AVVERTENZE E INDICAZIONI

Tredici anni fa circa, molto umilmente, insieme ad Antonello Lamanna decidemmo di scrivere sotto il titolo Parole misurachisi “Appunti per un dizionario dialettale” proprio perché consci che scrivere un vocabolario non è un’azione che si conclude nell’arco di qualche anno di studio, difatti non si finisce mai, proprio perché la lingua è una cosa viva che si evolve col tempo – se non la lasciamo morire, sempre col tempo si colgono sfumature di significato che prima sfuggivano; racchiudere un vocabolo all’interno di una definizione è un’operazione ardua, a volte elegante, ma comunque difficoltosa.

Il vocabolario è strutturato come un qualsiasi altro vocabolario dell’italiano, pensato per essere autosufficiente, ovvero senza la necessità di consultare un altro dizionario per ricavare l’etimo, anche per quei termini che si ha certezza sull’origine. Oltre alle parole tipiche del dialetto, vi è stato un preciso criterio di scelta dei vocaboli, sono state selezionate tutte le parole che differiscono per almeno due lettere dall’italiano; sono altresì riportati anche tutti quei vocaboli (non tanti) molto simili all’italiano (ad esempio mparare, gabbare), ma che rivestono una certa importanza nell’economia linguistica del territorio – per un totale di circa settemila parole. Tipicamente, un lemma è costituito dalla sua categoria grammaticale, prosegue poi con il significato ed eventuali esempi – più di tremila, si chiude con la parte relativa all’etimologia.

Come dicevo, tutte le parole sono corredate di etimo, anche per quelle molto simili all’italiano di cui ben già si conosce la derivazione, il presente lavoro ne fa proprie le istanze. In generale, per le parole vicine all’italiano viene riportata una sola fonte bibliografica, poiché nella stragrande maggioranza dei casi c’è piena convergenza sull’etimo della parola, quando non vi è accordo alcune volte vengono riportate anche ipotesi alternative; per le parole tipicamente dialettali si è usato un metodo simile, in particolare, per non appesantire la lettura, si è preferito non riportare nessuna ipotesi etimologica quando l’origine della parola è ancora fortemente dibattuta e frazionata, nel testo è riportata la frase “Etimo incerto” o “Etimo dibattuto”.

I termini sono presentati prevalentemente al maschile, tranne in quei casi in cui il femminile riveste un’importanza semantica e di frequenza d’uso diversa dal maschile oppure che mostra una forma sostanzialmente differente (ciota/ciuetu, matria/patriu, nova/nuevu, bedda/bieddu), in tale situazione le parole sono state elencate entrambe.

Gli esempi una volta tradotti non sempre rendono al massimo l’idea che vogliono trasmettere, in alcuni casi perché la costruzione della frase del dialetto differisce da quella dell’italiano, in altri casi è un limite intrinseco di ogni lingua tradotta; in primo luogo mi sono premurato di riportare fedelmente la traduzione dell’esempio, si potranno quindi incontrare esempi tradotti con un italiano scorretto, ma dotato di senso, quando questo non è stato sufficiente si è aggiunto accanto (tra parentesi) il giusto senso dell’espressione, questa modalità è stata necessaria per un limitato numero di esempi e per la quasi totalità dei proverbi – circa settecento, i quali, quasi sempre, non hanno un significato letterale, diventa quindi necessario spiegarne il significato metaforico; lo stesso criterio è stato adoperato anche per le cosiddette lapidi – circa un centinaio.

 

AVVERTENZE E INDICAZIONI ALL’EDIZIONE DEL 2010

Si potrebbe pensare che scrivere un vocabolario sia una mera compilazione di una numerosa lista di parole, in un certo senso alcune volte è così e nessuno si sognerebbe mai di leggere un vocabolario, troppo noioso e freddo, privo di qualunque stimolo emotivo, ma è ovvio che sia così, un vocabolario non è un libro nel senso più classico del termine, è un manuale del linguaggio che si consulta ogni qual volta se ne ravvisa la necessità. In questo lavoro si è voluto dare spazio anche allo stile narrativo, spazio che normalmente non entra dentro un manuale, per compiere questa operazione, l’autore deve aggiungere la sua impronta personale, senza nulla togliere alla parte estetica e protocollare del lavoro.

