un segreto, pettegola.

Cuntìentu [agg.] Contento, allegro, appagato, soddisfatto, es.: (loc.) chine se marita è cuntientu nu juernu, chine ammazza u puercu è cuntientu n’annu ‘chi si sposa è contento un giorno, chi ammazza il porco è contento un anno’.

Cuntìnu [avv.] Di continuo, ripetutamente, varianti contìnu e quintino.

Cuntìssa [s.m.] Località della Sila piccola, nel territorio di Mesoraca, situata poco più a nord del villaggio Fratta.

Cuntra [prep.] Contro, in opposizione, es.: tu si cuntra e mie ‘tu sei contro di me’.

Cuntrabbànnu [s.m.] Contrabbando, es.: sanu e pagghja e sigarette e cuntrabbannu ‘hanno il sapore di paglia le sigarette di contrabbando’.

Cuntrabbannìeri [s.m.] Contrabbandiere.

Cuntramùru [s.m.] Contromuro, muro di sostegno.

Cuntrappìsu [s.m.] Contrappeso, peso per bilanciarne un altro.

Cuntratìempu [avv.] Fuori tempo, evento o azione che accade in un momento non canonico, non regolare, talvolta non opportuno, come la maturazione di frutta fuori stagione, andare in vacanza in un mese non santificato alle ferie, e così via, es: ti nne vieni sempre cuntratiempu ‘te ne vieni sempre controtempo’. Etimo composto, guarda cuntra e tiempu.

 

Cuntrestàre [v.intr.] Parlare, dialogare, scambiarsi opinioni in maniera più intima che il semplice conversare, esempi: ni l’amu cuntrestata ‘ce la siamo raccontata’, chine ti l’ha cuntrestatu? ‘chi te lo ha raccontato’, vieni ca cuntrestamu nu pocu ‘vieni che parliamo un po’’.

Cuntrìestu 1 [s.m.] Discorso, discussione, es.: cum’è gghjutu u cuntriestu? ‘com’è andata la discussione?’. 2 Preoccupazione, timore, indica il fatto o l’oggetto concreto di un discorso, esempi: teh cchi cuntrìestu ‘guarda un po’ che discorso’ (mi preoccupa!), l’ha u cuntriestu mo ‘ha la assillo adesso’.

Cuntu 1 [s.m.] Conto, ma anche prima persona singolare del verbo cuntare, es.: famme u cuntu ‘fammi il conto’. 2 Racconto, fatto, pettegolezzo, es.: purtare u cuntu ‘portare (riferire) un fatto’ (o un pettegolezzo).

Cunzàre 1 [v.tr.] Aggiustare, riparare, accomodare, variante conzàre, esempi: mi l’è cunzata a magghjja? ‘me l’hai riparata la maglia?’, du friddu era cunzatu mussu e gghjinocchja ‘dal freddo era messo muso e ginocchia’. 2 Apparecchiare, imbandire, es.: conza a tavula ‘apparecchia la tavola’ (questo esempio deve essere necessariamente sorretto dal contesto, poiché la stessa frase pronunciata ad un falegname assume il significato di ‘riparare’). 3 Aggiustare di sapore, condire, insaporire, rendere gradevole il gusto di una pietanza come un sugo o una insalata, ma anche quello della propria bocca, esempi: conzacce nu dadu ‘mettici un dado’, nu cafè ca ne cunzamu a vucca ‘un caffè che ci aggiustiamo la bocca’. 4 [v.intr.pron.] Rassegnarsi, adeguarsi, aggiustarsi, esempi: ti cc’e cunzare ‘ti ci devi rassegnare’, (loc.) chine se vo cunzare mparu ha dde ragare e ligne ncueddu ‘chi si vuole aggiustare comodo deve portare la legna addosso’ (chi vuol stare comodo deve fare sacrifici).

Cunzìgghju [s.m.] Consiglio, avvertenza, esempi: (loc.) ara fimmina senza figghji nné ppe dinari nné ppe cunzigghji ‘alla donna senza figli, né per denari né per consigli’ (non ti assoggettare alle donne senza esperienza), (loc.) tutti i cunzigghji lassali e piali ma chiddi da capu tua u re lassare mai ‘tutti i consigli lasciali e prendili ma quelli della testa tua non li lasciare mai’, (loc.) u cunzigghju c’ud è pagatu ud è apprezzatu ‘il consiglio che non è pagato non è apprezzato’ (gli psicologi concordano).

