Liriche (Claudio Cisco)

EROS E MORTE

Eros e morte

camminano insieme,

l’uno a fianco dell’altro,

dall’origine dell’universo

sino all’eternità.

Non può esistere il sesso

senza l’incombente presenza della morte,

e non si può morire per sempre

se non si sparge prima su questa terra il seme dell’amore.

Ogni essere umano comincia a morire

da quando un orgasmo lo genera,

e conserva nella memoria d’una lapide

parte di quell’amore che non separa la vita dalla morte.

Non c’è maga Circe capace di convincere Ulisse

col dono dell’immortalità,

e non esiste spada di Damocle sul punto di crollare

che spaventi l’uomo

perchè quest’ultimo, bramoso d’avere tutto e subito,

ostinato e vanitoso,

innamorato di quel breve soffio che è la vita,

è pronto a sfidare persino gli dei primeggiando

pur di amare e morire,

respirando fino all’ultimo alito di vita,

sfruttando anche l’ultima goccia di sangue che arrivi al cuore.

Dinanzi a tanta meravigliosa presunzione di vitalità

anche l’Onnipotente resterebbe senza parole.

 

 

 

MADRE E FIGLIO

Perchè sei così sporco, figlio mio?

sembri il figlio di nessuno!

Ho fatto l’amore per la prima volta, madre!

con una grande signora.

Perchè l’hai fatto, figlio mio?

c’è il tempo giusto per ogni cosa.

Volevo farlo, madre!

non volevo avere rimpianti.

Ma sei impazzito, figlio mio!

hai imboccato una strada sbagliata.

Forse sto sbagliando, madre!

ma abbiamo sentito di farlo sulla terra e nel fango.

Tu hai perso il senno della ragione, figlio mio!

non ascolti più neanche tua madre.

Io ti voglio ancora bene, madre!

ma oggi ho scoperto di avere un’altra madre:

è questa terra che stringo nelle mani,

e l’aria che sto respirando,

e la natura, il mondo, l’universo

e tutto ciò che mi sta intorno.

E quando mi sentirò triste e solo,

mi arrotolerò con gioia nel fango,

soffierò felice sulla polvere delle mie mani,

bacerò i fiori dei campi

e mi laverò la faccia con l’acqua dei ruscelli.

Non ti capisco e non ti riconosco più, figlio mio!

ma come parli?

Io invece ora mi conosco bene, madre!

parlo col linguaggio dell’amore!

E darei tutto quel che ho

pur di trasmetterti la felicità che ho dentro.

 

 

 

IL MIO CORPO SUL TUO CORPO

Il mio corpo sul tuo corpo

si muove lentamente.

Il mio corpo sul tuo corpo

si dimena dolcemente.

Voglio scoprire il tuo segreto,

sprofondare nell’intima tua essenza

fino a esplodere in te violentemente

svuotando il mio liquido nel tuo nido inebriante.

Ora che sono in te

non puoi più nascondermi nulla,

ho svelato il tuo mistero di donna,

io ti possiedo, so tutto di te.

Prepotente,

sono entrato nella tua inesplorata caverna,

e nei tuoi umidi anfratti

sto scivolando.

Sono io il tuo corpo.

Sono io l’universo.

 

 

 

 

 

 

BIANCANEVE

Ragazzini eravamo forse bambini

una decina circa non di più

8-10-13 anni al massimo

queste le nostre età.

35 anni aveva lei se ben ricordo

Biancaneve la chiamavamo noi,

per cinquemila lire il pisellino ci toccava,

per dieci lo succhiava.

Infine per trentamila l’amore faceva

e sempre con uno per volta

mai tutti assieme

o più di uno.

Com’era bella Biancaneve nostra!

Com’era dolce e comprensiva!

Come ci sapeva fare!

Un dolce segreto era e nessuno di noi mai parlò.

Per caso l’ho rivista dopo 30 anni e forse più

appesantita, invecchiata, sfiorita, la nonna pareva

di quella Biancaneve conosciuta allora

ma un sussulto al cuore ho avuto lo stesso nel vederla:

“Biancaneve!”

d’istinto le ho detto senza volerlo;

“Prego?”

mi ha risposto stupita lei.

 

 

 

 

 

LE TUE MANI

Le tue mani morbide più della seta

sfiorano con dolcezza il mio pene,

lo accarezzano,

lo stringono,

lo muovono.

Chiudo gli occhi

mi concentro su quel delizioso piacere,

sospiro piano,

mi abbandono vinto,

abbraccio l’estasi.

Come un trovatello ragazzino

stretto fra le tue mani,

il mio membro si lascia andare,

cresce sempre più

nell’eccitante movimento d’un’altalena.

Il cuore ora sembra scoppiarmi in petto,

incontrollabile diviene il mio respiro,

esplode come neve bianca

il succo del mio piacere

splendido dono per le tue sapienti mani.

 

 

 

 

 

AMPLESSO

I nostri corpi che si scontrano

e si possiedono senza tregua.

Pelle bollente,

segnata,

battuta,

e il sangue che scorre dentro

impazzito.

Fluisco dentro di te

come un’onda inarrestabile

che mi porta a riva,

e poi

mi spinge di nuovo al largo.

Scopro limiti che mi fai superare

ancora prima che io me li ponga.

Non resisto perchè non voglio resistere.

Prima ti penetro la mente con la mente,

poi il sesso con il sesso.

Il tuo corpo apre la folle danza del piacere

e il mio puntuale risponde.

Penetro in te in profondità.

E’ come se io stesso entrassi in me,

scavando tra emozioni e desideri

che non conosco

e scopro ogni volta come fosse la prima.

Ti accarezzo

come un soffio di vento

e mi scuoto quando esplodo in te,

quando godo nella parte più intima del tuo corpo,

quando esce l’animale che ruggisce dentro di me.

E in quei momenti,

possiedo anche la parte più intima

della tua anima.

Ti faccio gemere, urlare, tremare, godere, venire.

Per me tu sei sempre

completamente nuda

anche quando sei vestita,

mai ho desiderato tanto conoscerti!

possederti!

amarti!

 

 

 

 

TI POSSIEDO

Ti guardo negli occhi fiore del male

e poi ti bacio tirandoti i capelli.

Ti mordo forte le labbra,

ti strattono, ti sgrido, infine ti faccio gemere.

Stringo la tua carne fra le mie mani,

ti spoglio fin dove voglio,

ti costringo in tutto e per tutto.

Ti colpisco forte e non smetto

neppure quando mi supplichi,

poi piego il tuo corpo sul tavolo

e ti espongo, ti offro, ti apro.

Ti insulto,

ti faccio promettere l’impossibile,

m’impongo e dispongo di te,

ti infilo dietro qualsiasi cosa,

la forzo sempre più dentro lasciandola lì come dolce tortura,

ti ficco il mio sesso in bocca fino a non farti respirare.

Poi ti alzo il volto e ti guardo,

ti penetro col mio membro

riempiendoti di me e di altro.

Ignorando le tue lacrime

ti sbatto violentemente,

ti uso,

ti possiedo.

Non puoi più pensare ora

e nemmeno agire: kamasutra dammi l’estasi!

Finalmente ti ho dominata,

mi appartieni,

sei totalmente mia.

 

 

 

 

LEGATO

E’ inquietante

questa corda nera

come l’atmosfera che respiro

attraverso la benda.

Mi preme sulla pelle

e mentre imprime strani disegni su di essa

sembra che il fuoco divoratore di cui è capace

mi trasformi ammaestrandomi con disciplina.

In preda a questo vizio perverso

che mi hai insegnato,

non so difendermi

nè voglio, mi lascio andare sconvolto nei sensi.

Questa corda mi appartiene,

i suoi fili intrecciati m’immobilizzano

iniettando nei miei occhi

sete di sfida.

Le parti del mio corpo vibrano

imprigionate in quella ragnatela di piacere,

risalta inconfondibile il desiderio

di abbandonarmi completamente a te.

Se non fosse stato creato il piacere sessuale

quanti peccati legati ad esso

non sarebbero stati commessi!

E’ perché è considerato peccato se piace così tanto?

Può il piacere sessuale essere anche piacere dell’anima?

 

 

 

 

 

 

 

STRANE SENSAZIONI

 

Strane sensazioni pervadono il corpo e la mente

mi attraversano, mi riempiono, mi lacerano, mi annientano:

la frusta, le corde, le catene

tutto mi consuma.

Attraversato, riempito, lacerato e infine annientato

e poi ancora sconfitto, umiliato, usato

in qualunque gesto, in ogni parte del corpo.

Quale grande capacità possiedi!

Quante infinite sensazioni mi regali!

Che potente nettare di piacere mi offri!

Strane sensazioni mi vincono

fino a divenire un tutt’uno di orgasmi

in una perfetta simbiosi.

 

 

 

IL MIO IMPERO

Sono entrato prepotentemente

nella tua anima fortificata.

Inesorabile ho abbattuto ogni tua difesa

e conquistato la tua nuda terra.

E ora

senza nessuna clemenza, nessun mistero

ciò che un tempo era soltanto tuo

adesso è anche mio.

Mi muovo espandendomi dentro te,

come fuoco che brucia appare il mio pene

forte quando divampa,

umiliato quando si spegne.

Ma anche tu sei crollata senza scampo,

nel tuo fragile corpo ormai

ho costruito il mio impero.

Arrenditi a me!

 

 

 

 

PAGLIACCIO BAMBINO

Tu sensuale, invitante, carnale

magica e perfetta nelle tue assurde follie di donna.

Gemiti appena sussurrati,

orgasmi urlati a squarciagola

ma sei sempre tu, tu e soltanto tu

dolce e glaciale, candida e perversa,

lucente angelo meravigliosamente diabolico.

Tu carne e cibo della mia mente,

pericoloso rifugio per la mia anima,

cavallone impazzito che travolge il mio mare di insicurezza.

Sento di essere un uomo

solo nell’istante in cui vengo in te,

poi torno e resto per sempre

pagliaccio bambino.

 

 

 

 

 

LA FINE DELLA MAGIA

Il mio respiro,

il suo.

Il mio battito,

il suo.

I respiri che si accordano

ritmici,

affannosi,

incalzanti,

ansimanti.

Il cuore

batte, batte, batte

tutto il petto batte,

pulsa in gola,

pulsa nell’anima.

I pensieri assumono lo stesso ritmo,

la stessa intensità,

si uniscono,

si esaltano.

Un crescendo folle e continuo:

vertigini,

ronzii,

la mente

che ha lasciato ogni controllo.

Le emozioni

sono padrone dei corpi.

Avvinghiarsi,

rotolarsi,

ubriacarsi,

urlare.

Secrezioni,

sudore,

saliva,

odori intensi.

Segnale della fine

o è solo l’inizio?

Silenzio…

assaporando la fine della magia.

 

 

 

 

 

 

SOLO UN ISTANTE

Il cuore che scoppia,

il respiro affannoso.

Esplodo finalmente

come unico rimedio

per non impazzire di piacere

ma è solo un istante!

La mente si svuota,

lentamente sento uscire

poco a poco ciò che è di lei.

Non sento più le mani, le gambe

non so più chi e dove sono:

odore, sudore, respiro

non sento più nulla!

non ho più un corpo,

mi sfugge l’anima.

E’ solo un istante,

poi mi sento leggero.

Una piuma che lieve

si culla tra le nuvole

in un cielo immenso

e mai si posa.

Rientro di colpo nella realtà

disteso sopra il suo corpo abbandonato:

ho soltanto amato!

 

 

 

 

 

FRA LE TUE COSCE

Ora che mi ritrovo fra le tue cosce

vorrei stare fermo per un istante:

donna di terra e di acqua

plasma la mia nella tua intensità!

invadi anche la mia mente!

prendi tutto del mio essere!

Io cane fedele d’ogni tuo desiderio

desisto nel non voler più il poeta in me

in questa sera di stelle senza tempo,

dove in una folle danza di erotismo

si perde persino il mio gemito

formica nella tua foresta di peli.

Donna che mi ami senza amore,

non è alba o tramonto,

non è estate o inverno

e non è nemmeno gioia o dolore:

è un fiore che germoglierà tra le tue cosce

donato insieme con te a questo mondo.

 

 

 

 

NETTARE DI TE

Col fuoco addosso

umida tana

non placa il rogo

che di te s’avvampa.

Dentro il tuo corpo

su quel sentiero

inseguo paradisi

a luci spente.

Nel tuo regno

frugo l’oscuro

cercando sensazioni

oltre il tempo.

Ti desidero

in quel possederti

gocce di sole vanno

oltre il cielo.

Esplorandoti

oscuro tunnel

dov’è racchiusa in te

luce di stelle.

Sabbie mobili

affondano nel clitoride

ma in quel cader mio

non cerco scampo.

Mappe d’estasi

sul tuo mare

disegnano le magie

dell’infinito.

Nettare di te

raccolgo le gocce

d’oscuri paradisi

fra i cespugli.

 

 

 

 

UN LAMPO NELL’OMBRA

Donna completa, mela carnale, luna calda

denso aroma d’alghe, fango e luce mischiati

quale oscura chiarezza s’apre tra le tue colonne?

Quale antica notte tocca l’uomo con i suoi sensi?

Ahi! amare è un viaggio con acqua e con stelle,

con aria soffocata e brusche tempeste di farina,

amare è un combattimento di lampi

fra due corpi da un solo miele sconfitti.

Bacio a bacio percorro il tuo piccolo infinito,

i tuoi margini, i tuoi fiumi, i tuoi minuscoli villaggi,

e il fuoco genitale trasformato in delizia

corre per i sottili cammini del sangue,

si precipita come un garofano notturno

fino a essere e non essere che un lampo nell’ombra.

 

 

 

 

 

 

EROS D’ESTATE

E siamo

mari in tempesta

venti che onde

già portano in cielo,

aliti ardenti

che accendono di fiamma

l’umida tua pelle.

S’intrecciano le dita

a catturar magie

mentre

sotto le stelle

un vulcano si risveglia.

Nudi

vestiti d’amore,

ci prendiamo,

ci sentiamo

annullandoci a vicenda.

Il tempo dei sogni

s’è assopito,

ora pulsa la vita,

l’amore!

Ed il respiro,

frenetico,

corre

sui ritmi

dell’estate.

 

 

 

 

 

CANTO DI DELIZIA

La mia lingua sfiora la tua lingua,

il mio sesso nel tuo sesso,

il mio cuore nel tuo cuore,

la mia vita nella tua.

Anima sguarnita da ogni vincolo

stretta a me in un desiderio sfrenato

rincorre la perfetta incarnazione del godimento.

Bagnato è il tuo corpo

di linfa sacra

dove riposa la più alta eccitazione

delle fantasie più proibite ed inconscie.

Profumo di rose appena colte

sparse nel tuo campo che ho appena sconfinato,

in un sussulto il tuo respiro

sa di mandorle e canditi.

I tuoi vagiti si fondono con i miei

creando intensi movimenti fisici

di pura creazione artistica

tramutandosi in un canto di delizia.

 

 

 

 

 

 

GODI

Eccoti giungere

stanotte e mille altre ancora

preda esclusiva del mio letto,

trappola divina di desiderio.

Su colline di creta morbida

i miei baci sparpagliati,

accarezzami con gli occhi

mentre scorri sul mio cuore arso.

Benvenuta, entra!

Spengo la luce?

Soffio sul buio e ti accolgo,

senza una parola

ingurgiti il mio sesso

bevendone avida il succo.

In un abbraccio stordito

mi trascini giù

su lenzuola chiare

che odorano ancora di candele spente,

ritratto di mani voraci e volti sconosciuti.

Nel silenzio

che ci avvolge insieme,

strappi incauti di sospiri, atti più impuri

orgasmi che ritmicamente si susseguono

e che rammendo senza fretta.

No, non chiedermi niente! Sei già proposta indecente.

Godi…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

OMBRE SUL MIO GIACIGLIO

Non sarà nè legno nè pietra

a vegliare sul mio riposo,

nè sarà un fiore

il pegno del ricordo.

E non saranno le fronde dei cipressi

a fare ombre sul mio giaciglio,

nè epitaffio nè voce nè ricordo di un caro

come amara consolazione del mio definitivo viaggio.

La terra è la mia culla,

la selva intatta il mio nascondiglio,

la polvere e gli sterpi il dolce lenzuolo,

il silenzio il mio unico compagno.

 

 

 

 

 

ESSENZA LARVALE

Su strada nera conduco i miei passi,

nascosto oltre un nulla d’infinito,

una volta oscura sovrastante incombe.

Ascolto le cadenti lacrime della natura,

scendono sul mondo e me

cencioso essere mortale.

Enigma è la mia inesistente provvidenza,

nichilismo dei buoni sentimenti

icone perdute di essi.

Come dalla psiche profonda

omissioni di verità approdano

caricandomi di brama di comprensibilità.

Fuori da mura di pelle

le febbri son più grandi

dei geli del cuore.

Respiro zolfi del mondo

dove il calore diviene sempre più tenuo,

solo fredde spinte sussistono in me.

Nessun vigore ausilia la triste marcia,

tranne un’anomia fredda come il cuore

d’essenza larvale che sono.

E soltanto ora la mia anima maledetta

comprende il senso insensato

di un’esistenza di vela senza vento,

di airone senza ali,

di carne senz’anima.

 

 

 

 

 

 

NULLA ESISTE OLTRE I SOGNI

Nel buio della notte,

seduto sull’orlo di un precipizio,

ammiro la bellezza della luna,

il suo pallore è come il viso della morte

che affamata di anime

attraversa l’aria contaminandola.

Niente!

solo oscuri pensieri

che trafiggono la mia mente,

grigie lame di metallo

che perforano la mia anima,

sangue che scorre

lungo il mio corpo.

Il cammino da seguire è lungo

ma non riesco più a vedere oltre,

non ce la faccio a capire,

non posso più correre.

Morfeo mi avvolge nel suo mantello ramato,

lacrime di morte

scendono dal cielo illuminato dalla triste luna

mentre il vento sfiora il mio corpo

e la solitudine mi trascina nella valle della morte.

Ho perso ogni mia speranza,

il fuoco della vita brucia il mio spettro.