Tipicamente, un lemma è costituito dalla sua categoria grammaticale, prosegue poi con il significato ed eventuali esempi, si chiude con la parte relativa all’etimologia. Solo la prima parte, relativa alla appartenenza grammaticale è strettamente rigida, ma anche la più breve; il resto, pur rimanendo tecnico assume in parte il genere narrativo, invece che l’impersonale e freddo stile “vocabolariesco”. E’ necessario premettere che racchiudere un vocabolo in una definizione, per quanto elegante essa sia, significa intrappolarlo, significa semplificarlo, d’altra parte sarebbe pressoché impossibile elencare tutte le possibili sfumature e accezioni a cui il vocabolo sottende, ma questo è necessario ad ogni vocabolario, semplificare per rendere più chiaro. Quindi un vocabolario non termina mai, ogni volta che si crede di essere a buon punto, spuntano parole o accezioni nuove, alcune poco usate, altre riflettono la patina del tempo, altre ancora semplicemente erano sfuggite all’attenzione, alcune addirittura si presentano come neologismi; in altri termini, si deve avere ben chiaro il fatto che per forza di cose un vocabolario è incompleto. Questa mancanza è in realtà un vantaggio, poiché permette al vocabolario di essere un lavoro in divenire, passibile di correzioni, di nuove aggiunte e che rifletta anche i tempi, in questa maniera è assimilabile ad un organismo vivente, che muta e si evolve col tempo. Anche le migliori tradizioni italiane nel campo dei vocabolari, dopo decenni di pubblicazioni annoverano ancora sbagli e incongruenze, l’autore chiede quindi indulgenza per eventuali mancanze e ringrazia anticipatamente per i preziosissimi suggerimenti; come spiegato poc’anzi, questi ultimi saranno preziosi e ben accetti, col tempo daranno al vocabolario più organicità e completezza.

Riguardo alla parte etimologica, si è dato spazio a tutti i lemmi: agli etimi conclamati, ovvero tutte quelle etimologie su cui c’è un generale consenso; agli etimi su cui ancora si discute e che vedono dottrine divise circa la provenienza e derivazione della parola; infine, si è voluto dare spazio anche ad alcune parole delle quali ancora nessuno (probabilmente) ha osato sviluppare un etimo poiché troppo dubbia la provenienza o troppo azzardate le possibili ipotesi. In generale, per le parole vicine all’italiano viene riportata una sola fonte bibliografica, poiché nella stragrande maggioranza dei casi c’è piena convergenza sull’origine della parola, quando non vi è accordo alcune volte vengono riportate anche ipotesi alternative; per le parole dialettali si è usato un metodo analogo, in particolare, per non appesantire la lettura, si è preferito non riportare nessuna ipotesi etimologica quando l’origine della parola è ancora fortemente dibattuta.

Il linguaggio adoperato nel compilare il vocabolario è quello usato ogni giorno dai mesorachesi, per cui non vi è stata alcuna censura, non perché si ami stupire, ma per non compiere un errore metodologico, è semplicemente il lavoro che farebbe un antropologo, ovvero descrivere fatti, oggetti e pensieri così come la lingua li descrive e non come dovrebbe fare secondo criteri ad essa alieni; naturalmente il metodo non deve scavalcare la sensibilità delle persone e ne offendere istituzioni pubbliche o religiose. Credo che i due campi, il linguaggio parlato e la sensibilità, si debbano influenzare a vicenda in maniera dialettica, in parole diverse è l’antica lotta tra forma e sostanza. Un esempio chiarisce meglio di molte parole: la nostra è una società in evoluzione, abbiamo ereditato dal passato, sia da italiani che da calabresi, una forte dose di democrazia fallocratica, che solo negli ultimi anni si sta avendo cura di correggere, evidentemente la lingua rispecchia queste usanze, perciò nel vocabolario termini come ciota o cunnu sono presentati innanzitutto per cosa rappresentano, ma l’autore ha voluto chiarire che si tratta di retaggi discriminatori nei confronti del genere femminile; sotto questo punto di vista l’aspetto etimologico diventa fondamentale e s’interseca con la storia e l’antropologia.