Cunzulàre [v.tr. v.rifl.] Consolare, rincuorare, es.: cunzulamila tu a figghjama ‘consolamela tu a mia figlia’.

Cunzùlu [s.m.] Pasto preparato da amici o parenti e mandato (per consolare) ai familiari di chi abbia avuto un defunto; per tradizione non bisogna lavare i contenitori delle vivande per non incappare in un maladuettu.

Cupa [s.f.] Buca, fossa, cavità.

Cupàre 1 [v.tr.] Scavare, rendere cavo un oggetto, esempi: cupace nu menzu metru ‘scavaci mezzo metro’, i mannisi, all’antica, cupavanu nu troncu e nne facianu majidde ‘i boscaioli, all’antica, cavavano un tronco e ne facevano madie’. 2 Persuadere subdolamente, suggestionare capziosamente, es.: ma cupu io Mariuzza ‘la intorto io Mariuccia’. 3 [v.intr.] Fallire, mancare, es.: te cupatu u rigore ‘ti sei mangiato il rigore’. 4 Far sparire, uccidere, usato prevalentemente al p.p., es.: si l’anu cupatu a chiddu ddà ‘lo hanno tolto di mezzo a quello la’.

Cupeddùne [s.m.] Donna dai facili costumi con sfumature di malvagità, es.: a cupeddune e sorta ‘il troione di tua sorella’; guarda anche cupieddu.

Cupìeddu 1 [s.m.] Donna di mal costume. 2 Generico oggetto cavo; il termine indica anche un oggetto cavo da offrire come riparo alle api dove poi costruiranno l’alveare vero e proprio, a tale scopo talvolta si usava un barile vecchio.

Cupu [agg.] Cavo, vuoto, fondo.

Cupùne [s.m.] Parte dell’arto della mucca, corrispondente al muscolo accoppiato alla tibia, da cui si ricavano gli ossibuchi.

Curàddi [s.m.] Malattia della pelle dell’infanzia come la rosolia o gli orecchioni e che si manifesta con febbre ed escrescenze sulla pelle del viso e del torace.

Curatèdda [s.f.] Coratella, ovvero buona parte delle interiora di agnello o capretto da latte; il termine identifica anche il relativo spezzatino.

Ingredienti: coratella intera (cuore, polmone, fegato e milza) e relativi armulicchji, olio, sale aglio, cipolla, origano, alloro, peperoncino, pepe nero, vino bianco, aceto. Procedura: lavare le interiora e tagliarle a pezzetti, fare il soffritto (con aglio per l’agnello, cipolla per il capretto) e successivamente mettere a rosolare insieme i pezzi di coratella, a fuoco medio e per cinque minuti; aggiungere il vino e un goccio d’aceto, evaporati i quali lo spezzatino è pronto da mangiare.

Curcàre [v.tr. v.rifl.] Coricare, andare a letto, esempi: te curchi priestu cuemu e gaddine ‘ti corichi presto come le galline’, va curcate va! ‘vai a dormire va’!’ (vai a quel paese!), (loc.) ccu carni chi u tte curchi tutti umili te paru ‘con carni (persone) che non ti corichi tutte umili ti appaiono’ (all’apparenza le persone sembrano tutte buone, all’apparenza), vaju e mme curcu ‘vado a dormire’ (a coricarmi).

Cùrcia [agg.] Varietà di castagne a cui è difficile levare la buccia interna, ovvero castagne selvatiche, Castanea sativa Mill.; guarda anche nzerta.

Curdàru [s.m.] Cordaio, ovvero fabbricante e/o venditore di corde, spaghi e simili, es.: (loc.) avanti e arriedi cuemu u curdaru ‘avanti e indietro come il cordaio’ (riferita ad una persona inconcludente).

Curdùne [s.m.] Cordone, grossa fune.

Curdùta [agg.] Di qualcosa che ha consistenza di una cordicella, in particolare l’aggettivo trova uso nel definire una pasta fatta in casa che tiene la cottura, al dente.