Nulla esiste

oltre ai sogni,

mondi fantastici di oracoli e maghi

che cancellano la realtà.

 

 

 

 

 

 

DEPRESSIONE

La salute c’è

non presenta nessuna malattia.

Eppure è così deperita,

quando dorme sembra morta!

Cos’ha questa povera ragazza?

Non ha niente!

Ha solo il verme

della depressione

che la sta consumando

pian piano

ogni giorno di più.

 

 

 

 

 

 

ANGELI SPORCHI

Essere due piccole gocce di inchiostro nero

su una tela dipinta

ove falsi colori vivaci

esaltano con cattiveria e pregiudizio

la loro diversità:

non spetta anche a loro sognare l’armonia?

No! il cielo non ammette angeli sporchi

e violento strappa loro le ali.

Essere creati

per vivere accanto alla colpa,

insieme alla vergogna

ma di cosa?

Di essere diversi? Ma da chi? Perchè?

Domande che chiamano altre domande

in un girotondo senza risposte.

La confusione aumenta

al pari di uno strano risentimento

che fa soffocare,

che induce a dubitare:

E’ questo ciò che gli altri vogliono da loro?

Che non esistano?

E’ quello che vuole il loro Dio?

Che non esistano?

Sì! il cielo non ammette angeli sporchi

e graffia la carne sotto la loro pelle.

Ho visto quelle due piccole gocce avvicinarsi

fino a diventare una sola,

angeli che finalmente hanno qualcuno

che asciughi le loro lacrime,

che li accarezzi,

che li abbracci!

Angeli sporchi

che ora si stringono tra loro

consolandosi a vicenda.

Un solo gesto,

un grande coraggio!

Il piacere profondo del peccato giudicato dagli altri

peccato come realizzazione di un sogno

come fuga da un mondo ipocrita in bianco e nero,

come vendetta verso una madre

che cerca di soffocare sul nascere

le proprie creature.

Perchè mai l’uomo

non rispetta l’uomo?

Non riesco proprio a capire…

 

 

 

 

 

LA BESTIA RARA

Sguardi sconosciuti,

persone che mi scrutano, esaminano, giudicano

che ridono guardando

verso di me o nel vuoto.

Non so…

in qualunque caso

sono persone come altre

che seguono la massa.

Non apprezzano la diversità come novità.

Alcune mi fissano

come se fossi una bestia rara, un bersaglio da colpire

a volte mi fanno paura

sembra che mi disprezzino,

che vogliano farmi del male.

Forse solo perchè mi distinguo dal gregge

e sono per inclinazione

fuori dal coro.

Mi sento un ebreo fra i nazisti.

Ma io non sono nato per far fare numero

o per consumare ossigeno prezioso,

ho un’anima con me anch’io,

preziosa e brillante più di un tesoro,

io e Dio soltanto

sappiamo bene il valore che ha.

 

 

 

 

 

 

I MIEI PIU’ ATROCI INCUBI

Sono stato al parco.

Era notte.

Buio.

Cielo nero a sovrastarmi.

Incerto presagio di fine.

Io e l’oscurità.

Mi sono inginocchiato

ai piedi dell’acqua sporca che scorreva.

Ho rivisto il mio volto,

nel silenzio ho urlato,

ho urlato,

urlato!

fino a non avere più voce.

Non ero solo,

eppure mi sentivo come abbandonato.

La solita sensazione di dispersione

che si impadroniva nuovamente di me.

Sarei voluto correre via, scappare via

veloce, sempre più veloce

ma sono rimasto paralizzato

senza armature per difendermi

vittima dei miei più atroci incubi.

 

 

 

 

 

 

OMBROSI PENSIERI

Desolazione d’anime

nella valle dell’attesa.

Da crisalidi pendenti

cadono lembi di carne putrida

(adombrata metamorfosi

di esseri un tempo umani).

Coltivazioni demoniache

di ombrosi pensieri.

 

 

 

 

 

PERDUTI

Percorrendo una vuota spirale

alla fine della quale troveremo noi stessi,

osserviamo la nostra ombra crollare al suolo

affrontando il riflesso di una nostra immagine residua

concepita nella più cupa desolazione.

Giacendo su queste corrotte strade di vorticanti pensieri,

mentendo ai nostri propri stati mentali,

tratteniamo tutto ciò che non saremmo

anelando a ciò che ci è proibito.

Un delirio di onnipotenza è ciò che chiamiamo conoscenza

senza renderci conto che il decadimento è solo un passo avanti

ma la vanità in cui crogioliamo

si è mutata nella nostra gloriosa tomba cristallina

coesione sublimata di un ego inferiore pieno di incompiutezze.

L’umanità si consola aspettando l’arrivo di un nuovo messia sintetico che possa risanare i nostri corti circuiti interiori

decretando l’annullamento dei nostri ultimi atomi,

così saremo definitivamente perduti.

 

 

 

 

 

 

SORELLA MORTE

Gioco con le mie emozioni,

una manciata di biglie di vetro nella mia mano.

Per ogni biglia infranta

un sogno si dissolve.

Resto a fissare

il cupo riflesso della mia noia,

Biglia infranta,

crepa nel mio cuore.

Frammenti di vetro,

illusioni svanite.

Con sguardo apatico

osservo pezzi di intonaco volare via,

e non tenderò alcun muscolo

posseduto da un’inerte volontà,

non cercherò di andare al di là di questo velo

che mi copre tutto.

La mia anima si scioglie,

ogni cosa grava, ingarbugliati pensieri

nulla emana benefica essenza.

Ardo di una luce opaca.

Fallo con grazia, sorella morte

spegnimi con un soffio!

 

 

 

 

 

 

 

UN MONDO DISFATTO

Il mio demone mi mostra la realtà più brutta di com’è

guarda attraverso i miei occhi deformandola

e contempla un modo disfatto.

Il canto della sirena

giace impotente ai piedi del rumore.

Il senso della vita

ha perduto lo scettro,

resta una lapide senza nome

del tempo che fu.

Il mausoleo del giardino delle rose

è stato violato

da malvagi profanatori.

Ma non riesco a gioire

nel vederli annegare

in laghi di sangue.

L’amore perduto

non tornerà mai più

a specchiarsi dentro di me.

Siringa e sangue lungo il mio cammino,

confini sordi alla realtà per la mia mente in gabbia,

ciechi gli occhi dello spirito.

Non so come uscirne fuori!

 

 

 

IL SERPENTE

Un’eco

insegue la mia fuga,

è una lingua di fuoco

che tutto brucia

e che quando mi raggiungerà

consumerà il mio essere.

È forte solo perché io gli permetto di esserlo.

Il vortice

si avvicina sempre di più,

gira

sempre più forte,

e il suo buco nero,

al centro,

mi risucchia,

mi avvolge i sensi e la mente.

Annaspo nel turbinio

ed ho paura di toccarti

per non contaminare anche te

e trascinarti con me

nell’immenso occhio nero.

Vedi accanto a te un mostro con tante teste

il grande serpente

che oscilla fra te e il futuro?

Vedi

le sue lingue di fuoco

che bruciano tutto davanti ai tuoi passi?

E non senti i suoi piedi

calpestare la polvere,

bruciare nella cenere?

Ridicolo essere umano, ammasso di briciole tenute su dalla presunzione,

non puoi vincere

una potente soprannaturale forza.

Ti prego

guarda accanto a te: E’ bugiardo! Abile mistificatore!

Non si rivela mai per quel che è realmente:

è il tuo serpente!

 

 

 

 

 

 

QUEL CHE SONO NON MI PRENDE

Chiuderei gli occhi

e in un soffio me ne andrei

stanco di tutto,

il solo respirare

mi affatica,

qualcosa mi opprime,

credo sia il peso della vita.

Mi guardo allo specchio

e fisso l’obbrobrio riflesso.

Continuo a guardare quella oscena figura

fino a sferrargli un pugno,

osservo il sangue scorrere sulla mia mano,

e mi perdo nei piccoli frammenti dello specchio

ma è ancora lì:

Cosa vuole questa vita da me? Perche mi ha voluto?

Non l’ho chiesto, non ho desiderato esserci

ho pregato per andarmene!

Perchè quel che sono non mi prende?

Un’eternità di nulla, una vita di vuoti, solo rimpianti!

Nessuna lacrima, forti dolori, un grande amore!

Sono all’inferno, spiritualmente morto

immenso vuoto e depressione.

Come ombra che svanisce alzo bandiera bianca.

Poi e per sempre

solo morte!

 

 

 

 

 

 

 

INVOLUCRO DI CARNE

Piccola anima

accartocciata dentro un involucro di carne,

il tuo respiro attraversa il petto.

C’è luce, c’è ombra.

Ancora luce e di nuovo ombra.

La mano ascolta il tumulo, l’ossessione.

La punta della penna solca il foglio.

Scrivi per te, scrivi di te.

Mi parli di una realtà che regna dietro tante porte chiuse.

Di sangue del proprio sangue.

Di verità custodite nel silenzio.

Fa tutto parte del gioco,

tu stai gelando ora!

Si può morire di disperazione, la testa fra le mani

la penna caduta per terra,

le braccia stese sul pavimento

mentre le ombre avvolgono ciò che resta di te.

Un involucro di carne e niente di più!

Solo un miserabile e insignificante involucro di carne.

Una mano ti abbassa delicatamente le palpebre,

il segno della croce

e subito dopo il nulla.

Non sono un angelo.

Non sono un demone.

Io sono la verità.

La verità a volte uccide.

 

 

 

 

 

MASCHERA

Sembra tutto così perfetto

come scenario di un’opera teatrale

ma quale sarà il segreto,

l’orrendo retroscena di questa farsa,

di questa commedia che chiamiamo vita?

Qual’è il ruolo che mi è stato assegnato?

Cos’è questa maschera che prontamente

le mie emozioni cela?

Come una lumaca

mi rinchiudo con viltà nel mio guscio.

E’ piu adatto a lacrime e vani sorrisi

questo mio volto coperto e deturpato

miserabile sotto la sua ridicola perenne smorfia.

Teschio

a ghigno

eternamente condannato.

 

 

 

 

 

 

 

LA SOLITUDINE

Lacrime nere rigano un volto,

pallido

e senza segni di vita.

Ghiaccio nell’anima,

foglie morte al vento,

inverno che piange.

Uno sguardo,

quello di una creatura non sola pur essendo sola

vogliosa e assetata d’affetto

che crede d’affogar in un bicchier d’acqua.

Ormai abbattuta

china il capo

e si piega alla grandezza,

al potere immenso di quell’essere.

Quell’essere di cui è umile serva:

la solitudine!

 

 

 

 

 

 

 

LUCIDO E FREDDO E’ IL MARMO

Lucido e freddo è il marmo,

riflette tutto come uno specchio.

C’è disordine,

oggetti dimenticati,

ed un velo di polvere

copre tutto.

Regna il silenzio,

le torri sfidano il cielo,

fantasmi appaiono nell’ombra.

Lucido e freddo è il marmo,

candide come la neve le statue,

la piccola bambola fissa

con occhi verdi di smalto

abbandonata nel buio.

Rena la quiete,

i bastioni proteggono il castello,

i passaggi merlati paiono ponti sulla fantasia.

La bella addormentata non è mai stata qui,

non vi è mai stato un sogno incantato,

lucido e freddo è il marmo.

 

 

 

 

 

 

MIA SORELLA SOLITUDINE

Ubriaco di te

smaltisco la mia sbornia

su una panchina isolata

nella periferia della città

di Paranoia.

Non so dove andare,

non so chi cercare,

non so perchè respiro

ma protendo ancora la mano verso te,

nuovamente implorante ai tuoi piedi

mia amante,

mia amica,

mia compagna,

mia sorella Solitudine.

 

 

 

 

 

ANCESTRALI PAURE

Fievole luci

che all’imbrunire

non vincon l’ombre.

Indecise sagome

arrancanti nel buio

nero antro di ancestrali paure.

Figure incerte

di bieco pensiero avvolte

che di nera cronaca s’ammantano.

Passi veloci

come a sfuggir tempesta

nei vicoli t’inseguono.

Il gelo del comune sentire

tutto avvolge

come unico sudario.

E a nulla vale

il lume della ragione che è vanto

nè il saper che l’amor mio m’è accanto.

Solo il colore del sogno

potrà spezzare

del grigio orrore il cerchio.

Solo di poesia il volo

potrà sciogliere delle catene

l’angosciante nodo.

Subisco l’ultimo disperato assalto

di chi sa che la sua guerra

ha già perduto ormai.

 

 

 

 

 

 

 

LO SBADIGLIO DEL TERRORE

Nessuno ascolta

il rumore assordante del lupo

estasiato

dinanzi ai bagliori

della notte

stregata.

Un luccichio assorbe

il silenzioso spazio,

nel vuoto dell’ignoto

respiro accaldato dalla lucciola

che traballante attraversa il sentiero,

dal folto dell’ugola fuoriesce soave alito umano.

Ascolta la notte!

Ascolta la nebbia!

Ascolta i battiti del cuore!

Ascolta e non restare

senza un fruscio oblungo

nel dolce mio silenzio.

 

 

 

 

“GIACOMO LEOPARDI”

RIPROPOSTO IN UN LINGUAGGIO MODERNO:

 

 

“L’INFINITO”

 

Ti ho sempre amato, colle

solitario come me.

Ti ho sempre amata, siepe

che mi fai aprire l’anima

verso l’orizzonte,

me lo nascondi

ma me lo fai amare

immaginando spazi infiniti.

Ho sempre amato questo posto,

il suo sovrumano silenzio,

la sua profondissima quiete,

e il tenue soffio del vento tra gli alberi,

e la dolcezza di queste piante che dormono.

E mentre sono seduto e guardo lontano

mi tornano in mente le stagioni fuggite,

l’ora presente,

l’eternità,

ed è dolcissimo

perdersi nell’immensità della natura.

 

 

 

“IL PASSERO SOLITARIO”

 

Ti vedo in cima a quella antica torre,

solo,

proprio come me!

Tu canti finchè non muore il giorno

mentre la primavera brilla nell’aria,

esulta per i campi

festeggiata da mille uccellini

che fan mille giri nel cielo.

Ma tu passero solitario non ti curi di loro,

resti indifferente a quella festa,

non la cerchi, non provi a volare

consumi così nella solitudine

la parte più bella della tua vita.

Quanto è simile il mio modo di vivere al tuo!

non c’è spensieratezza in me,

gioie e divertimenti io li evito,

mi sento estraneo e quasi fuggo da loro

e il dramma è che non so spiegare a me stesso

nemmeno il perchè.

Chiuso nella mia stanza

passo le mie giornate vuote e monotone

in silenzio, in solitudine.

Eppure questo giorno che ormai volge alla sera

è festeggiato da tutti in questo paese,

si odono nell’aria suoni di festa vicini e lontani,

i giovani sono allegri

indossano i loro abiti migliori

si divertono

ed è persino bello guardarli.

Ma io,

in quest’angolo del paese vicino alla campagna,

io resto da solo come sempre,

ogni divertimento

lo rinvio in altri tempi

non so a quando!

guardo il sole che si dilegua dietro i monti

e sembra ricordarmi

che anche la mia giovinezza sta morendo.

Tu, passero solitario

alla fine dei tuoi giorni

non potrai pentirti d’aver vissuto così,

è la tua natura che ha deciso questo.

Ma io,

se non riuscirò a evitare la detestata vecchiaia

e tutto sarà noia più di adesso,

cosa penserò della mia giovinezza sprecata

e non goduta?

Forse piangerò,

guarderò indietro

ma sarà ormai troppo tardi.

 

 

 

“IL SABATO DEL VILLAGGIO”

 

La ragazzina spunta dalla campagna

al tramontar del sole

con la dolcezza, con la malizia

d’una età che non dà pensieri.

Ha un fascio d’erba in mano,

un mazzo di rose e di viole,

domani è festa, deve farsi bella.

La vecchietta con le sue amiche,

seduta sull’uscio di casa,

è intenta a filare

e con una lacrima agli occhi

ripensa a quando anch’ella era ragazza

e spensierata e felice

era circondata da tanta compagne.

L’aria si fa bruna,

le ombre scendono dai colli e dai tetti,

una luna bianchissima splende nel cielo.

Una tromba suona annunciando la festa,

i bambini giocano felici nella piazzetta,

il contadino torna a casa fischiettando.

Poi, quando le luci si spengono

e tutto tace,

si ode soltanto il rumore d’un martello

e di una sega,

è il falegname che ha fretta di terminare il suo lavoro

prima dell’alba.

Questo è il più bel giorno della settimana

pieno di gioia, di speranza

domani tutto ritornerà normale, triste, monotono

e ciascuno riprenderà il suo lavoro col pensiero.

Ragazzo mio,

la tua splendida ma fuggitiva età

è proprio come questo giorno

chiara, serena

che prepara la festa della tua vita.

Ragazzo mio divertiti!

non mi sento di dirti altro!

Ma ti prego non rammaricarti

se la tua festa tarda a venire.

 

 

 

“AMORE E MORTE”

 

Amore e morte,

fratelli,

furono creati insieme

e insieme vanno uniti per il mondo,

l’uno elargendo il piacere

l’altra annullando il dolore.

Quando l’amore nasce nel petto

lo accompagna sempre un languido desiderio di morte.

Non so perchè…

forse l’uomo,

presentendo i mali futuri che ne deriveranno,

brama di giungere al porto della sua vita

e di annullarsi.

Financo nel furore della passione,

quante volte gli amanti ti invocano o morte!

E che sentimento di invidia

al rintocco della campana funebre

per chi se n’è già andato!

Perfino il contadino e la timida fanciulla

non temono più,

comprendono l’ineffabile dolcezza della morte.

Talvolta l’amore

mina un fisico già prostrato,

talvolta invece

induce al suicidio giovani e fanciulle.

E tu morte

da me tanto invocata e celebrata

fin dai miei primi anni,

chiudi pietosamente gli occhi miei.

Ho sempre disprezzato le consolazioni della religione.

Non ho mai lodato e benedetto i patimenti.

Ho rifiutato i fanciulleschi conforti degli uomini.

Te sola ho sempre invocato!