Oltre alle parole tipiche del nostro dialetto, vi è stato un preciso criterio di scelta dei vocaboli, ovvero sono state scelte tutte le parole che differiscono per almeno due lettere dall’italiano; sono altresì riportati anche tutti quei vocaboli (non molti) molto simili all’italiano o identici (ad esempio mparare, gabbare), ma che rivestono una certa importanza nell’economia del nostro idioma. I termini vengono presentati al maschile o al femminile in base alla loro frequenza d’uso, non è quindi specificato il maschile o il femminile, poiché il femminile si forma con la ‘a’ finale e il maschile con la ‘u’. Il plurale femminile con la ‘e’ e quello maschile con la ‘i’. I suffissi diminutivi maschili con eddu (plurale eddi) e icchju (plurale icchji) ad esempio niputieddu, cavuzunieddi, varrilicchju, previticchji; allo stesso modo il diminutivo femminile si forma con il suffisso edda (plurale idde) e icchja (plurale icchje, non molto usato), ad esempio Ntinnicedda, vrascioledde, machinicchja, caramellicchje. Quando la forma maschile e femminile differiscono sostanzialmente (es. nova/nuevu, bedda/bieddu) vengono indicati entrambi, ponendo maggior rilievo sulle sfumature.

Da sottolineare inoltre, che gli esempi una volta tradotti non rendono sempre al massimo l’idea che si voleva esprimere, ma questo è un limite intrinseco di ogni lingua; in prima istanza mi sono premurato di riportare fedelmente la traduzione dell’esempio, si potranno quindi incontrare esempi tradotti con un italiano scorretto, ma dotato di senso, quando questo non è stato sufficiente si è aggiunto accanto (tra parentesi) il giusto senso dell’espressione, questa modalità è stata necessaria per molti esempi e la quasi totalità dei proverbi, i quali, quasi sempre, non hanno un significato letterale, diventa quindi necessario spiegare il significato metaforico.

Indicazioni di lettura e convenzioni

Le indicazioni che seguono sono delle convenzioni adottate per facilitare la comprensione del testo. Non si è fatto ricorso a segni speciali per rappresentare la realtà fonetica e fonologica del dialetto, per la quale si rinvia alle note introduttive e al volume di Antonello Lamanna (1998)  “Cosi parla Mesoraca, dialetto e lingua di un paese della Calabria, Perugia, Era Nuova. La trascrizione semplificata con le lettere dell’alfabeto italiano è stata integrata con i seguenti segni diacriti: dd [cacuminale o retroflessa] cavàddu, cch  [costrittiva post-palatale] ucchiàre, tr [affricata alveolare] tràinu.

Vi sono, inoltre, altri tre suoni molti vicini alla pronuncia italiana: ng di ganga, s di scola e str di strina, per i quali si è ovviato rappresentandoli in corsivo.

Durante la consultazione, spesso s’incontreranno parole scritte in corsivo, questo significa che quel termine è una parola dialettale e che quindi rimanda alla sua stessa consultazione.

Ogni qualvolta s’incontra un cosiddetto “emoticon”, cioè le faccine stilizzate create con le lettere e i simboli della tastiera, ad esempio 🙂 o 😉 esso stesso oltre a rappresentare lo stato emotivo o divertente della frase, funziona anche da segno di interpunzione, cioè dopo tale segno non si incontreranno virgole, punti, o altro.

Le ricette elencate sono quelle più semplici o tradizionali, non sono state riportate le numerosissime varianti, visto che ogni famiglia ha un ingrediente segreto.

Alcune nozioni sono state attinte da Wikipedia (abbreviato con Wiki), e successivamente verificate con altre fonti della rete.

Ogni suggerimento va spedito al seguente indirizzo di posta elettronica: mcapocchiano@yahoo.it Per chi non avesse dimestichezza con il computer o semplicemente non ha la possibilità di farlo, è bene appuntarsi su un quaderno gli eventuali suggerimenti, all’occorrenza può essere d’aiuto il registratore vocale del cellulare; alla prima occasione utile contattate l’autore.

AVVERTENZE E INDICAZIONIultima modifica: 2022-03-13T10:29:34+01:00da mars.net