Curi [escl.] Curi curi curi, richiamo per dare cibo alle galline, guarda anche ciciné.

Curìna 1 [s.f.] Verza, Brassica oleracea L. 2 La parte più alta di un albero dove è ancora possibile arrampicarsi; guarda anche curinieddu.

Curinìeddu [s.m.] La cima più alta di un albero, gli ultimi rami dove non è più possibile salire.

Curma [s.f.] Orlo, bordo, al limite, parola riferita quasi esclusivamente a contenitori di varia natura e dimensione, specie quelli ad uso alimentare, es.: inchjalu finu ara curma ‘riempilo fino all’orlo’.

Curmàre [v.tr.] Colmare, riempire, da cui il p.p. curmu ‘colmo’, es.: chissu è u curmu! ‘questo è il colmo!’.

Curmu [s.m.] Pezzo di qualcosa di grandezza variabile, il termine è però quasi sempre riferito ad un pezzo di legno, esempi: piame nu curmu e lignu ‘prendimi un pezzo di legno’ (da bruciare), (lap.) te viennu u te fanu curmi curmi ‘che ti possano tagliare pezzi pezzi’.

Curnutàzzu [s.m.] Accrescitivo di cornuto, ‘cornutaccio’, da leggere però in senso ironico, ovvero ‘mascalzone’ ‘furfantello’.

Curnùtu 1 [agg.] Cornuto, tradito, esempi: (loc.) curnutu e mazziatu ‘cornuto e picchiato’ (ovvero la moglie lo tradisce ed in più lo cazzia e gli dà delle botte o gliele fa dare dal suo amante; in senso esteso, oltre al danno anche le beffe), (loc.) l’ueminu gelusu mora curnutu ‘l’uomo geloso muore cornuto’. 2 [s.m.] Figlio di buona donna, testardo, es.: oh lu curnutu! ‘oh la canaglia!’.

Curpa [s.f.] Colpa, responsabilità.

Curramàre [v.tr.] Agitare, scuotere, bacchiare, sinonimo di derramare.

Curramatùre [s.m.] Contadino o operaio agricolo abile nella abbacchiatura.

Curramùne [s.m.] Colpo violento improvviso.

Currìa [s.f.] Cintura di cuoio dei pantaloni, esempi: l’ha minatu ccu a curria ‘l’ha picchiato con la cintura’, (loc.) subra e atru curria lariga ‘sopra d’altro, cintura larga’ (alle case degli altri mangi di più e quindi allarghi la cintura).

Currìata [s.f.] Frustata, scudisciata, data con la cintura dei pantaloni.

Currìeri [s.m.] Cinghia di cuoio del basto, serve ad avvolgere la parte posteriore degli animali.

Currìre [v.intr.] Correre, accorrere, affrettarsi.

Curritìzzu [agg.] La tendenza ad essere pronti e veloci a dare una mano a parenti o ad amici stretti in momenti critici come un lutto o una grave difficoltà economica, es.: chiddi du campu u ssu tantu curritizzi ‘quelli del Campo (i parenti che abitano al rione Campu) non sono tanto lesti (e attenti) ad accorrere’.

Currivàre [v.tr. v.intr.pron.] Offendere, imbronciarsi, corrucciarsi, esempi: mo l’e currivatu ‘adesso lo hai offeso’, te currivasti chidda vota ‘ti sdegnasti (offendesti) quella volta’.

Currìvu [s.m.] Corruccio, risentimento, broncio.

Curteddàta [s.f.] Coltellata, stilettata, ferita, esempi: (loc.) u miegghju amicu, e cchjù funne curteddate ‘il migliore amico, le più profonde coltellate’ (dal miglior amico anche le più pesanti delusioni), ai democratici na curteddata e ai comunisti na suppressata ‘ai democristiani una coltellata e ai comunisti una soppressata’ (slogan, risalente agli anni ’70, dei militanti del PCI).

Curteddiàre [v.tr. v.intr.rec.] Ridurre a coltellate, accoltellarsi, (lap.) te viennu u te curteddianu ‘possa vederti preso a coltellate’.