Aspetto serenamente

di addormentarmi sul tuo seno.

 

 

MEMENTO

(Dalla lirica omonima di I.U. Tarchetti)

 

Quando bacio le tue labbra profumate,

cara e dolce fanciulla,

non posso dimenticare

che un bianco teschio vi è nascosto sotto.

Quando stringo a me il tuo corpo sensuale,

cara e dolce fanciulla,

non posso proprio dimenticare

che uno scheletro nascosto vi è celato all’interno.

Quando faccio l’amore con te, cara e dolce fanciulla,

mi è impossibile dimenticare che sotto la tua pelle

vi è un ammasso di sangue, vene e organi schifosi.

E assorto in questa orrenda visione,

dovunque ti tocchi, ti baci o posi le mie mani

sento sporgere le ossa fredde d’un morto.

 

 

 

IL CANTICO DI FRATE SOLE

(Dall’opera omonima di S. Francesco d’Assisi)

 

Benedetto tu sia, mio Signore!

con tutte le tue creature

specialmente per fratello sole

che fa diventare giorno

e illumina ogni cosa intorno

ovunque ci sia vita

con grande splendore,

ed è bello, radiante.

Benedetto tu sia, mio Signore!

per sorella luna

che bianchissima non dorme mai

per vegliare la notte,

e per le sorelle stelle

che hai creato in cielo

chiare, preziose e belle.

Benedetto tu sia, mio Signore!

per la sorella acqua

che è molto utile

è preziosa, è casta.

Benedetto tu sia, mio Signore!

per fratello fuoco

che rischiara la notte

e trasmette il suo calore,

ed è forte, è vivo.

E per fratello vento

che muove l’aria, le nuvole

rigenerando con la pioggia tutte le creature.

Benedetto tu sia, mio Signore!

per la nostra madre terra

che ci sostenta stringendoci al suo seno

e ci offre frutti, fiori colorati, erbe.

Benedetto tu sia, mio Signore!

per i miei fratelli che sanno perdonare

aiutali nelle loro tribolazioni terrene,

hanno bisogno della tua presenza

nella loro vita.

Beati quei fratelli che difenderanno la pace!

saranno da te premiati.

Benedetto tu sia, mio Signore!

per la nostra morte fisica

dalla quale nessuno di noi può scappare

e guai a coloro che morranno nel peccato,

beati invece quelli che su questa terra

avranno fatto la tua volontà.

Laudate e benedite tutti il mio Signore!

e ringraziatelo

e servitelo con grande umiltà.

 

 

 

 

OSSESSIONE PER UNA NINFETTA

(liberamente ispirata al libro LOLITA di V. Nabokov)

 

 

Spiccava col suo giovane corpo e l’aria da bambina

 

tra la gente ignara,

 

quel piccolo micidiale demonietto,

 

inconsapevole anche lei del proprio fantastico potere.

 

Mi guardò col suo visino indecifrabile di ragazzina tredicenne

 

come se mi avesse letto il desiderio negli occhi

 

fino ad intuirne la profondità,

 

e nel preciso momento in cui i nostri occhi s’incrociarono,

 

tra di noi si stabilì subito un’intesa

 

capace di annullare in quell’attimo qualunque barriera

 

ed io non avrei potuto abbassare gli occhi

 

neanche se fosse stata in gioco la mia vita.

 

La sfiorai ma senza osare toccarla,

 

respirai intensamente quella sua delicata fragranza

 

che sapeva di borotalco,

 

e da quel punto così vicino eppure disperatamente lontano,

 

ebbi per la prima volta la consapevolezza,

 

chiara come quella di dover morire,

 

di amarla più di qualsiasi cosa avessi mai visto

 

o potuto immaginare,

 

e di voler essere il primo ad assaporare quel piacere proibito

 

che soltanto la mia giovanissima dea dell’amore

 

avrebbe saputo offrirmi

 

in un paradiso illuminato dai bagliori dell’inferno.

 

Un uomo normale,

 

forse per vergogna o sensi di colpa,

 

scaccerebbe via dalla propria mente simili pensieri.

 

Bisogna essere artisti,

 

eterni bambini sempre in volo senza logica né equilibrio,

 

folli di malinconia e di disperazione,

 

di solitudine e di tenerezza

 

per lasciarsi totalmente trasportare e tormentare

 

dalla magica ossessione per quella ninfetta.

 

 

ASSENZA

(liberamente ispirata al libro LOLITA di V. Nabokov)

 

Bastava un tuo sorriso

 

per mostrarti bella dentro e fuori

 

come un inno alla grazia,

 

malgrado le tue smorfie ed i tuoi capricci,

 

desiderabile, né donna e né bambina, favolosa e splendida

 

con la tua travolgente sensualità acerba

 

mista di malizia e d’innocenza.

 

Eri un cucciolo indifeso tra le mie braccia,

 

non riuscivi a tirare fuori la donna che stava nascendo in te.

 

Di quella mia incantevole lolita

 

che mi aveva stregato persino l’anima

 

fino a possedermi del tutto,

 

e del suo sconvolgente modo di essere,

 

non mi rimane ora che l’eco di un coro di fanciullesche voci

 

udite in lontananza e perdute per sempre

 

come foglie morte sparse lungo il sentiero

 

in una stordita calma irreale.

 

È la mia fine come uomo,

 

l’apice della mia ispirazione come artista.

 

La mia vita è ormai alla deriva nelle tue mani di bambina,

 

legata a te da un cordone ombelicale

 

obbedisce al tuo volere senza più orgoglio, senza dignità.

 

Mi tormenta l’immagine dei tuoi coetanei

 

che posano i loro sguardi carichi di desiderio

 

sul tuo giovane corpo.

 

È folle il pensiero che la tua verginale bellezza

 

appartenga esclusivamente ad un uomo della mia età

 

ma più ti sento irraggiungibile

 

e più cresce in me il desiderio di averti.

 

Come un vecchio mendicante ormai solo ed esausto,

 

chiedo ancora ad una ragazzina che non ha colpa,

 

l’elemosina d’un amore che mai potrà darmi.

 

Un amore impossibile, assurdo, folle

 

incomprensibile, a senso unico, non corrisposto

 

ma pur sempre un amore!

 

Forse sono posseduto dal diavolo

 

o forse ho solo qualche rotella fuori posto

 

è tutto così assurdo e illogico

 

ma io credo di amarla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

R I S U S C I T A M I

Maestro, ho tanto bisogno di un miracolo

trasforma la mia vita e tutto in me

da tempo non vedo più la luce

hanno spento già la mia gioia di vivere

umiliato la mia speranza,

vedo i miei sogni cancellati tristemente

lacrime di solitudine bagnare i miei occhi.

Maestro, non ho altro che io possa fare

solo tu hai tutto il potere,

sono seppellito come Lazzaro in questo sepolcro di disperazione

c’è un macigno che Satana ha messo davanti.

Maestro, chiama il mio nome ti prego

ascolterò con fede inginocchiato la tua voce

rimuovi la pietra delle mie paure e chiamami ad uscire

fai rivivere i miei sogni: liberami!

Sospinto dalla fede che c’è in te

sicuro d’una vittoria che tu solo dai

risuscitami.

 

 

 

ALBA

 

Alba!

 

tu stai sorgendo,

 

silenziosa brezza nell’aria,

 

leggiadre ali intorno.

 

Alba!

 

tu stai spargendo

 

il tuo colore

 

sul mare

 

addormentato.

 

La tua pace

 

mi sta

 

cambiando.

 

La mia anima,

 

svegliandosi,

 

si sta aprendo all’amore

 

verso l’infinito.

 

Io sento

 

che sto per nascere

 

sì,

 

lo sento,

 

io sto nascendo.

 

 

 

IN SILENZIO

 

Io e te,

 

mano nella mano,

 

camminiamo verso il sole

 

guardandoci in silenzio.

 

Le nostre orme sono raggi di luce,

 

nel loro chiarore, riflesso,

 

osservo il tuo viso dolcissimo

 

che m’incanta, in silenzio.

 

Siamo solo noi due,

 

creati l’uno per l’altra,

 

rapiti da questo sole immenso.

 

Un amore senza fine grande più di noi

 

ci trascina via lontano

 

e tu esisti ormai dentro di me

 

ti sento in ogni parte del corpo,

 

tu sei l’aria che sto respirando,

 

sei la mia stella che brilla nel cielo.

 

Vicinissimi, avvolti dal calore,

 

noi ci amiamo sfiorandoci in silenzio.

 

Siamo in viaggio da qui all’eternità,

 

eroi di un sogno in questo breve vivere,

 

non svegliamoci mai,

 

ed ora, in quest’istante magico,

 

tu ed io siamo un solo essere,

 

non so più dove finisci tu e comincio io,

 

dove si dilegua il sogno e appare la realtà,

 

ora tutto acquista un senso

 

e finalmente scopriamo insieme

 

che c’è qualcosa di noi,

 

un motivo per vivere.

 

Non siamo più soli,

 

finché mi starai vicina, saprai tutto di me,

 

avrai il meglio di me stesso

 

e tu con me sarai sincera.

 

Stringimi la mano più forte,

 

sei l’unico scudo tra me e il mondo,

 

ho bisogno di te per non morire.

 

 

 

PRIMO AMORE

 

Un’ondata improvvisa di luminosi ricordi

 

sommerge per un attimo i duri scogli della mia realtà

 

e la schiuma che ritorna al mare,

 

lascia un immenso prato verde

 

ricamato morbidamente dalle esili mani della primavera

 

e in quel giardino, d’incanto,

 

sbocciarono fiori di mille colori e ali dorate di farfalle,

 

lì v’era un bimbo che inseguiva felice il volo d’un aquilone

 

ed una bambina

 

che sfogliava dolcemente i petali d’una margherita.

 

Era bello correre insieme a lei, mano nella mano,

 

tra le spighe di grano più alte di noi

 

e l’azzurro del cielo che sembrava così vicino, non finire mai,

 

saltellare a gara con i cerbiatti,

 

e seduti in riva al ruscello,

 

gettare ramoscelli sull’acqua per vederli galleggiare dolcemente

 

e all’imbrunire, sudati e sporchi di terra,

 

scappare sul colle più alto

 

ed osservare il volo libero di stormi di gabbiani su oceani limpidi,

 

aspettare in silenzio l’arrivo dell’arcobaleno con i suoi mille colori

 

e lì: “Io ti voglio bene anche se non so baciare” le dissi

 

col cuore che batteva forte come un uragano,

 

lei sorrise, mi baciò la guancia

 

e sbocciava così il mio primo amore

 

mentre una cicogna volteggiava in festa per me.

 

Ed ora, proprio in quest’istante mentre ti bacio amore mio,

 

io rivivo l’emozione d’allora,

 

la stessa gioia ti giuro, lo stesso candore

 

e quanti ricordi ancora vorrei rivivere con te,

 

non più da bambino, ma da uomo ormai,

 

quante piccole emozioni nascoste in fondo al mio cuore

 

vorrei regalarti!

 

quanti segreti avrei da svelarti!

 

Ma tu … tu non capiresti mai

 

perché non so capirmi neanch’io

 

e non so come mai stai con un ragazzo come me

 

che ha ancora quei prati vergini nell’anima,

 

che resta sempre solo anche se tu sei qui vicino a me

 

pronta ad amarmi: che buffo!

 

Ti prego non dirmi che sono un bambino

 

anche se non so far l’amore,

 

anche se il mio mondo è ingenuo.

 

Tu mi sorridi e sfiorandomi la mano, mi dici:

 

“Non esiste al mondo ragazzo migliore di te”.

 

Amore mio,

 

io ti amo per non sentirmi solo,

 

per sorridere e volar via,

 

per vincere la paura che c’è in me,

 

per fermare la mia giovinezza che va via.

 

Amore mio,

 

è così naturale essere felici,

 

come mai la gente non lo sa,

 

non mi crede!

 

 

 

 

DOLCISSIMA STELLINA

 

Dolcissima Stellina,

 

timida come un pallido sole dietro le nuvole,

 

tenera come un piccolo usignolo addormentato sul nido,

 

dal sorriso luminoso e fresco come stilla di rugiada

 

tu sei per me il sogno d’una notte incantata,

 

l’effimera illusione d’un amore irrealizzabile.

 

Sei in questo mio vivere terribilmente oscuro

 

come una luce fioca

 

che da lontano cresce… cresce… fino ad abbagliarmi l’anima

 

col tuo modo di muoverti sublime come ali di cigno

 

e la tua voce melodiosa come cori di augelli.

 

Lacrime lucenti di gioia

 

brillano adesso nei miei occhi.

 

In un attimo tu hai riempito di bello il mio cuore,

 

dipinto di sogno la realtà

 

ed io non vorrei mai più svegliarmi da questo momento magico.

 

Sembra quasi d’averti già conosciuta tanto tempo fa

 

in qualche sogno lontano chissà dove

 

e se guardo attentamente nel fondo dei tuoi occhi,

 

scopro in essi l’infinito vibrare

 

e tu ed io uniti che voliamo via sempre più su senza limiti,

 

dileguandoci come due gabbiani liberi verso l’orizzonte.

 

Restano ammutolite nel mio silenzio magico

 

mille parole, mille sensazioni

 

che sento ma non riesco ad esprimerti,

 

non so come spiegartelo

 

ma avverto dentro, qualcosa d’indefinibile, mai provata prima,

 

meravigliosamente reale al tempo stesso:

 

un bene prezioso e profondo sommerso in me stesso

 

come il rosso corallo negli abissi del mare.

 

Da una vita sono in cerca di te

 

ma tu sei più di quanto aspettassi.

 

Dolcissima Stellina

 

Abbi cura di te, ti auguro di non cambiare,

 

resta quel germoglio che sei adesso.

 

Non gettare al vento il fiore della tua giovinezza,

 

non smarrire col tempo la purezza dei tuoi sguardi,

 

l’armonia d’ogni tuo gesto

 

perché solo tu riesci a sorridermi con gli occhi,

 

hai in te qualcosa in più che appartiene solo agli angeli:

 

che ne sarà mai del tuo viso innocente e pulito

 

quando, domani, cadranno le lacrime degli anni?

 

e quel giorno, ora tanto lontano, ti ricorderai di me?

 

Addio mia dolcissima Stellina!

 

avrei voluto darti molto di più

 

tornando adolescente insieme con te nel tuo mondo

 

ma sono dai tuoi anni

 

ormai disperatamente lontano.

 

Ti lascio in questa poesia

 

il mio ricordo di ragazzo solo come te

 

ed ogni volta che la leggerai, d’incanto,

 

non esisteranno più barriere né distanze tra noi due,

 

io, di colpo, rinascerò in te

 

e tu, specchiata nella mia anima,

 

sarai qui vicino a me.

 

 

 

 

BELLA MESSINA

 

Come chiave d’oro che apre al paradiso,

 

Messina spalanca la porta alla Sicilia perla incantevole.

 

Bella Messina,

 

che si lascia corteggiare da due mari,

 

contemplata dall’alto dalle sue montagne,

 

sempre spettinata dal vento,

 

bagnata dal mare ed asciugata dal sole,

 

Messina presa per mano dalla Madonna.

 

Bella Messina

 

quando dondola dolcemente le navi del suo porto,

 

quando incoraggia e protegge il sudato lavoro dei suoi pescatori,

 

quando saluta piangendo ma aspetta con ansia

 

il ritorno d’un suo figliuolo che s’allontana senza lavoro,

 

quando, nelle sue ville, accompagna il lento andare d’un vecchio,

 

guarda commossa gl’innamorati delle sue panchine,

 

gioca trasformata in bambina con i suoi piccoli.

 

Bella Messina

 

quando si tinge di giallorosso dietro la sua squadra,

 

quando si pavoneggia per accogliere i forestieri,

 

quando, tutta parata, si trucca con i colori della vara

 

ed il mito dei Giganti,

 

divertente e scapestrata come il suo dialetto.

 

Messina lunga donna dagli esili fianchi

 

con gli occhi blu come il suo mare

 

ed i capelli d’oro come il sole delle sue spiagge,

 

baciata sulla superficie del mare da mille gabbiani,

 

che col suo stretto maliziosamente s’avvicina

 

senza lasciarsi toccare,

 

Messina che all’alba apre gli occhi sul mare

 

e di notte s’addormenta sotto un lenzuolo di mille luci.

 

Messina solare dalle ali libere verso l’orizzonte

 

con gli occhi luminosi mai annebbiati,

 

sposa d’un clima ch’è armonia in ogni stagione,

 

Messina che con frutti e fiori profuma di primavera.

 

Bella Messina

 

defunta ma risorta dopo il 1908,

 

Messina che vuole andare avanti,

 

che non vuol morire più,

 

vestita ormai di abiti sempre più moderni.

 

Bella la mia Messina

 

è la mia terra, la mia città,

 

qui sto bene, sono felice.

 

Ogni sua strada, ogni sua via

 

è casa mia, il mio giardino.

 

In lei sono nato

 

ed in lei voglio morire.

 

 

 

 

TU BAMBINA

 

Tu bambina, tu semplicità,

 

tu gioia e serenità, tu l’infinita innocenza.

 

Tu che vivi felice i giorni della tua giovinezza,

 

tu che ti affacci con paura alla tua adolescenza.

 

Dai tuoi occhi traspare ancora

 

la magia di un mondo che sa di fantasia

 

e chissà se il tuo piccolo cuoricino

 

riuscirà ad esprimere ciò che sente dentro.

 

È sbocciato adesso un amore

 

e forse stai provando qualcosa che non hai mai provato prima,

 

sarà per te il primo dolore

 

ma sarà dolce lo stesso come il succo d’una caramella,

 

e le prime lacrime

 

avranno ancora lo splendore della tua innocenza.

 

I tuoi pensieri sono di amori fugaci,

 

i tuoi giochi tenere primavere

 

e tu ora dondoli spensierata nell’altalena dei tuoi desideri

 

come quando stringevi la tua bambola

 

che hai perso ormai.

 

Dipingerai di sogno i tuoi giorni,

 

colorerai d’arcobaleno persino i tuoi disegni

 

e li annoterai dolcemente nel tuo caro diario.

 

Vorrei regalarti una vetrina e riempirla dei tuoi sentimenti

 

così chiunque, sostando lì,

 

scoprirebbe la ricchezza che hai dentro.

 

Crescerai in fretta e non mi vedrai più con gli occhi di bambina

 

so che ti perderò per sempre.

 

Mille ed infinite parole non bastano a descriverti,

 

mille ed infinite poesie

 

non potranno farti capire quanto sei importante

 

ma quello che provi dentro non crescerà mai,

 

servirà a farmi rivivere ricordi di adolescenze perdute.

 

Con te bambina

 

correremo insieme e voleremo via lontano

 

verso nuovi orizzonti,

 

lì, resteremo per sempre

 

anche se dovrò dirti mille ed infinite volte: “Tu bambina”.

 

 

 

 

LA FINE DELLA CICOGNA

 

Un serpente velenoso

 

s’insinua vischioso nel mio giardino d’infanzia,

 

due mani sporche di fango,

 

maliziosamente,

 

rubano al mio impubere corpo l’innocenza.

 

Sui miei occhi appena aperti

 

calano inesorabili ombre senza più luce.

 

I sorrisi ingenui delle fate

 

divengono tentacoli della paura.

 

Muore sbocciando quel fiore reciso

 

che non crescerà più.

 

Mi hanno ucciso la cicogna

 

e con lei anche Gesù Bambino.

 

 

 

NOSTALGIA

 

Le inquietudini del mio primo bacio

 

e poi le affascinanti scoperte intime,

 

i primi turbamenti,

 

quei peccati d’una età che non torna più,

 

scomparsa per sempre.

 

E tu sorellina timida timida

 

ed io fratellino impacciato e buffo,

 

tra sguardi e silenzi ci spiavamo dentro l’anima,

 

imparavamo ad amare.

 

Cerco invano di ricreare quegl’innocenti momenti intensi,

 

provo con la fantasia a tornare bambino

 

insieme con te nella poesia di quel nostro magico mondo,

 

mi ritrovo il fantasma d’un uomo

 

già inesorabilmente invecchiato.

 

Quelle due giovani creature

 

ora son come cristalli di ghiaccio d’un viso d’inverno.

 

Quell’antica primavera

 

è ormai neve e gelo.

 

 

 

RICORDO D’UNA RAGAZZA SCOMPARSA

 

Le serate passate sulla nostra scogliera,

 

il bacio lì, in riva al mare

 

col tramonto che ascoltava le nostre anime

 

mentre il mare suonava la nostra canzone.

 

Tanti ricordi, tanti momenti felici,

 

tanto amore.

 

È questo che vorrei gridare in silenzio

 

ma a che serve ora che non ci sei più?

 

La tua vita è stata troppo breve

 

come il nostro amore.

 

Forse il tuo compito

 

era farmi provare un sentimento nuovo per me: l’amore

 

per poi scomparire come un angelo.

 

Sei salita al cielo

 

ed ogni notte, piangendo,

 

cerco di vederti tra le stelle.

 

Addio per sempre!

 

 

 

SPERANZA

 

Nel buio della mia solitaria esistenza,

 

proprio sul punto di smarrirmi,

 

vorrei improvvisamente incrociare la luce dell’amore,

 

tra mille volti riconoscere il tuo soltanto,

 

e come un bambino,

 

di colpo,

 

scoppiare a piangere di gioia.

 

 

 

 

VIAGGIO NELL’ANIMO MIO

 

Muta di parole e sguardi,

 

la mia mente vaga lontano in penombra

 

dove il pensiero non ha confini

 

e tutto può sembrare reale.

 

Così, col bisogno del ricordo e del pianto,

 

penso al mio passato e alla sua perduta giovinezza,

 

al mio presente fatto di tempo fuggente,

 

al mio futuro sconosciuto ed incerto nelle sue mille paure.

 

Quanta dolcezza nel guardarsi dentro e perdersi in sé stessi!

 

Quali emozioni

 

nel vagare libero tra solitudini e silenzi profondissimi!

 

Mi scuoto

 

e lentamente mi desto da un viaggio

 

nel profondo della mia anima,

 

del mio essere così fragile, così indifeso

 

rispetto alla grandiosità della mia vita.

 

 

 

 

 

VOLO

 

 

Ho aperto i miei occhi, liberato la mia mente

 

sfidando tutti i miei limiti,

 

ho lasciato alle spalle gabbie, catene,

 

labirinti, muri insormontabili,

 

e quell’uomo morto ch’ero ieri

 

e che oggi non riconosco più,

 

fino a ridere della mia disperazione del passato,

 

persino la morte sembra inchinarsi

 

alla mia nuova voglia di vivere.

 

Dentro di me

 

l’oscurità s’è trasformata in un riverbero di luce,

 

nell’anima esplode

 

l’incredibile forza dell’amore verso la vita.

 

Vedo nuovi orizzonti

 

distendersi davanti ai miei occhi.

 

Intorno a me

 

spazi infiniti m’invitano a raggiungerli.

 

Tutto è ancora da scoprire

 

e mi sta aspettando,

 

e con l’entusiasmo di un bambino,

 

m’accorgo per la prima volta,

 

quanto sia meraviglioso vivere.

 

Non ho più paura ormai.

 

Solo,

 

con il vento in faccia,

 

apro le mie ali

 

e mai più mi fermerò.

 

Finalmente adesso volo.

 

 

 

RICORDI

 

 

Si dirada come per incanto

 

la nebbia che mi avvolge

 

e s’apre d’improvviso il cielo

 

col suo manto azzurro,

 

torno a ritroso nel tempo in seno ai miei ricordi

 

come alghe marine che succhiano caute mammelle di roccia.

 

Mi vedo a otto anni

 

quando avevo un’amica soltanto

 

che volevo bene come sorella.

 

Ricordo ancora come fosse ieri

 

i suoi capelli neri a boccoli

 

che le coprivano quell’esili spalle

 

come schiuma del mare accarezza gli scogli.

 

Era una bambina orfana

 

e la sera, quando andava a dormire,

 

si addormentava con due pupazzi vicino:

 

un orsacchiotto grande suo padre, una Barbie la madre,

 

aveva un segreto, teneva quei pupazzi sotto il cuscino.

 

Mi chiedeva spesso:

 

“Come mai le tue poesie son tristi e tu non ridi mai?”

 

non sapevo mai risponderle.

 

Da grande sognavo già di sposarla,

 

le dedicavo poesie e come per magia il suo caro viso spariva

 

ed io mi vedevo in un teatro affollato

 

con tanta gente in piedi ad applaudirmi.

 

A quindici anni

 

evitavo i compagni, i giochi e le feste

 

e restavo da solo per ore

 

ad osservare la distesa infinita del mare,

 

una voce dentro mi ripeteva sempre:

 

“I sogni non muoiono mai”.

 

Cercavo la libertà,

 

mi chiedevo se nell’universo esistesse qualcuno simile a me,

 

immaginavo di volare via per scoprire il mondo

 

senza ritorno, senza fermarmi

 

come un’onda senza mai una spiaggia

 

ed i miei occhi ragazzini curiosi e attenti,

 

si perdevano in lontananza,

 

laggiù dove si disperdeva il mare oltre l’orizzonte.

 

Son diventato uomo troppo in fretta

 

e non riesco più a sognare.

 

Cerco ancora l’arcobaleno d’allora,

 

trovo le inquietudini di adesso.

 

La speranzosa attesa d’un tempo,

 

le antiche illusioni,

 

come oggetto prezioso caduto per terra

 

e frantumato in mille pezzi,

 

sono morte e crollate inesorabilmente

 

nell’amara consapevolezza del nulla che mi circonda.

 

Ma perché bisogna dire addio

 

sempre alle cose più belle?

 

alle delizie che promette ma non concede la vita?

 

Rassegnati animo mio,

 

le tue domande non conosceranno mai risposte!

 

 

 

 

IL TRENO DELLA VITA

 

 

E il treno corre,

 

corre lontano sui binari della vita,

 

lungo la strada del mio dolore.

 

Va via velocemente

 

proprio come i miei anni,

 

il mio tempo che scorre.

 

Dai vetri del finestrino il quadro cambia sempre

 

vedo montagne invalicabili di paure,

 

pianure non più verdi di speranze invecchiate,

 

laghi salati di pianto amaro.

 

Vedo fiumi, violente cascate trascinare via tutto quanto,

 

mari in tempesta come i miei pensieri irrequieti.

 

Vedo gallerie coprire il sole come i miei momenti bui,

 

prigioni di tanti limiti ed arrese,

 

miraggi di felicità nei deserti della mia esistenza,

 

il cielo dove non ho mai volato,

 

lontane isole esplorate solo nei sogni,

 

nebbia lontana e foschie senza amore, senza fortuna

 

e poi

 

file di alberi e nuvole passare come un susseguirsi di emozioni,

 

paesi e città fuggire malinconicamente come i ricordi più belli,

 

prati verdi dove correvo sull’erba da bambino,

 

rivedo mia madre aspettarmi a braccia aperte,

 

odo nel vento la sua voce che mi chiama.

 

Il treno corre

 

la sua corsa senza fine

 

senza ritorno, senza fermate

 

ed io via con lui

 

m’allontano sempre più senza sapere dove andrò,

 

certo di perdermi solo

 

come un vagabondo senza famiglia.

 

Addio casa mia d’infanzia!

 

Addio amici della mia adolescenza!

 

Addio giovinezza perduta per sempre!

 

Quanta struggente nostalgia mi avete lasciato!

 

Com’è triste non poter tornare indietro!

 

Ma perché la vita è una corsa continua?

 

Perché la fine di un viaggio non c’è mai?

 

Mi fermerò soltanto

 

quando giungerà l’autunno con la sua folata gelida,

 

come foglia ormai ingiallita,

 

sarò strappata dal mio albero,

 

trascinata nel vento.

 

 

 

 

 

LA FRASE PIÙ BELLA

 

 

“Se per gli altri ormai sei grande

 

per me resterai sempre il mio bambino”.

 

È la frase più bella che mi hai detto

 

e che da sempre avrei voluto sentire.

 

È un pensiero profondissimo,

 

a tal punto che neanche tu puoi capire quanto.

 

Forse è Dio che ti ha ispirato

 

per rendermi felice.

 

Tu mi hai gettato in mare un’àncora di salvezza

 

dove io mi aggrappo con tutte le mie forze per non annegare

 

e trovo le mie poesie, il tuo amore per me.

 

Nessuno malgrado i propri sforzi

 

è mai riuscito a cogliere la mia ricchezza interiore,

 

la mia sensibilità profondissima, la mia particolarità,

 

il mio disperato bisogno d’amore.

 

È solo riuscito a intravedere

 

come sono dentro

 

ma in lontananza

 

senza mai percepirmi a fondo.

 

In questo mondo dell’immagine

 

l’apparire conta più dell’essere

 

anche perché spesso l’essere non c’è.

 

Amante della solitudine e della tenerezza,

 

senza nessuno che mi somigli,

 

cerco da sempre

 

un’anima che mi comprenda.

 

 

 

 

ATTRAVERSANDO IL SOLE

 

 

Da questo carcere,

 

chiuso dietro le sbarre,

 

vedo il sole uscire dai monti.

 

La sua luce m’abbaglia.

 

Continuo ad osservarlo

 

con l’anima aperta alla speranza

 

ed i miei occhi rimbalzano sul suo splendore

 

e vanno su te

 

che sei così tanto lontana

 

al di là della mia immaginazione.

 

Ti vedo riflessa nel sole in controluce.

 

E tu puoi guardare me.

 

Tu ed io alle due estremità d’una scia luminosa

 

che ci avvicina passo dopo passo

 

unendoci sempre più.

 

Ci veniamo incontro

 

percorrendo raggi di luce.

 

Ora tutti sono morti,

 

sono più vecchi

 

ma noi due siamo ancora insieme nell’aria

 

come bambini

 

attraversando il sole.

 

Ho cercato a lungo qualcosa che non c’è

 

bastava semplicemente che guardassi il sole.

 

Dalla sofferenza scaturisce il carburante per la rinascita!

 

Non occorre essere in carcere per sentirsi prigionieri

 

dentro di me mi sento adesso libero,

 

il male ha finito di avermi in pugno: è inefficace.

 

È l’ultimo atto del suo progetto diabolico.

 

Il demone ora trema ed è lui ad aver paura di me.

 

 

 

 

PREGHIERA D’UN’ANIMA IN PENA ALLA LUNA

 

 

Luna,

 

tu muta e bianca

 

sul destino degli umani

 

posi silente lo sguardo.

 

Solinga e distante,

 

sorella del buio e delle ombre,

 

non ti diletti e non piangi

 

ma taci,

 

osservi e sempre taci.

 

Eppure chi può dirmi se non tu sola

 

se è per natura perdente l’umana sorte

 

o se riposerà alfin ciascun mortale

 

e avran sollievo le sue notturne paure?

 

Vorrei chiederti o mia cara luna

 

a che serve vivere

 

e dove porta questo terreno viaggiare,

 

per cosa si arresteranno i battiti del mio cuore?

 

Ma tu mi appari misteriosa e vana

 

come lo è tutta l’esistenza umana

 

senza risposte, né certezze,

 

incurante della mia anima che anela, brama di sapere.

 

Io fragile essere, piccolo e limitato

 

tu immortale creatura d’uno sconfinato universo,

 

eppure quanta grandezza nell’umano spirito

 

nel desiderare l’infinito pur comprendendo la propria piccolezza!

 

Silenziosa luna presto dovrai andar via,

 

l’alba si sta svegliando,

 

la terrena notte illuminerai nuovamente alla fine del giorno

 

ma gli occhi del mortale uomo rivedranno ancora luce?

 

e le piante e gli animali tutti qual destino avranno?

 

Luna

 

musa ispiratrice di poeti e cantanti,

 

meta irraggiungibile di sogni lontani,

 

compagna notturna di viandanti e zingari,

 

lascia che io alzi lo sguardo fino a te,

 

ultima sconsolata preghiera d’un’anima in pena.

 

Tu luna vegli sopra uno strano mondo

 

fatto di pazzi.

 

Qui non c’è amore né comprensione

 

ed io non voglio più starci.

 

Un immenso buio

 

ha schiuso le ali sul mondo

 

e sul cuore degli uomini,

 

e questa notte sembra non aver mai fine.

 

Addio anche a te luna!

 

la mia solitudine è ormai segnata

 

in un presagio di morte

 

che prelude al pianto.

 

 

 

 

SOGNO

 

 

Io cerco

 

quel che non esiste

 

e che nel nulla svanisce

 

in un effimero sogno.

 

 

 

 

IL MISTERO

 

 

Rapito dal tuo vortice

 

sto scrutando il tuo cielo infinito,

 

volteggiando nel tuo vento impetuoso,

 

naufragando nel tuo mare in tempesta,

 

sprofondando nei tortuosi meandri della mia mente,

 

ma sto solo impazzendo

 

perdendomi in un labirinto enorme.

 

Scopro l’ignoranza della scienza.

 

Smarrisco la mia fede.

 

Rimango spaventosamente affascinato.

 

Sulla riva un bimbo col suo secchiello

 

vuol prendere un pò alla volta tutto il mare.

 

 

 

 

 

 

 

NULLA ETERNO

 

 

Non vi fate sedurre,

 

non esiste ritorno,

 

non c’è nulla dopo,

 

morrete come tutte le bestie

 

divorati da vermi.

 

 

 

 

COME IN UN INCUBO

 

 

Penso agli anni della mia giovinezza

 

che mi sono lasciato alle spalle

 

e, per nostalgia,

 

mi viene una gran voglia di piangere

 

e un terribile timore d’invecchiare e di morire.

 

Mi sento dentro

 

terribilmente solo e smarrito

 

con una forte e struggente

 

paura nell’anima,

 

come in un incubo

 

dal quale non posso svegliarmi o fuggire.

 

Qualcosa che non riesco a scacciare

 

mi opprime e tormenta

 

ma non so cosa sia

 

contro cosa combattere,

 

lentamente mi succhia l’energia.

 

Il tempo che mi rimane davanti,

 

oscuro e minaccioso,

 

è una clessidra di morte

 

che m’avvicina sempre più alla fine

 

inesorabilmente.

 

 

 

 

QUESTA VITA BREVE

 

 

Non camminare piano

 

quando puoi correre,

 

e non ti accontentare

 

se ti accorgi che puoi volare,

 

e non restare muto

 

quando puoi gridare.

 

Ascolta la voce della natura

 

e piangi quando hai voglia di farlo.

 

Vivi intensamente l’amore,

 

rincorri la tua felicità.

 

Apprezza il valore della salute,

 

ama chi ti sta vicino come se lo vedessi per l’ultima volta.

 

Non rimandare a domani quello che puoi fare ora,

 

non indugiare e non procurarti rimpianti,

 

questa vita è talmente breve ed imprevedibile,

 

la vecchiaia e la morte son sempre in agguato

 

come belve affamate, sbranandoti quando sei isolato.

 

 

 

 

SOLITUDINE E LIBERTÀ

 

 

Solitudine è libertà,

 

libertà è solitudine.

 

Voglio essere completamente solo

 

per sentirmi veramente libero.

 

 

 

 

PRIMAVERA

 

 

 

Petali di fiori,

 

ali di farfalle,

 

canti di uccelli,

 

profumi nell’aere.

 

Il sole che sorride,

 

il cielo che sta a guardare.

 

 

 

 

L’ARMONIA DEL CREATO

 

Da ogni notte buia

 

rinasce sempre il sole

 

così come dal bruco

 

fuoriesce ogni volta una crisalide.

 

E fra una stella lassù ed una lucciola quaggiù

 

nessuna distanza, la stessa luce.

 

Tra Dio e l’ultimo insetto creato

 

nessuna differenza, la stessa perfezione e l’identico amore.

 

Ogni cuore che palpita,

 

anche il più piccolo che esista nell’universo,

 

è un battito di vita e d’amore.

 

 

 

 

LUNGO LE STRADE DEL MONDO

 

 

Girando a lungo per le strade del mondo

 

ho incontrato tanta gente:

 

bianchi e neri, ricchi e poveri,

 

santi e carcerati.