Curtìeddu [s.m.] Coltello, lama, es.: (loc.) u sse sa e quale curtieddu s’ha de murire ‘non si sa da quale coltello si ha da morire’ (quando si hanno tanti problemi e non si riesce a gestirli tutti).

Curtìna [s.f.] Recinto dove vengono chiusi gli animali, ovile scoperto.

Curtu 1 [agg.] Corto, breve, piccolo, da cui curtulìddu ‘cortino’. 2 [s.m.] Culto, ovvero piccola costruzione (piccolo tempio) dove si riuniva la comunità evangelica del paese, il posto identifica anche la zona, contigua al rione Tirune, da qualche anno i fedeli si ritrovano nel bello e accogliente Tempio Fonte di Grazia nel rione Rina russa, esempi: è gghjuta aru Curtu ‘è andata al Culto’, è bbicinu aru Curtu ‘è vicino alla chiesetta degli evangelisti’.

Curùna [s.f.] Corona, ornamento della testa, ma anche strofinaccio arrotolato a forma di corona che le donne adoperano come strato da interporre tra la propria testa e il peso da portare; guarda anche mpunire.

Cuscìenza 1 [s.f.] Coscienza, consapevolezza, molto usato anche come sinonimo di morale, es.: cumu te fa a cuscienza u ti nne frichi e sorta? ‘come fai (eticamente) a fottertene di tua sorella?’; il termine è concettualmente analogo al costrutto di mente e denota l’agire, i pensieri e si avvicina al sé interiore, ovvero all’anima di una persona; guarda anche mente. 2 Portafoglio, in senso figurato, es.: minta na manu ara cuscienza ‘metti una mano al portafoglio’.

Cusìre [v.tr.] Cucire, rammendare.

Cusitìna [s.f.] Cucitura, piccolo rattoppo.

Cusitùre [s.m.] Sarto, cucitore, sinonimo di custulìeri.

Custàna [s.f.] Trave in legno di castagno, impiegata nella costruzione dei tetti delle piccole case di montagna (guarda casedda), usate dai lavoratori come riparo e come magazzino temporaneo delle castagne.

Custipàta [agg.] Conservata non bene, ammucchiata insieme ad altro, (loc.) e cose malu custipate su ddi cani e ddi puerci ‘le cose mal conservate sono dei cani e dei porci’; l’infinito, custipàre, è ormai usato raramente.

Custulìeri [s.m.] Sarto, sinonimo di cusitùre.

Custùra [s.f.] Cucitura, bordatura, ossia cucire gli orli di un vestito.

Cutàli [s.m.] Sterpi e rami secchi, usati per accendere il fuoco; guarda anche liscigghjuemi e scucugghje.

Cutìcchja 1 [s.f.] Ciottolo, piccola pietra dalla forma circa ovoidale, esempi: (loc.) ne manciamu pane e cuticchje ‘ci mangiamo pane e sassi’ (modo di dire per sottolineare che c’è poco o nulla da mangiare), cuticchja e jumara ‘sasso di fiume’. 2 Grossa pietra di fiume, grande quanto un pugno o poco più, un tempo usata per frantumare il sale nel mortaio (guarda suzieri) o da impiegare come peso nei vasi ove dentro vi siano prodotti di salamoia. 3 Le uova degli uccelli, es.: sie cuticchje c’eranu intr’u nidu ‘sei uova c’erano dentro il nido’.

Cuticchjàta [s.f.] Sassaiola, lancio di sassi con lo scopo di ferire, es.: ne piavamu a cuticchjate ‘ci prendavamo a sassate’.

Cuticchjùne [s.m.] Pietra, sasso, le cui dimensioni possono variare da circa un pugno a circa la grandezza di un pane, di solito di forma tondeggiante o ovoidale, ma anche irregolare, es.: l’aiu piatu a cuticchjùni ‘l’ho preso a sassate’.

Cutrùmmulu [s.m.] Recipiente di terracotta adoperato in cucina per tenerci l’olio.

Cuttuttucà [cong.] Letteralmente ‘con tutto che’, ossia benché, sebbene (JBT), es.: ccuttuttuca l’aju annumatu ccu ru nume du patre! ‘nonostante gli abbia dato il nome del padre’.