 

Ho conosciuto servi e re,

 

cristiani e musulmani, suore e prostitute.

 

All’apparenza

 

mi sembravano diversi gli uni dagli altri

 

ma poi li ho visti piangere

 

tutti allo stesso modo.

 

Ho capito dentro di me

 

che esiste una sola razza: l’umanità,

 

un solo gesto: la solidarietà.

 

 

 

DOLCE SILENZIO

 

 

Dolce silenzio

 

cosa mi nascondi?

 

chi può dirmi se m’inganni?

 

se dolori e tempeste son prossimi?

 

e mentre io,

 

estasiato,

 

dalla dolce tua magia mi lascio rapire,

 

chissà quant’altra gente

 

soffre, si dispera, s’abbandona.

 

Dimmi o dolce silenzio

 

dov’è celata la chiave dell’umana esistenza?

 

Che sarà di me?

 

e fin quando goderti posso?

 

perché eterno peregrinar è questo nostro viver

 

e quel poco di pace che mi vuoi offrir

 

è gran gioia per me e di essa mi nutro

 

errando solitario per i campi

 

tra immote piante e assopite creature.

 

Dolce silenzio,

 

immenso tu sei

 

ed il mio esser fragile

 

dinanzi a te si perde sotto l’azzurro del cielo

 

come piccola cosa tra le innumerevoli cose,

 

come formica d’un enorme formicaio

 

persa tra tutte le altre.

 

O dolce e profondo silenzio

 

che all’eterno sonno somigli,

 

prendimi con te e invasami,

 

i miei tormenti assopisci,

 

e nel tuo languor pacato,

 

supino m’addormento in un dolcissimo morir,

 

forse senza mai più mirar

 

la viva luce del sole.

 

 

 

LA LEGGENDA DI CAMILLA

 

Chi di realtà si nutre

 

defunta ombra del nulla eterno è,

 

chi ai sogni crede,

 

la collera del tempo affamato

 

vincerà nei secoli.

 

Fra i castelli fatati dei mie sogni

 

Illa io ti sto inseguendo,

 

è la tua leggenda.

 

Gelosi folletti la raccontano in sogno.

 

 

Una notte di duemila anni or sono,

 

Camilla, una leggiadra ed esile ancella,

 

scrisse nel suo cuore:

 

“L’amor non vien da me, la fede stanca illusione,

 

la mia tenera età fior che appassisce,

 

ai sogni affido il mio avaro destino”.

 

Disperata ma senza lacrime,

 

corse verso quel dirupo che dominava quella valle

 

incantata da filtri magici, popolata da gnomi,

 

e da lassù altissima si gettò

 

gridando al vento prima di schiantarsi al suolo:

 

“Io vivo e vivrò per sempre”.

 

Sopra quella valle,

 

il tempo arrestò la sua corsa affannata

 

e, come per incanto, tutto restò immutato.

 

Ed ancor oggi, duemila anni dopo, il viandante solitario

 

che ignaro non conosce la storia di lei

 

ed attraversa quell’angusta e remota valle,

 

senza veder né capir nulla,

 

ode nel leggero mormorio del vento,

 

l’eco della voce del fantasma di lei

 

che ripete ancora:

 

“Io vivo e vivrò per sempre”.

 

 

Sì, nella mia fantasia,

 

tu Illa sei viva

 

e vivrai per sempre

 

con me.

 

 

 

IL VOLTO INQUIETANTE DEL MIO MALE

 

 

Vorrei svegliarmi da quest’incubo,

 

gettami acqua fresca in viso,

 

il ghiaccio mi assale,

 

scaldo le mani con un po’ di fiato.

 

Cerco in me una via d’uscita

 

ma non esiste fuga,

 

non c’è posto per nascondersi,

 

proteggermi non puoi.

 

Diverso da ogni altro,

 

nella terra di nessuno,

 

tutto intorno tace

 

in un silenzio irreale.

 

Guido senza meta,

 

faccio sesso senza amore,

 

riflesso in uno specchio

 

c’è un fantasma al posto mio.

 

E non trovo le parole

 

per spiegare ciò che ho,

 

ogni cosa intorno a me

 

appare sadica e crudele.

 

È inutile sforzarsi

 

di essere normale,

 

non posso fingere a me stesso

 

proprio non funziona mai.

 

Trascinato dentro un labirinto enorme

 

vedo stanze tutte uguali;

 

in ognuna di esse

 

mi attraggono piaceri sempre nuovi.

 

Sembrano dirmi:

 

“Entra da noi, esaudiremo qualunque desiderio

 

non importa che sia proibito

 

vedrai sarà bellissimo”.

 

Sbagliare è facile

 

se non sai più chi sei,

 

non ho saputo dire no,

 

mi sono perso in un vicolo cieco.

 

La strada ammaliante del piacere

 

mi viene incontro senza ostacoli,

 

preda inerme della concupiscenza

 

tocco il fondo pensando di raggiungere la cima.

 

Sono schiavo del mio istinto,

 

intrappolato nella mia angoscia,

 

c’è un’ombra che mi insegue,

 

dovunque vado non mi lascia mai.

 

In una danza infernale,

 

senza fermarsi mai,

 

girano intorno a me

 

fantasmi ed incubi.

 

Voglio scoprire la tua origine,

 

combattere ed annientare le tue tentazioni,

 

fino a giungere faccia a faccia

 

con il volto più inquietante del mio male.

 

Sì, scaverò nei miei profondi abissi

 

tirerò fuori il demone a cui appartengo,

 

a costo d’impazzire,

 

giuro io mi libererò.

 

La mia anima smarrita

 

ora sprofonda dove non c’è luce,

 

nuda nuota sott’acqua,

 

non riemerge più.

 

 

 

 

 

 

 

  LA MIA ANIMA È NUDA

 

La mia anima è nuda

 

anarchico il mio istinto

 

folle la mia mente

 

immorale la mia libertà.

 

La mia anima è nuda

 

ama i bambini

 

sta al fianco di barboni, disadattati, emarginati

 

adora gli ultimi della classe sociale.

 

La mia anima è nuda

 

non sa vivere in società

 

non scende a compromessi e non concepisce le regole

 

non lavora e non produce.

 

La mia anima è nuda

 

è troppo grande per essere prigioniera in un corpo di carne

 

non può esser limitata dal tempo

 

è uno spirito libero che anela alla libertà assoluta.

 

La mia anima è nuda

 

posta al centro d’una corda tirata ai lati da lussuria e innocenza

 

come un verme striscia e bacia i piedi del demonio

 

poi di colpo s’alza in volo e abbraccia Dio

 

sempre in bilico tra inferno e paradiso.

 

La mia anima è nuda

 

soltanto nell’arte, di notte quando tutti dormono,

 

esce manifestando la sua diversità

 

se venisse scoperta verrebbe fatta fuori e forse anche uccisa,

 

bisogna lasciare dormire tranquillamente la gente,

 

guai a chi provasse a risvegliarli!

 

quando si sta troppo al buio, si ha paura della luce.

 

La mia anima è nuda

 

immortale e ribelle

 

aliena venuta da chissà quale mondo

 

destinata a perdersi e soffrire

 

nel crudele gioco della vita e della morte.

 

La mia anima è nuda

 

scevra da qualunque vanità

 

spogliata nella sua infinita miseria

 

non si lascia etichettare in nessun modo

 

non è né maschio né femmina, né schiava né regina.

 

La mia anima è nuda

 

conosce la sensibilità del male

 

è attratta dal fascino del proibito

 

è inquietante ma sincera.

 

La mia anima è nuda

 

è ancora bambina quando sogna

 

terribilmente vecchia quando insegue la logica

 

morta e sepolta quando si lascia sedurre da religioni e ricchezze.

 

La mia anima è nuda

 

condannata dalla sua stessa sensibilità

 

ad un isolamento senza uscita,

 

non chiede più comprensione ormai

 

sa di averla data ma di non poterla ricevere.

 

La mia anima è nuda

 

dannata

 

salvata

 

ma dannata ancora.

 

Anime perverse, entrate in sintonia con me!

 

sono qui, se volete potete trovarmi

 

non ho maschere e non mi nascondo:

 

la mia anima è nuda.

 

 

 

LA MIA MENTE

 

Silenzi e vuoti intorno a me

 

quiete assoluta nella mia stanza

 

sguardo assente, occhi chiusi

 

la mia mente mi porta lontano fuori da qui

 

mi trascina via con sé e nessuno se ne accorge,

 

prende il largo sulle acque

 

attraversa un fiume tranquillo

 

che cancella i ricordi

 

e li fa scivolare via.

 

La mia mente

 

è volo di idee

 

ragnatele di ragionamenti

 

archivio di esperienze rimosse

 

cassetti colmi di dubbi incessanti.

 

La mia mente

 

è follia pura

 

immaturità e saggezza insieme

 

è un gigantesco pallone

 

che vaga rimbalzando continuamente

 

da un soffice sogno all’altro.

 

La mia mente

 

è finto silenzio

 

fantasie strane

 

vertigini e vortici di pensieri

 

spinta per vivere.

 

Crea una tempesta

 

non dorme la notte

 

incubi che si accavallano

 

sogni che nascono e rimangono sospesi

 

paure e solitudini senza fine.

 

La mia mente

 

è invasa di ricordi che si susseguono

 

notizie divorate

 

date, sentenze, nomi, schede ormai ingiallite

 

profumi di opere buone

 

domande senza risposte

 

amori cancellati e poi riscritti

 

sì che diventano no.

 

La mia mente

 

è un insieme di cose da dimenticare

 

una cantina di occasioni perdute

 

di progetti mai portati a termine

 

di ricordi nostalgici.

 

La mia mente

 

silenziosa corre, vola, sfugge,

 

anela, brama di sapere.

 

Va via col vento, più su delle nuvole

 

sopra gli oceani

 

sorvola spazi infiniti

 

raggiunge nuovi orizzonti.

 

La mia mente

 

mi convince

 

ha sempre la meglio

 

detta le sue leggi

 

ed io non posso sfuggirle,

 

la seguirò perché lei vuole così.

 

La mia mente

 

mi fa impazzire

 

mi fa venir voglia di scoppiare

 

mi lascia i segni di chi ha vissuto un’eternità.

 

Uccidimi il cuore!

 

la mia mente mi resterà ancora intatta.

 

Legami con una catena fortissima!

 

lei mi slegherà,

 

forse neanche la morte fisica

 

potrà riuscire a fermarla.

 

Ti prego mente mia

 

portami con te lontanissimo

 

nei grandi campi di neve dove il sole non c’è

 

nei deserti sabbiosi senza confini

 

nelle praterie immense

 

nei mari in tempesta

 

nelle cime vertiginosamente alte

 

nelle strade vuote senza fine

 

che portano al nirvana e all’estasi.

 

Portami o mente mia

 

attraverso paesaggi sfocati e laghi annebbiati,

 

le mie vene saranno fiumi tra le rocce

 

le mie mani pallidi monti nella notte

 

il mio sangue torrente rosso più del fuoco.

 

Solo con te sulla scia delle ninfe

 

tra cascate argentate, ghiacciai sterminati

 

i miei pensieri frustati dal vento

 

scatenati e prendi, prendi tutto di me!

 

 

 

VORREI

 

Vorrei vagare nell’universo

 

e cercarti ovunque,

 

nelle intrecciate tele di un ragno

 

nel fruscio delle foglie morte

 

nel dondolare dei rami stecchiti

 

nel profumo d’un incensiere

 

sfogliando la Bibbia

 

dinanzi al portone d’un antico monastero.

 

Vorrei essere portato via da te nella tua carrozza

 

lontano dalla prigione d’un grattacielo

 

lungo le strade dell’inverno

 

ed osservare riflessa nel lago argentato

 

la mia immagine vecchia e deforme

 

trasformarsi nella tua pelle giovane e bianca

 

e contare poi una per una

 

le perle della tua corona.

 

Vorrei capire chi sono

 

mostrandoti fotografie sbiadite e diari segreti,

 

mostrandoti la scia luminosa dei ricordi

 

di quello che ero ieri,

 

l’anima immortale che vive nei miei versi adesso,

 

la statua, la lapide e la polvere

 

di ciò che rimarrà dei miei sogni domani.

 

Vento impetuoso della fuggevole immaginazione mia

 

tu spalanchi con forza la porta di questa mia tacita realtà

 

e nelle annebbiate stanze del tuo nido

 

io mi sto sempre più addentrando.

 

Ed ora sento di poterti raggiungere.

 

Vorrei avvicinarmi ma non so chi sei

 

vorrei chiamarti ma non so il tuo nome

 

vorrei seguirti ma tu ti stai sciogliendo lentamente

 

in aria,

 

scompari quando credo d’afferrarti.

 

Eppure io ti inseguo da sempre

 

nei labirinti della mia mente,

 

cercandoti affannosamente

 

in ogni piccolo spazio

 

della mia camera vuota e solitaria.

 

E nelle lacrime della solitudine mia

 

che percorron lente il mio viso pulito,

 

vedo i miei sogni evanescenti

 

morire uno dopo l’altro

 

ed un bimbo,

 

quel bimbo che vive in ognuno di noi,

 

li porta con sé invecchiati

 

fino ad estinguersi

 

nel riposante approdo d’un obitorio.

 

 

NICO

 

Nico!

 

Ti ricordo ancora

 

avevi dodici anni, la mia stessa età

 

solo qualche giorno in meno.

 

Nico!

 

Sei nella memoria coi tuoi occhi scuri

 

una bocca grande ma con pochi denti

 

ti facevo il verso

 

non te la prendevi.

 

Nico!

 

Eri sempre con le brache corte

 

e le gambe viola

 

per il grande freddo.

 

Nico!

 

Ma com’eri buffo

 

con quel cappellino con il paraorecchie

 

una grossa sciarpa fatta da tua mamma

 

come ci tenevi.

 

Nico!

 

Il compito in classe

 

lo copiavi sempre da me

 

eri furbo

 

non so come facevi.

 

Nico!

 

Insieme sulle piante

 

a buttar giù palle di neve

 

alle barbagianne, le ragazzine con gli occhiali

 

quelle proprio racchie.

 

Nico!

 

Non ti ricordi le mele

 

rubate insieme e mangiate di nascosto

 

in quel mercato rionale?

 

E le domeniche d’agosto?

 

correvamo per le strade deserte

 

c’eravamo solo noi

 

chissà cosa volevamo dalla nostra vita!

 

Nico!

 

Eri il mio migliore amico

 

un giorno mi dicesti:

 

“Se fossi nato femmina ti amerei”.

 

Quel giorno al doposcuola

 

ci presero un po’in giro

 

avevano scoperto

 

i nostri giochi strani.

 

Non mi vergognavo di volerti bene, di prenderti per mano,

 

di regalarti il mio affetto

 

quello che riuscivo a darti,

 

quello che potevo darti.

 

Nico!

 

Ma tu adesso cosa fai?

 

chissà se ti sei sposato, se hai dei figli

 

se pensi ancora a noi.

 

Com’era bello uscire da scuola!

 

e col sole o con la neve

 

tornare a casa

 

insieme.

 

Nico!

 

 

 

MADAME CLELIA

 

Un’emozione forte

 

si fa strada nei miei pensieri,

 

lenta scende come un’ombra

 

nella mia realtà ormai stanca

 

e tra la fantasia e l’età

 

mi trascina via con sé

 

in un tempo ormai lontano.

 

Mi rivedo di colpo lì

 

a spiarti dietro la finestra

 

di quella tua tenebrosa casa antica.

 

Sui miei undici anni appena compiuti

 

cadeva già il primo velo di follia,

 

e che sussulti, che tremiti segreti

 

in quelle mie inquiete notti di fanciullo

 

quando impaurito e rannicchiato

 

mi nascondevo sotto le coperte,

 

la mia prima masturbazione

 

la conobbi proprio allora e fu per te.

 

Madame Clelia!

 

Eri grande, troppo grande

 

forse vecchia per i miei occhi e per il mio corpo.

 

Avevi perso il marito

 

ti avevano abbandonato i figli

 

io come un giocattolo, un barboncino

 

ero tutto quello che ti rimaneva

 

nella tua vita mai vissuta

 

sempre attesa, mai avverata.

 

Ancor adesso

 

a distanza di tanti anni

 

non so cosa volessi tu da me

 

né cosa avrei potuto darti io.

 

Ma ti giuro Madame Clelia,

 

tu sei stata per me una regina

 

ti vedevo danzare nei miei sogni di bambino,

 

mi chiedo come mai così bella dentro

 

nessuno, all’infuori di me,

 

ti aveva vista mai.

 

 

 

PAESE NATÌO DI MIA MADRE

 

Al tuo paese torni

 

con me

 

ogni tanto,

 

ma sei triste

 

pensierosa

 

non parli.

 

La tua fontana rivedi

 

i vicoli

 

la piazza

 

che a miglior tempo

 

ti furono amici.

 

Anche la tua casa

 

giace silente e vuota

 

negletti i fiori

 

accanto ai muri.

 

Guardi fissa la chiesa

 

e odi la voce

 

di chi la preghiera

 

t’insegnò a ripetere.

 

Vedi tutti i ricordi

 

segnati da croci

 

cerchi ma non trovi

 

la speme d’un dì.

 

 

 

 

IN SIMBIOSI CON L’UNIVERSO

 

È solo mio questo improvviso aprirmi

 

e rivedere in un attimo tutta la mia vita come in un film registrato

 

e poi simultaneamente

 

allargare le braccia all’universo che mi circonda

 

e respirare a pieni polmoni

 

come volessi trasportarlo in me

 

per sentirmi parte di esso.

 

E poi ancora rivedere con gli occhi della memoria

 

lontanissimo come da un cannocchiale rovesciato

 

me stesso bambino giocare in un cortile

 

e paragonarlo alla luna

 

distante anch’essa mille anni luce da me.

 

E continuare a rivivere nei ricordi

 

la spensieratezza della giovinezza

 

e nello stesso istante

 

dirigere lo sguardo verso l’azzurro del cielo

 

ammirare spazi infiniti

 

nuvole bianchissime come zucchero filato, mongolfiere in volo

 

Ridiscendere poi negli anfratti della mia memoria

 

e riscoprire la ragazza che ho baciato e amato

 

per la prima volta,

 

e confrontare la luce limpida dei suoi occhi

 

con quella delle stelle

 

o semplicemente della stella cometa.

 

Ricordare infine i dolci versi

 

scritti in tenerissima età

 

nella mia prima poesia,

 

immaginando di trovarmi

 

tra fiorellini di campo di vario colore,

 

solleticati dolcemente da un leggero venticello,

 

mentre uccellini nel nido assieme alla loro madre

 

e tanti piccoli animaletti festanti

 

tutti insieme

 

cantano la loro canzone alla primavera.

 

Capisco proprio in questi dolci momenti

 

di non essere solo

 

malgrado il tempo che passa

 

malgrado non abbia una compagna.

 

Intorno a me

 

vedo tutto un mondo magico

 

che pullula d’amore.

 

C’è tanta musica nell’aria che respiro

 

ed ora finalmente anch’io posso sentirla

 

e lasciarla entrare nel mio cuore.

 

Sono in simbiosi con l’universo.

 

 

 

SOLITUDINE UNIVERSALE

 

Uno spaventoso silenzio

 

avvolge tutto l’universo,

 

gli uomini come marionette di pezza

 

si susseguono nel tempo gli uni agli altri

 

e non nascono che per morire definitivamente.

 

Quanta gente nel corso dei secoli

 

mi ha soltanto preceduto!

 

uomini in carne e ossa proprio come me

 

col mio stesso sangue

 

con le mie stesse paure, le mie stesse speranze.

 

Hanno vissuto in tempi diversi

 

e per età differenti

 

ma di loro non è rimasto più nulla!

 

Dov’è l’uomo delle caverne?

 

e gli antichi Egiziani con le loro piramidi?

 

e i gloriosi Romani? e i pensatori Greci?

 

imperatori e papi, uomini comuni ed eroi

 

tutti scomparsi

 

nell’inesorabile scorrere del tempo.

 

Vorrei uccidermi subito

 

al solo pensiero che anch’io farò la stessa fine,

 

è strano come gli uomini

 

continuino a vivere con impegno

 

pur sapendo che dovranno morire,

 

anche se vivessero per cento anni

 

sarebbe sempre un soffio di fiato

 

rispetto all’eternità.

 

Ma poi mi consolo tra me

 

pensando che la solitudine non è solo mia

 

ma è presente in ogni angolo dello sconfinato universo

 

e non esiste gioia più grande

 

del sentirsi parte di questa immensità

 

pur consapevole della propria piccolezza

 

e piangere l’intima fragilità

 

in un pianto accorato e senza speranza.

 

Così mi nasce dentro un’emozione fortissima

 

che, anche se nata dalla disperazione

 

è pur sempre un’emozione

 

e subito dopo rido, rido e ancora rido.

 

Ormai più nulla ha valore per me.

 

Scopro la dolce ebbrezza del non senso,

 

non m’importa della seduzione della fede

 

né del ragionamento della scienza.

 

Sono totalmente felice

 

e la mia gioia scaturisce dalla mia solitudine

 

che ora riesco a proiettare nel cosmo

 

e la solitudine dell’universo

 

è la mia stessa solitudine

 

e mi dà conforto

 

mi rende grande.

 

 

TRISTEZZA

 

Tristezza di cose perdute

 

di voci, di grida, d’amore

 

è struggente la pena che sento

 

come una lama mi trafigge il cuore.

 

Addio nidiata di bimbi!

 

è tanto quel che mi rimane di voi

 

siete riusciti a far sparire il dolore

 

per sempre compagno di vita.

 

Sorridevo felice all’innocenza

 

di nascosto, nel silenzio, tra le ombre

 

in segreto e in perfetta armonia

 

entravate uno dopo l’altro in me.

 

M’illudo di avervi vicino

 

vedo i vostri corpi e li tocco, li sento

 

immagino che siate con me

 

nel pensiero più dolce ch’esista.

 

Ripiomba di colpo ogni cosa

 

in grembo all’eterno destino

 

i vostri visi risplendono come dolci memorie

 

e poi muoiono con un tremulo brillio.

 

 

 

SENSAZIONI

 

È tutta avvolta nel mistero e nella meraviglia

 

questa vita mia,

 

con genuino e infantile stupore,

 

della natura osservo ogni manifestazione

 

fino ad esserne rapito.

 

Con sensibilissima attenzione nel silenzio ascolto

 

le voci, i suoni

 

anche i più tenui,

 

delle piccole cose intorno a me.

 

Affascinato e curioso

 

percepisco la suggestione, la religiosità, il mistero

 

nascosti in esse.

 

Ai miei occhi non appaiono

 

sempre traducibili e afferrabili

 

ma sciogliendosi in musica, in sospiro

 

mi riempiono ugualmente l’animo d’immenso.

 

 

 

INFANZIA LONTANA

 

Storia d’una infanzia lontana

 

ricognizione di un mondo

 

pietrificato nei ricordi.

 

È il canto della memoria

 

che si eleva

 

è profondo, sentito, cercato.

 

In esso

 

si rincorrono

 

gli attimi che hanno lasciato una traccia.

 

Rivivono anch’essi

 

insieme alle cose, alle persone familiari

 

ai sogni di più remote stagioni.

 

La memoria mi appare così

 

come immagine sovrapposta al presente

 

e i suoi impulsi,

 

ritornando dal passato,

 

s’intrecciano sinfonicamente,

 

trovano una finale armonia.

 

 

 

 

SULL’ORLO DELL’ABISSO

 

Dimora in me

 

un continuo e sempre vivo bisogno d’innocenza

 

come memoria limpida, essenziale

 

non coperta da incrostazioni.

 

Tornano nella mia mente

 

lontane primavere, gigli appassiti

 

come visioni taciturne e distanti

 

e tra echi sepolti

 

in un urlo senza voce

 

cadendo vittima del segreto logorio della vita,

 

subisco inerme la vecchiaia

 

come qualcosa di ineluttabile

 

stagione ultima, cupa e persino squallida

 

in cui sopravvive solo la memoria.

 

Non è tanto l’immagine della decadenza fisica

 

dell’inarrestabile declino che mi colpisce,

 

quanto la fugacità, la brevità del tempo

 

lo spazio attraversato in un lampo da ogni cosa,

 

anche le immensità celesti

 

dove ho cercato quasi un punto focale

 

della mia esistenza.

 

Oggi sono immerso nella follia più lucida,

 

il mio mondo è l’irrazionale, sembra una maledizione o una profezia

 

il mio pensiero si muove sempre sull’orlo dell’abisso.

 

Non c’è più luce, non c’è chiarezza

 

nel mondo informe, tumultuoso del mio vissuto.

 

Mi sgorga dentro un’impressione d’inerzia, di passività

 

che traspare dalla contemplazione della natura,

 

ha il gusto del tempo e delle sue rovine

 

perché quest’ultimo, pur nella disperazione e nella malinconia,

 

è il solo che mia dia una qualche trepidazione

 

un’incertezza, una sorpresa.

 

 

 

 

IL MIO IO COSMICO

 

Vedo vivere e sfiorire intorno a me

 

inesorabilmente

 

le persone, le cose, le stagioni

 

preda d’un sentimento panico dell’universo.

 

Trovo conforto abbandonandomi nella natura

 

per dimenticare in essa la mia forma umana

 

accogliendo nel sangue

 

il brivido solare d’una vita pura.

 

Il mio io cosmico pone la propria oggettività

 

per poi tornare a se stesso

 

nel perpetuo flusso della vita.

 

Mi fondo nella natura

 

contemplando il momento in cui l’amore

 

sarà libero fuori dal corpo

 

per farsi cielo.

 

Sublimo l’anima con i sensi

 

ma non interrompo il contatto fisico col mondo.

 

Forse spero di trovare in fondo alla strada percorsa

 

il silenzio e la solitudine dell’universo

 

anche quando silenzio e solitudine

 

sembrano chiudermi e annientarmi.

 

 

 

SFACELO

 

Gioco artificiale e platonico di specchi

 

sempre mutevoli

 

con tante facce e tante luci,

 

non trovo il filo interiore

 

quello vero e profondo,

 

cado così nel gioco delle invenzioni

 

delle contraddizioni.

 

Una totalità non trovata

 

che rivela disagio, sofferenza.

 

Cerco rifugio altrove

 

senza sapere dove

 

ma ciò che mi rimane di questa umana fatica

 

è la coscienza di una prigionia

 

e mi sento rinchiuso nel cerchio delle mie abitudini

 

che si avvicendano in modo sterile.

 

Sogno impossibili evasioni attraversato da sussulti e vertigini

 

invano lotto per non essere travolto dal tempo

 

ma l’amore mi appare perduto

 

tra la cenere dell’esistenza.

 

Archivio la memoria

 

come un mondo ormai passato per sempre

 

fatto di resti sospetti,

 

tracce che tendono a scomparire nel tempo

 

come carte antiche e indecifrabili

 

vere e proprie reliquie.

 

Sopra tutto questo sfacelo

 

aleggia sovrano il sentimento del tempo

 

che sfugge, che rovina, che travolge.

 

Non mi rimane

 

che una ragione stanca, ferita

 

al limite della resistenza

 

ma non vinta

 

che cerca in fondo alla dolcezza,

 

nella disperazione,

 

la speranza d’una morte amica.

 

 

 

LA LUCE DEL COSMO

 

Come per magia

 

il divino traluce

 

o affiora nei margini del mistero sovrasensibile

 

e la mia anima s’insinua

 

tra sensazioni terrene e misteri dell’essere,

 

nelle cose che l’occhio può scoprire mutate

 

in una luce e un suono

 

insospettato, nuovo, più profondo.

 

Sento nascere in me

 

il bisogno di illuminare con la luce del cosmo

 

le cose infinitamente piccole.

 

La mia anima così si fa largo

 

e nello spazio che mi creo

 

c’è il senso del tempo, del moto, del divenire,

 

e insieme del mistero

 

che avvolge il mondo delle mie sensazioni.

 

Entro in contatto

 

con tutto ciò che ignoro, intravedo, avverto

 

e soltanto in quell’istante,

 

sia pure con animo turbato,

 

riesco a capirmi.

 

 

 

PRESENZA VIVA

 

Momenti magici, favolosi

 

della mia infanzia,

 

ricordi evocati

 

da attimi di malinconia,

 

visioni incantate

 

della mia terra natìa.

 

Naufrago dolcemente

 

in un’infanzia che è ormai

 

il mito di se stessa,

 

e del dolore che l’ha portata via.

 

Pur tuttavia è suono, movimento

 

vita che trascorre.

 

Non la confronto con altri silenzi

 

con gli arcani mondi dell’immaginato

 

dello sperato, d’una irraggiungibile felicità.

 

Diventa invece voce intima del ricordo

 

presenza viva di qualcosa che passa

 

come echi, rintocchi.

 

Immersa nel tempo fluido

 

la natura come per magia

 

penetra nel tessuto della mia anima

 

e si fa poesia

 

ne scioglie i nodi, ne ispira i versi

 

è pianto che rasserena.

 

 

 

 

L’ALBA DELL’UOMO

 

Da un chiarore lontano

 

spunta l’alba

 

repentinamente

 

e colora di luce il nuovo mondo.

 

Intorno,

 

piante stecchite

 

animali selvatici

 

grotte e caverne buie.

 

Si svegliano anche gruppi di scimmie

 

sono nude come vermi della terra,

 

schiamazzano

 

litigano

 

si riuniscono.

 

Qualcosa sembra dire loro:

 

“Uniamoci

 

e combattiamo insieme”,

 

una battaglia che durerà nei secoli

 

sino alla fine dell’universo

 

se fine ci sarà.

 

 

 

MIA EVA

 

Mia Eva! Inizio della fine

 

sei tu la prima donna

 

l’origine delle mie perversioni

 

il pretesto per la mia follia

 

la madre dell’animale che è in me,

 

hai creato il mio istinto che ormai è morboso

 

il mio desiderio che è già sporcato.

 

Nel paradiso terrestre, trascinato indietro di mille secoli

 

io ti osservo nuda, allucinante visione,

 

misteriosa e invitante. Giochi con le armi della seduzione.

 

Dammi la mela ti prego, che aspetti?

 

voglio mangiarla!

 

è eccitante peccare

 

se tu mi sei vicina, nel pericolo mi sento al sicuro.

 

Dimmi dov’è il serpente, l’hai calpestato o no?

 

Voglio essergli amico e non mi farò esorcizzare.

 

Non mi importa di rimanere dannato per l’eternità

 

di lavorare, sudare e morire

 

di bruciare nelle fiamme dell’inferno,

 

l’importante è averti accanto.

 

Sei tu la causa del mio male

 

ma lo stesso male è ambiguo

 

cambia forma quando credo di conoscerlo.

 

Dal giorno che mangiasti quella mela

 

ogni uomo è sempre guidato

 

dalla follia d’una donna.

 

 

LA RIGENERAZIONE

 

Albero solitario

 

che mi aspetti in un campo di grano,

 

io ti vado incontro

 

e ai tuoi rami

 

mi appendo.

 

Ora sono appeso ai tuoi rami

 

e dondolo felice.

 

Tu ed io siamo un solo essere

 

una sola forma.

 

 

 

IL MIO FUNERALE

 

Come quando ci si toglie un abito

 

così avevo lasciato il mio corpo con i suoi pesi

 

ma ero vivo in una dimensione di immortalità e benessere.

 

Lento veniva trasportato

 

un corpo straccio

 

dentro quella bara

 

avara di ghirlande,

 

quel corpo era il mio

 

sì, ero io.

 

E quel carro funebre

 

attraversava le strette vie

 

che portavano a quel piccolo cimitero di collina

 

dove io fui sepolto

 

e riposo di già.

 

Scialli neri

 

vecchie facce coperte da veli

 

silenziosa processione,

 

dormiva mio padre

 

piangeva mia madre

 

quell’accompagnamento era il mio

 

sì, era il mio

 

ma io non capivo, ero felice fuori dal tempo

 

al di là dello spazio

 

e dall’alto osservavo stupito

 

quello strano spettacolo

 

sulla mia morte.

 

 

 

 

COINCIDENZE

 

Seguo una linea grandiosa

 

un’acutezza di senso

 

capace di rendere concreta

 

persino la fantasia.

 

E la visione

 

che parte generata dalla mia anima

 

si spande al di là degli orizzonti,

 

al di sopra delle piccole cose domestiche

 

ed è bellissimo

 

sentire come il senso dell’infinito

 

coincida fino a fondersi in uno stesso clima

 

con le cose più piccole.

 

 

 

NULLA È LONTANO

 

Grandezza e malinconia interiore

 

e povertà del mondo presente

 

ma la trasposizione mia

 

muta i termini del dissidio

 

ed è il bisogno di sognare

 

che rende grande l’opaco atomo terreno

 

illuminandolo di altre verità.

 

La fantasia ora avverte nel mondo

 

più segreti e profondi significati

 

dà immagine all’eco

 

si spande in altri mondi

 

si dissolve nell’immensità.

 

Ormai nulla è lontano dal mio spirito.

 

 

 

 

IL MARGINE SILENZIOSO DELLA MEMORIA

 

Nel margine silenzioso della memoria

 

che non è presente in me,

 

trovo rivelazioni e scoperte

 

un ricchissimo terreno umano.

 

La poesia restituisce alla vita

 

i nodi segreti

 

i ricordi assopiti

 

le reazioni più remote,

 

fa conoscere una nuova dimensione del reale,

 

a volte contro la ragione

 

a volte in armonia con essa,

 

sempre con libertà.

 

 

 

 

EGOISMO SOLITARIO

 

Sono il re

 

del mio egoismo solitario

 

che ha coscienza

 

soltanto per esprimerla in privato

 

in una totale esaltazione dei sensi.

 

Io non cerco più

 

un rapporto dialettico tra me e gli altri

 

e la mia concezione estetizzante della realtà

 

diviene dominio sulla folla,

 

forma una solitudine privata

 

dove il mio pene riaffiora docile tra le mie mani

 

fino a divenire una strana sensualità

 

fuori dai sensi

 

trasformata in un processo di spiritualizzazione.

 

 

 

ALLA DERIVA

 

È grigio il clima del perenne essere.

 

Tutto è caduto

 

le speranze perdute, le preghiere vane

 

le parole inutili, l’amore illuso

 

le primavere sfiorite, gli ideali mortali.

 

Ma non v’è più dramma in me

 

in questo continuo appassire e morire

 

ma completo abbandono.

 

Accetto di andare alla deriva

 

lasciandomi cullare dalla marea del tempo

 

in cui tutto si dissolve

 

fino a compiacermi del mio dolore.

 

È dolce sentirsi vittima, indifeso, inascoltato.

 

Capire che persino la vanità delle cose

 

diventa pura armonia.

 

 

 

VERRÀ POI LA MORTE

 

La mia vita passerà molto presto

 

drammatica e patetica

 

e con essa anche la sua ricchezza

 

fatta umana dalla fatica.

 

Il tempo,

 

un male che impoverisce la vita,

 

mi toglie ogni energia vitale,

 

il mio corpo senza speranza e senza salvezza

 

si rivolta, si risparmia, geme

 

s’illude ancora di strappare giorni, ore, minuti alla fine.

 

Ma vi è un altro male

 

subdolo e ancor più disperato:

 

quello di essere completamente solo

 

nell’umana comprensione di sé

 

costretto a tacere e fingere,

 

a rivedere il passato riflesso

 

nelle lacrime degli occhi che piangono

 

in un profondo bisogno di confidenze.

 

Triste appare allora il volto della memoria

 

come immobile silenzio che tende all’astrazione.

 

Verrà poi la morte del corpo

 

il distacco amaro.

 

 

 

LA MIA SOLITUDINE

 

Schivo mi stupisco di vivere

 

mi sento staccato ed incompreso

 

da tutti gli altri uomini.

 

Mi aggrappo agli scarti della vita

 

tutto il resto è inconsistente.

 

Non mi aspetto comprensione

 

né consolazione né tregua

 

consapevole della mia solitudine.