Cutùra [s.m.] Zona di Mesoraca compresa tra l’attuale via Sara Rossi e la fontana di via Cutro, si estende poi verso l’alto e confina con i rioni Tirune e Petrachjana.

Cuva [s.f.] Cova, ovvero frutta o verdura raccolti acerbi e conservati nel sottotetto (guarda chjancatu) o altro luogo idoneo ad una maturazione lenta; il mantenimento avviene facendo un tappeto di felci e ricoprendo i vegetali da conservare con altre felci ancora; questo metodo permette di mangiare frutta o verdura fuori stagione; le arance, hanno un substrato di maturazione differente, vengono ricoperte con segatura, es.: i pumadueri ara cuva ‘i pomodori alla cova’.

Cuvàta [s.f.] Covata, nidiata.

Cuverìre 1 [v.tr. v.rifl.] Coprire, ammantare, nascondere, sinonimo di cummugghjàre, es. (loc.) cuvera a criatura quannu a petra suda ‘copri la creatura quando la pietra suda’ (proteggi sempre dalla temperatura i bambini piccoli, anche quando fa caldo perché più sensibili). 2 Termine generico per indicare l’accoppiamento negli animali domestici, nello specifico la monta della femmina affinché rimanga incinta.

Cuvernàre [v.tr.] Governare, gestire, da cui cuviernu ‘governo’, es.: ce vo na manu e cuviernu ‘ci vuole una mano di governo’ (frase usata per sottolineare che ci vogliono spesi troppi soldi o energie nel fare una certa cosa).

Cuvèrta [s.f.] Coperta, grosso panno, coltre, da cui cuvertèdda copertina, plaid.

Cuvìerchju [s.m.] Coperchio, copertura; il termine è anche impiegato per descrivere i copri-tasche di giacche e cappotti.

Cuvu [s.m.] Covo, tana.

Cuzzàle [s.m.] Villano, uomo zotico, tamarro.

Cuzzìettu [s.m.] Lardo proveniente dal dorso del maiale, nello specifico quello più vicino alla testa; talvolta la parola è usata per indicare la nuca nelle persone.

Cuzzùpa [s.f.] Dolce pasquale di solito a forma di ciambella o “S” stilizzata, solitamente sono presenti delle uova intere sulla superficie che cuociono insieme e sulle quali vengono incrociate dei pezzi di pasta come in una crostata; sono distinte in due categorie, dolce e amara (che ha abbastanza meno zucchero, ma è dolce lo stesso).

Cuzzupa duce (cuzzupa dolce). Ingredienti: 2 kg di farina 00 (tennara), 10 uova, 1 kg di zucchero, 3 buste di lievito, 10 cucchiai di olio d’oliva di Mesoraca, 250 ml latte; 2 tuorli e un albume ancora.

Procedura: sbattere le uova, poi unire lo zucchero, l’olio, il lievito, la farina, amalgamare il tutto; modellarle come una ciambella o a piacere, poi pennellarle con i tuorli e aggiungere zucchero sulla superficie. Cuocere in forno a legna per 20/25 minuti, possibilmente dopo la cottura del pane e ad una temperatura di 250 °C.

Cuzzupa amara (cuzzupa amara). Ingredienti: 4 kg di farina di grano duro (accappellu) e 1 kg di 00 (tennara), 10 uova; ogni chilo di farina 150 grammi di zucchero e un bicchiere d’olio (da vino, da picciriddu), 150 grammi di lievito madre (levatina) per ogni chilo di farina, semi di anice (50 grammi circa), acqua calda.

Procedura: sbattere le uova e poi amalgamare tutti gli ingredienti a partire dalla farina, la levatina, lo zucchero, l’olio ed infine i semi d’anice. Impastare bene e lasciare riposare per 15 minuti. Fare le forme e poi spennellarle con un uovo senza aggiungere zucchero.

I taraddi sono piccole cuzzupe di tipo amaro, anche se quelli all’antica erano senza uova.

Cuzzupèdda [s.f.] Termine affettuoso usato per indicare una ragazza/ina graziosa, adoperato anche il maschile cuzzupìeddu; diminutivo di cuzzupa.

Cultima modifica: 2022-03-13T10:47:45+01:00da mars.net