 

Ho scelto liberamente l’aridità e il deserto

 

e osservo le cose della vita

 

prosciugate e fisse

 

come simboli magici in una luce rarefatta.

 

 

 

LO STRAZIO D’ESISTERE

 

Urlo di masse

 

voci, passi, gesti

 

tra pietà curiosa e fanatismo,

 

irrazionale catena di incubi e fobie

 

ai margini dell’ossessione.

 

La personalità umana si lacera

 

il senso dell’alienazione incombe

 

la coscienza si smarrisce.

 

Spinto da una sofferenza solitaria e indecifrabile,

 

contagiato dalla multanime esistenza

 

affogo lentamente nel caos

 

e non ho scampo

 

se non nella perfetta solitudine.

 

 

 

LA MIA FOLLIA

 

L’infinita miseria della vita

 

la solitudine del mondo

 

la caducità della fama che passa.

 

E poi la morte delle persone care

 

l’incombente paura delle malattie

 

il continuo vagabondare senza pace dell’uomo

 

acuiscono la mia sensibilità

 

ma accrescono i sintomi della mia follia.

 

Cupe ombre di pazzia

 

si addensano minacciose su di me

 

travestite da un’atmosfera di lucida estasi.

 

È il dramma della mia ansia angosciante

 

la disperazione di tutto il mio essere

 

forse creato da Dio

 

ma poi lasciato a se stesso

 

privo d’identità, privo di vita

 

impossibilitato di comunicare

 

di capire e farsi capire.

 

 

 

 

LA MIA MODESTA FORMA UMANA

 

Ormai ridotto ad accettare la mia condizione

 

di uomo consapevole del proprio destino,

 

sento tristemente che la vita in me

 

invecchia inesorabilmente

 

che altri sentimenti, altre idee

 

mi nascono nell’anima,

 

che arte e vita procedono insieme,

 

e la poesia della mia vita solitaria

 

diventa essa stessa memoria.

 

Non è più la storia d’un uomo

 

che cerca l’illusoria grandezza dell’universo

 

ma semplicemente la povertà di chi

 

insegue soltanto la sua modesta forma umana.

 

Affido alla mia scrittura,

 

unico ed ultimo appiglio rimastomi,

 

la speranza di trovare ancora

 

punti luminosi sul mio cammino terreno

 

proiettandomi fin quando mi sarà possibile

 

e ne avrò ancora la forza,

 

nel tempo e nell’universale,

 

solo così la realtà della poesia

 

potrà apparirmi più ricca di significato

 

di quella della vita.

 

 

 

 

DESIDERIO D’INFINITO

 

Un sentimento dell’esistenza umanissimo

 

mi scorre dentro,

 

la mia spiritualità

 

è attraversata da malesseri sublimati

 

da torpori e da abbandoni,

 

trasalimenti e sofferenze confessate,

 

si distacca dalle cose terrene

 

diventa consapevole della fugacità umana,

 

è poesia per questo suo fluire

 

in mezzo alla vita

 

non ancora del tutto purificata

 

non ancora donata a una fede.

 

Le mie parole sono ultime gocce d’una vena

 

che ha già dato ciò che poteva dare.

 

La strada che porta alla bontà

 

mi libera dall’ansia

 

restituendomi un desiderio d’infinito.

 

 

 

 

LA FAVOLA DI UNA PICCOLA LACRIMA

 

Da una bimba e un pianto

 

nacque lei

 

piena di paure e ingenuità

 

chiara e trasparente

 

dai suoi occhi si affacciò

 

e da quelle ciglia sottili

 

piano piano scese giù.

 

Attraversò quel viso

 

dai lineamenti dolci

 

pulito di bambina

 

e per il mondo

 

sola sola

 

s’incamminò.

 

Ma era troppo ingenua

 

non conosceva il male

 

e la sua vita

 

era già in pericolo.

 

E passarono in fretta gli anni

 

e anche le stagioni

 

venne presto l’inverno

 

portando con sé la pioggia.

 

Tante grandi gocce

 

cadevano giù dal cielo

 

tutte insieme,

 

erano prepotenti

 

si spingevano tra loro

 

si bisticciavano.

 

La dolce lacrima ben presto

 

si trovò sommersa

 

cercò di ribellarsi

 

ma era troppo buona

 

e non aveva la forza.

 

Così per non morire

 

pensò di tornare

 

dentro quegli occhi

 

dov’era nata.

 

Sola e stanca

 

cercò quella bambina

 

la cercò dovunque

 

e la trovò alla fine.

 

Ma era ormai cresciuta

 

non era più bambina

 

il suo viso era truccato

 

non si ricordò di lei

 

e la cacciò via con forza.

 

Così la povera lacrima

 

restò proprio sola

 

in balìa di tutti

 

senza alcuna difesa.

 

Vagava per il mondo

 

ignorata da chiunque

 

sembrava invisibile

 

trasparente

 

proprio come una lacrima.

 

E venne il sole

 

e con la sua luce

 

forte forte

 

la illuminò.

 

Ma era ormai vecchia

 

allo stremo delle forze

 

e lentamente

 

si sciolse da sola.

 

Finisce così

 

la sua insignificante vita,

 

la sua insignificante storia

 

e nel silenzio,

 

la gocciolina

 

muore.

 

Così è il mio destino

 

la storia di quella piccola lacrima

 

è uguale alla mia.

 

 

 

 

 

 

 

IL SILENZIO NEL SILENZIO

 

Erba appena bagnata sulla livida terra,

 

odore di pioggia da poco caduta

 

trasporta nell’aria bollicine di sogni

 

in questo autunno che scorre lento…

 

Silenti alberi ammutoliti e spogliati

 

attendono stanchi giovani foglie,

 

con la nuova stagione arriveranno

 

in questo autunno che respira lento…

 

Un colore giallognolo suggestivo e irreale

 

avvolge ogni cosa di magico incanto,

 

sfumature di anime invocano il sole

 

in questo autunno che sbadiglia lento…

 

Piante e animali stanno dormendo,

 

la natura è un fantasma che si aggira ramingo,

 

persino le pietre chiudono gli occhi arrossati

 

in questo autunno che dorme lento…

 

Non si avvertono rumori, non si odono lamenti

 

non c’è più linfa, è sottratta ogni energia

 

domina il nulla immobile e statico

 

in questo autunno che tace lento…

 

Una coltre di nebbia come una nuvola

 

disegna il paesaggio di malinconica assenza,

 

una sottile tristezza scende sul cuore

 

in questo autunno che muore lento…

 

E in questo bosco solitario e sperduto

 

dove anche il vento non ha la forza di soffiare,

 

io perdo me stesso ed i miei pensieri

 

e nel silenzio io rimango in silenzio.

 

 

NARRAMI L’ADDIO

 

Dimmi del tuo verbo,

 

preziosa fioritura

 

d’un ramo di ciliegio,

 

slegando il tuo pensiero

 

nel soffio del maestrale.

 

Parlami dell’onde,

 

in gioielli di turchese,

 

che il mare partorì

 

nel ventre dell’aurora.

 

Suonami il canto

 

che desta il fiume di memorie,

 

aprendo tra le rocce

 

profonde feritoie.

 

Dell’erbe, poi, donami il profumo

 

che al mondo porta il suo risveglio,

 

dopo fiocchi candidi di dolci nevicate

 

narrami l’addio del freddo sonno.

 

 

 

FOGLIE D’AUTUNNO SUL CUORE

 

Non cede il passo alla morte

 

questo silenzio di riflessi tenui

 

nel meriggio,

 

un dolce intreccio di piccole luci

 

che divorano, tremule, ombre ovattate.

 

Forse solo l’impercettibile suono

 

d’un brusio lontano

 

che giunge sfidando pensieri assopiti,

 

carezze morbide, candide piume che vengon giù

 

come foglie d’autunno sul cuore.

 

 

 

 

GIRASOLI

 

Sfidavano austeri

 

azzurri afosi,

 

lo sguardo profuso d’incanti

 

nei tramonti sterminati di terra,

 

l’onda gialla di petali solari

 

come una mano dalle lunghe dita.

 

Era una culla ad arte plasmata

 

dalla grande anima del vento,

 

e quei giorni irradiati di speranze,

 

nel calore biancastro dei desideri,

 

offuscavano sovente i sensi

 

abbandonando l’anima

 

ai passi selvatici del vivere.

 

 

 

 

CHIOME DI MANDORLI IN FIORE

 

Così modellata in ambrato miele

 

venne al mondo la resina bluastra del mattino,

 

protesa al chiarore di poche nubi sfumate

 

tra chiome di mandorli in fiore.

 

Primavera! dissero, ma era solo

 

la magia d’un antico risveglio,

 

l’intarsio indolente di colline smeraldo,

 

l’eco stordito dei passeri in volo.

 

E nel lampo dei primi bagliori,

 

dipinta in turchese fu l’onda del mare

 

nel ricamo perenne di schiume d’avorio.

 

 

 

 

NEL BAGLIORE D’UN TRAMONTO

 

Qui ti vedo,

 

struggente nube del mio cielo,

 

nel riflesso di ricordi sulla pianura quieta,

 

nella foschia che avvolge

 

le colline addormentate di crepuscolo,

 

nel silenzio che sospinge

 

la mente oltre l’orizzonte:

 

io ti vedo.

 

Ancora non mia.

 

Ancora uccello in volo,

 

vento che passa e non resta.

 

Sfuggente nube del mio cielo silenziosa e inerte

 

nel bagliore d’un tramonto,

 

che muore.

 

 

 

PROFUMO D’AUTUNNO

 

Calici rubini,

 

foglie arse

 

nel morire dei passi in fondo al viale.

 

Oltre cristalli di liquida pioggia

 

speranze esili come fuscelli spogli,

 

le dolci parole di stelle in delirio

 

per il nuovo addio alla calda stagione.

 

Carezze rideste di foschi cieli

 

languore di nubi nel profumo d’autunno

 

e le candide nebbie

 

che avvolgono il ventre in orme dolenti.

 

Solo ieri eravamo erba di primavera

 

oggi soffio di gelido vento.

 

 

FUSI NEL VERDE

 

Spiano, tra le fronde,

 

pallidi volti senz’arti,

 

così stupiti di vedere,

 

fusi nel verde come riflessi

 

d’uno stesso smeraldo.

 

Due cuori poi vennero,

 

mano nella mano,

 

dal ventre d’ogni pianta,

 

come respiro di vita

 

linfa dell’essere.

 

E non fu solo amore

 

il passo del cammino,

 

ma molte altre storie

 

ancora da narrare.

 

 

PASSI DI LUCE

 

Passi di luce,

 

in contrasto di cielo,

 

deformano il tratto

 

lievemente ambrato

 

della carezza erbosa

 

tra capelli leggeri.

 

Alcova di fiabesche creature

 

forse elfi assorti

 

in dolci preghiere

 

o sogni di nubi

 

che spalancano piano

 

sguardi radiosi

 

sul nostro piccolo mondo.

 

 

 

IN RELIGIOSO DELIRIO

 

Mi porterai farfalle

 

sul palmo della mano,

 

come petali d’arcobaleno sconnessi.

 

Le maschere del cuore,

 

in religioso delirio,

 

resteranno mute ad osservare

 

valanghe di colori travolgere il mondo.

 

 

 

 

RIVE LONTANE

 

Rive lontane

 

che placide attendete approdi

 

di cuori smarriti,

 

nella carezza di nebbie

 

osservo il vostro sorriso languido

 

sfiorato da voli eterei.

 

Tremulo il volto del giorno

 

m’appare incerto nella meta

 

da questo vascello corroso

 

che custodisce l’anima.

 

Voce di quiete regna su queste terre,

 

al di là dei mondi conosciuti,

 

qui solo gli Erranti possono arrivare

 

per abbandonarsi ad indicibili sogni

 

nella placida culla d’acqua sciabordanti.

 

Ma, ahimé, pochi giungono alle rive lontane,

 

a sfiorare giunchiglie flessuose di vento,

 

poiché i loro cuori, bramosi e impuri,

 

rimangono impigliati nel velo di foschie.

 

Il canto dell’oblio, poi,

 

giunge inaspettato come soffio di gelo

 

a costruire monumenti di cenere.

 

Dimore di freddo marmo

 

assiepate tra i boschi silenti

 

popolano le solitudini umane,

 

meschine creature,

 

presuntuose e corrotte anime

 

che sgretolano il loro essere

 

al tocco del sole ardente.

 

Rive lontane, aspettatemi!

 

con fragili ali d’umanità

 

anch’io, vi sto raggiungendo.

 

 

 

CANCELLI

 

Varchi di nebbie dense

 

come cancelli aperti

 

sui giardini dell’inverno,

 

accarezzano marmoree figure, antiche armature

 

che sembrano prendere forma e riacquistare vita

 

lungo sentieri traslucidi d’ombre.

 

Tra il soffuso crepitio dei passi,

 

soffici foglie danzano la fine

 

nel profondo silenzio del nulla

 

come un leggero vapore che scema la terra.

 

Fra le dita del crepuscolo

 

aprirò i miei cancelli.

 

O cielo, fa’ che questa notte mi sia sorella

 

affinché possa spargere i miei bagliori

 

e fonderli in stelle!

 

 

 

COME UN CORVO

 

Una goccia di sangue rubino,

 

rosso che stinge nel blu,

 

s’oscura eclissando i pensieri

 

negli antri bui d’un qualche incubo recondito.

 

È forse il presagio che incombe sull’anima

 

come una mano che dipinge ghiacci,

 

è l’odore acro d’ataviche tempeste

 

che implacabile spazza aridi steli.

 

È il sapore di lacrime mischiato ad uva acerba

 

nel vortice d’un grido che frantuma il silenzio

 

come un corvo che plana rapace

 

sui rami avvizziti d’un gelido inverno.

 

 

 

 

AMBROSIA

 

Nettare divino,

 

capriccio di un dio pagano,

 

inzuppami di cieli d’anima ed inebriami

 

in questa notte in cui le stelle

 

suonano violini di luce.

 

Geme un angelo ai piedi di un muro infinito,

 

i suoi occhi hanno veli di colori,

 

cerco nelle sabbie e nei venti

 

qualcosa che assomigli a verità,

 

ma solo stracci di bugie nascono da albe stanche.

 

Ere infinite sono trascorse in queste terre,

 

tombe e muschi han ricoperto i prati,

 

i fiori della notte sono sbocciati con petali d’incanto

 

liberando lussuriosi profumi.

 

Nettare che disseti,

 

versa la tua essenza su questi mondi di uomini dormienti,

 

destali da sonni eterni che accarezzano destini,

 

lascia che la luce trafigga gli astri, che volino colombe,

 

che remino barche verso la riva,

 

non lasciarci in balia del buio, in città martoriate,

 

a levare il canto d’una preghiera muta.

 

Io cerco il tuo aroma nel calice di fiori di rugiada,

 

spargo nenie al vento che mi travolge.

 

Sulla strada del fiume vidi una donna …

 

i suoi occhi si posarono su me,

 

aveva un mantello di dolcezze e il volto dell’amore.

 

Ombra della mia ombra divenne il mio passo,

 

sangue del mio sangue la sua vita terrena,

 

ma ci divorò una bestia atroce.

 

Ora sono tornato al calice dell’anima

 

a bere questo nettare di illusione.

 

Lasciami ai miei sogni, donami follia,

 

canto con l’arpa in mano gesta di tempi che furono,

 

sull’orlo della notte inseguo favole impazzite.

 

 

 

 

ALI DI CERA

 

Carezze di crepuscolo

 

pervase di zagara

 

nel gioco di tenui riflessi

 

han spiegato ali di cera,

 

bianchissime e candide

 

lingue di pace

 

al galoppo del vento.

 

Forse eterei angeli

 

venuti dal nulla

 

prodighi di sogni

 

ed ingenue purezze.

 

Forse demoni arresi

 

alla bellezza del cielo

 

stanchi d’eresie infernali

 

o semplici ricami di luce

 

intarsiati d’ombre incombenti.

 

 

 

 

SUSSURRI MILLENARI

 

Segni di civiltà lontane

 

perse nella notte dei tempi,

 

la terra riporta alla luce

 

vite disperse nel cosmo.

 

Le pietre mute testimoni,

 

raccontano storie

 

a chi ha orecchie magiche

 

per ascoltare il suono del vento,

 

di mille foglie che sussurrano instancabili

 

la vita.

 

 

 

 

CHIAROSCURO

 

Entra una luce obliqua,

 

di sole dimenticato,

 

dalla finestra del tempo

 

a schiarire la scabra stanza.

 

Ombre in controluce

 

mi vengono incontro lievi,

 

come foglie di un autunno senza fine,

 

volteggiano nell’anima.

 

Presto il tuo volto

 

delinea contorni in chiaroscuro,

 

un canto… un sussulto…

 

colma siderali silenzi.

 

– Ti prego ombra, danza con me! –

 

Vestimi d’innocenza bambina,

 

quegli echi di risa perdute

 

risuonano ancora

 

come carillons fatati.

 

Sono petali di dolcezza

 

che piovono su noi,

 

visioni mai osate,

 

sogni d’immensità,

 

delitti di desideri abbandonati.

 

E al fine, quando tutto cessa

 

e il sogno si dilegua lesto

 

nella notte silenziosa,

 

resta sulla mia retina, impresso,

 

un chiaroscuro dal tratto incerto,

 

come se quella mano che disegnò

 

non avesse fatto in tempo

 

a trattenere l’attimo di luce.

 

 

 

L’AMORE

 

L’amore…

 

triste fantasma dei miei ieri

 

sparge ancora a tratti

 

leggeri petali sul cuore.

 

Come angelo ferito,

 

che perde le sue piume in nevicate di dolore,

 

ricopre i desideri di velati risvegli,

 

dolce il suo tocco ferisce a sangue l’anima

 

travolgendo i sogni in impossibili minuetti.

 

Arpeggi dolcissimi di malinconie

 

inghirlandano giorni d’autunno sfumati,

 

somigliano a rose dischiuse sul sentiero di lievi respiri.

 

L’amore…

 

rondine smarrita senza primavere,

 

archi che disegnano ombre al tramonto,

 

oceano ed onde

 

castelli di smeraldo,

 

draghi sconfitti da lance avvelenate… l’amore.

 

Eppure, m’è parso, stamane

 

nel riverbero d’un’alba rassegnata,

 

sentirlo alitare ancora in liquidi ardori

 

sciogliendo le sue chiome di fuoco ai miei passi.

 

 

 

ACACIE STRIDENTI

 

Nell’aria a frusciare

 

ibridi sonagli dai vaghi colori,

 

protendono il verso, leggiadro,

 

al sentore del vento,

 

nel fertile giugno delle chimere.

 

Sono acacie stridenti di pudiche foglie

 

che sfiorano magiche il velo del cuore.

 

 

 

 

LA TRISTEZZA DEL REGNO DI AWEL

 

Del breve passo d’un istante

 

si nutrono le gioie terrene,

 

lampi fugaci, temporali evanescenti

 

la luce cangiante nel ventre della foresta

 

cela eterni misteri,

 

solo i liquidi occhi di una pioggia di novembre

 

possono sfiorare ingenui

 

le foglie smeraldine del Regno di Awel.

 

Il re senza corona,

 

che regge lo scettro degli Aracnidi,

 

non sa che la sua regina è scivolata in una brezza d’oblio

 

e canta sospirando l’antica nenia del ritorno.

 

Ma la gioia

 

è cosa assai più rapida d’un batter di ciglio,

 

mai più i passi di colei che intrecciava margherite

 

accarezzeranno il mattino con petali candidi,

 

nelle nuvole è rimasto il suo alone,

 

nel vento, il profumo triste del perduto amore.

 

 

 

GL’INQUIETI FOLLETTI DEL CUORE

 

Nella penombra avvolgente

 

d’un pomeriggio d’estate,

 

un’esplosione di luce colpisce

 

i muri bianchi dell’anima

 

corrodendo ogni pietra

 

sulla strada polverosa di caligine.

 

Fasci di luce, che sembrano lame,

 

entrano nelle stanze sonnolente

 

ferendo le persiane accostate

 

nell’attesa di baci di luna.

 

E nel pulviscolo indecente,

 

che il sole svela denudando, danzano ora

 

gl’inquieti folletti del cuore.

 

 

 

 

INCANTESIMI

 

Ho udito voci stregate sulle soglie del buio

 

bisbigliare incessanti nenie ancestrali.

 

Invadono sentieri scoscesi,

 

riflessi d’indaco sfumato,

 

tra le foreste e i campi,

 

baciando lapidi addormentate d’eterno.

 

Nell’abside della luna, poche stelle,

 

ergono cattedrali di smeraldo

 

sulle rovine del giorno sconfitto,

 

mentre una pioggia di piume d’angeli feriti

 

trafigge l’oscurità di candida dolcezza.

 

Fili d’erba a frusciare come arpe celtiche,

 

arcaici suoni di mondi dimenticati,

 

risvegliano indicibili malinconie

 

nella danza del vento.

 

Sortilegi di streghe nelle caverne del desiderio

 

stringono in un abbraccio d’edera

 

le nostre passioni,

 

avvinghiate in un sudario febbrile.

 

I nostri corpi trasformano ombre

 

in coreografie di luminosi draghi.

 

Rose carminie sbocciano ad ogni nostro respiro,

 

elfici sussurri fremono tra le umide foglie dell’anima,

 

freschi effluvi d’incensi muschiati si fondono

 

in litanie di gufi nebbiosi

 

e la tua mano scivola lieve tra le guglie del cuore

 

come fumoso spettro etereo, imprendibile,

 

che accarezzando sepolcri e rovine, subissando anatemi

 

spezza segreti incantesimi e sigilli arcani.

 

 

 

 

FOSCHI RESPIRI

 

Animami!

 

come nella notte di plenilunio,

 

cadavere obliquo sui miei fianchi di cera.

 

Straziami!

 

lungo la pelle di graffi indossati

 

con stellati artigli di liquide ombre.

 

Accecami!

 

con occhi stregati intrisi di perle e pugnali,

 

suadente pressione di foschi respiri.

 

Stregami!

 

con dense parole rubate alle tenebre

 

intarsi netti del cuore profondo.

 

Uccidimi!

 

nell’eco rimbombante d’illusioni tragiche,

 

il mio lento veleno

 

talamo e sudario del tuo ventre oscuro.

 

Ora sono pronto

 

a far l’amore con la morte.

 

 

 

 

 

LONTANE ORME

 

E scenderò

 

lungo le sponde acquatiche dell’origine,

 

figlio di soli raggianti,

 

nella fertile terra madre d’ogni vita.

 

E lo farò con quelle mani tese

 

nel gesto di avere briciole di tempo,

 

in un sinuoso cammino d’albe antiche,

 

lontane orme tra il Tigri e l’Eufrate.

 

 

 

MIA OMBRA

 

Il pianto ha stuprato la città

 

e tu vaghi indistinta con la mia anima,

 

ombra, ti aspettavo, come sempre,

 

per inseguire la tua lunga scia oscura,

 

riverbero di nero, lacrima e lamento,

 

perduto sogno sepolto negli abissi dell’infinito.

 

Ho camminato per lunghe ere

 

con la tua presenza al mio fianco,

 

compagna di ore fameliche a divorare il nulla

 

e adesso che il gelido vento,

 

tristemente, scuote alberi e cuori,

 

scorgo un bagliore incombente rischiarare il cielo,

 

un’alba vicina che riscopre gli orrori del mondo,

 

delicatezze violate,

 

tenui respiri nel silenzio,

 

ho ancora desiderio di te, mia ombra!

 

 

 

 

CANDELABRI DI FOLLIA

 

Quella notte il vento trascinò i respiri

 

fino alle mura d’un’abbazia solenne

 

ombre nella danza d’un crepuscolo di ghiaccio,

 

occhi smarriti fra lagune silenti

 

e l’anima tace come lapide in oblio,

 

nel sussurro senza tempo

 

che trafigge rosoni sventrati

 

un mistico canto di rovi,

 

tremula luce di candelabri di follia.

 

 

 

SULLA SCIA DELL’AURORA

 

Rosa purpurea, gelido fiore

 

petalo di cristallo, profumo di cera.

 

Gocce di linfa tra le mani impotenti

 

carezze sopite nell’attesa d’un bacio

 

che schiuda corolle e riverberi antichi.

 

È danza di luci, sculture d’ombre,

 

occhi che seducono

 

nella seta di notti struggenti.

 

Presenze indefinite,

 

creature d’altri mondi,

 

giungono stupite nel cuore

 

tra fumo e vapore,

 

tra sogni e speranze.

 

Gemme di fuoco attraversano il silenzio

 

regalando una pioggia di miele e d’ambra,

 

geme l’anima nel risveglio inatteso

 

scivolando lenta sulla scia dell’aurora.

 

 

 

ATLANTIDE NEL CIELO

 

Ma chi ti sommerse negli oceani

 

se tu risplendi tra le nubi dei giorni

 

coi leggiadri giardini sospesi nel vento?

 

Genitrice di splendide passioni,

 

perla pagana tra spezie stregate

 

oro che riluce nell’oscurità del tempo,

 

mito nel mito, leggenda errante,

 

scomodo sogno di chi ti volle continente perduto.

 

 

 

OMBRA DELLA VITA

 

Silenzio,

 

spazio circonciso,

 

elastico fluttuare,

 

un nulla dei sensi,

 

un vuoto sadico,

 

un respiro lento di notti insonni

 

e giorni come vele perdute,

 

in un mare stanco, ferito, livido,

 

mi sorprendo ancora ombra della vita.

 

 

 

 

QUANDO TU DORMI

 

Quando tu dormi sdraiata al mio fianco, amor mio,

 

sei il sogno che aleggia,

 

il vapore sulfureo d’un mondo ignoto,

 

tu sei scrigno di magie e misteri.

 

Ed io che, come poeta, sbircio nel tuo respiro

 

rubando il tesoro silenzioso di quel dolce sonno.

 

 

 

FIGLIA DEL VENTO

 

Lei è nata sulle rive del Sindh

 

aveva lunghi capelli neri,

 

sua madre la lavò nel fiume

 

suo padre le cantò una canzone tribale.

 

È nata mentre arrivava l’inverno

 

le capanne erano fredde,

 

crescendo ha teso la mano, la sua voce voleva parlare

 

ma la gente volgeva lo sguardo altrove.

 

Ha camminato a piedi scalzi

 

e ballato sotto la luce del sole

 

mentre i violini sembravano piangere in musica,

 

e i vecchi del campo narravano misteriose leggende.

 

L’hanno vista fare l’amore sulla terra nuda

 

parlare agli animali

 

sfogliare i petali d’un fiore

 

giocare prendendo per mano i bambini del campo.

 

Lei leggeva il destino

 

vedeva l’anima riflessa negli occhi

 

poi in silenzio

 

riprendeva il suo cammino.

 

È una ROM figlia del vento

 

la sua strada è lunga e faticosa

 

ma è libera e felice di essere quel che è:

 

la vita è andare verso dove non sai.

 

 

 

BAMBINO SEMPRE

 

Mi hai chiuso gli occhi

 

che avevo avuto in dono

 

per farne pianto

 

ai confini dell’aurora.

 

S’è fatta sera

 

senza ch’io vedessi giorno

 

incatenato al limbo

 

e nudo di carezze.

 

Ti ho reso il cuore

 

che non ha mai ricevuto amore

 

sfogliando petali

 

agli angoli del sogno.

 

Non più domani

 

per noi che abbiamo ali

 

recise in volo

 

verso il paradiso.

 

Pensami stella,

 

stanotte veglierò in silenzio,

 

bambino sempre

 

per mano del destino.

 

 

L’ANGELO NERO

 

L’angelo nero è tornato

 

a bussare alla mia porta.

 

È entrato

 

senza che me ne accorgessi.

 

Nel silenzio assoluto

 

dei suoi passi inesistenti,

 

mi avvolge nel suo manto

 

fatto di fumo e di tenebre.

 

Muta creatura

 

della notte più buia,

 

mi hai preso

 

senza che un lamento

 

venisse fuori dalle mie labbra gelide,

 

bianche come la cera.

 

Ora sono anch’io una creatura della notte

 

una sorta di vampiro

 

assetato di vita, assuefatto di morte,

 

faccio parte del tuo mondo allucinante.

 

Voglio solo fuggire via, nell’oscurità,

 

spiegare le mie ali di pipistrello

 

e volare lontano

 

nella notte che adesso sento d’amare.

 

Fuori il fiume sta scorrendo,

 

dentro il fuoco non si spegne

 

mai un momento,

 

ed io come ti sento, io ti sento!

 

E tu, angelo nero,

 

ormai vivi nell’oscurità della mia anima

 

come una candela accesa

 

che va spegnendosi lentamente

 

ma che non si consuma.

 

 

 

 

BIMBA

 

Quella notte,

 

avvolta in una nuvola calda,

 

una pallida luce nei tuoi occhi

 

sussurrava mille parole,

 

nascondeva mille segreti.

 

Ti guardavo,

 

ascoltavo il tuo respiro,

 

sentivo i tuoi pensieri scivolare nel regno delle ombre.

 

Avrei voluto seguirti anche lì

 

per proteggerti nel sonno,

 

tenerti per mano,

 

stringerti,

 

ascoltare battere il tuo cuore.

 

Ma sono rimasto immobile a guardare il tuo viso.

 

Angelo che socchiudi gli occhi,

 

nell’istante in cui abbassi le palpebre,

 

porta nei tuoi sogni

 

il mio ultimo sorriso per te.

 

Il tuo viso

 

si distendeva dolce come non mai

 

mentre la mia mano scivolava leggera

 

donandoti sulla guancia l’ultima carezza.

 

Dormi bimba mia, ti sussurravo piano

 

per non svegliarti,

 

e vicino a te provavo a chiudere gli occhi anch’io

 

come fossi di colpo tornato bambino nella culla,

 

e insieme attendevamo la nuova alba

 

mentre nel soffitto, anche quella notte,

 

brillavano miriadi di stelle.

 

 

 

MIA DOLCE REGINA

 

Non avrai mai più il suo sorriso

 

immobile è l’immagine nei tuoi occhi,

 

il regista ha chiuso il sipario

 

straziante fine di una lunga sofferenza.

 

Mia dolce regina, di questo teatro

 

ascolta gli applausi della platea,

 

il sentito ringraziamento

 

per un’esibizione mai stata così vera.

 

Ora che sei più leggera dell’aria,

 

non aver paura di volare,

 

perché non potrai mai più cadere.

 

Lentamente abbandoni te stessa

 

e, in un istante lungo una vita,

 

rivedi tutto ciò che è stato

 

e che mai più sarà.

 

Invano tengo stretta la tua mano

 

mentre le lacrime mi solcano il viso,

 

tu sei già in paradiso.

 

Sento ogni giorno la tua mancanza,

 

ma mi basta alzare gli occhi al cielo

 

e guardare il sole,

 

ogni suo raggio mi porta il tuo sorriso.

 

 

 

 

SILENZI

 

Suonano rintocchi nella mia mente

 

fragili oasi di rimembranze lontane

 

sentieri e odori, ombre e querceti

 

divine corse infantili.

 

Di te tutto mi parla,

 

sei come il vento

 

l’aria

 

il dolce canto d’uno scricciolo,

 

e dipingo la mia anima di ricordi,

 

il mio pensiero cerca improbabili fughe.

 

L’eco dei tuoi silenzi

 

annebbia ogni attimo, ogni vuoto.

 

Dove sei impalpabile luce

 

che perenne mi perdo a cercar?

 

 

 

 

 

SULLE ALI DELLA FANTASIA

 

Per tutta la vita ti ho cercata

 

graziosa adolescente io ti ho sognata

 

e nel mio cuor già dipinti

 

v’erano i tuoi quadri pieni di colori e fantasia.

 

E un bel giorno di primavera

 

la tua voce lontana l’ho sentita vicina

 

mia dolce principessina,

 

finalmente hai trovato il tuo amato principe.

 

Nel tuo mondo fantastico sono entrato con te

 

rivivendo le fiabe nei tuoi quadri dipinte

 

rifugiati insieme come creature senza tempo.

 

Abbiamo viaggiato nel cielo ricco di luci e colori

 

accarezzati dal sole e cullati dal vento,

 

abbiamo cavalcato vicini le ali della fantasia.

 

In quel mondo bambino tutto brillava

 

ed era trasparente, ed era luminoso

 

e come nelle fiabe tutto era possibile.

 

 

 

 

QUANDO I NOSTRI SOGNI DIVENTERANNO AMORE

 

Mi lascerò trascinare dal vento

 

ascoltando la dolce melodia dei gabbiani,

 

diventerò leggero come una piuma

 

e navigando tra oceani di nuvole, ti ricorderò.

 

Con la punta delle dita sfiorerò le stelle,

 

e mi nutrirò della loro luce,

 

danzando tra magiche aurore.

 

Volerò come un angelo immortale

 

e a cavallo di una stella cometa,

 

giungerò sino in fondo al tuo cuore.

 

Sfiorando leggermente le nostre labbra,

 

ci guarderemo ancora una volta,

 

ed esalando il nostro ultimo respiro,

 

ci baceremo all’infinito

 

trasformandoci in polvere di stelle.

 

E ci rivedremo in un’altra vita,

 

quando saremo tutti e due sogni

 

o quando i nostri sogni diventeranno amore.

 

 

 

 

 

OBLIO DI SENTIMENTI

 

Fra le tenebre di questo mondo

 

stolti e scellerati ansimano

 

per il dominio di se stessi

 

e la soppressione degli altri.

 

Ma in quest’oceano di maledetti,

 

magnifica la natura

 

mi ha concesso l’immensità dei tempi,

 

l’infinita profondità degli spazi,

 

la tua divina esistenza

 

che sola mi aggrada e mi conforta

 

in quest’oblio di sentimenti.

 

 

 

 

IL RISVEGLIO

 

Tu che sei nato in estate

 

quando la terra è gravida

 

e l’aria è satura di fragranze e sapori,

 

di colori vivi e di luce accecante,

 

forse non ami l’autunno.

 

Gli uccelli migrano lontano

 

lasciando la terra desolata

 

a ricordare nel sopraggiunto silenzio

 

l’eco delle loro grida nel cielo.

 

La luce del sole è ormai timida nel comparire,

 

le nuvole nella notte trasformano la luna piena

 

in un riflesso opaco.

 

Ombre scure hanno preso il posto delle case

 

ed hanno contorni indefiniti e tremanti.

 

L’anima del mondo si è incarnata altrove

 

e tu ne erediti le spoglie.

 

Eppure,

 

se riuscirai a soffermarti per un istante fra i rami spogli,

 

ad ascoltare il vento che spazza via le foglie morte,

 

a lasciarti accarezzare dalla pioggia sottile che rigenera i solchi,

 

ad amare questa terra nuda e fredda

 

attraverso le tenebre che l’avvolgono,

 

ti accorgeresti di un respiro sommesso,

 

del battito lieve di un cuore che sta riposando.

 

E se saprai attendere paziente il risveglio,

 

allora, avrai per te una terra vergine da fecondare

 

e fiori e frutti riempiranno le tue mani,

 

e nei tuoi occhi brillerà la luce

 

d’un giorno senza tramonto.

 

E udirai nuovi sussurri, nuove grida che avranno il tuo nome

 

e stormi di uccelli che si libereranno per te soltanto

 

imbastendo danze d’amore

 

sulle note di una musica scritta per te

 

dalle acque dei ruscelli.

 

Ed il vento ti porterà in un viaggio senza fine

 

accarezzando il tuo sorriso perché non svanisca,

 

il sole penetrerà le tue membra

 

per infondere calore e forza

 

e sarai stordito di profumi inebrianti

 

che rapiranno i tuoi sensi fino a confonderli.

 

Allora,

 

e solo allora, mi incontrerai di nuovo

 

e guardandomi, non mi riconoscerai.

 

 

 

 

 

IL TUO ANGELO BAMBINO

 

In segreto,

 

un amore ti dorme accanto,

 

muto e invisibile,

 

ha soltanto occhi per guardarti

 

e mani che non possono stringerti.

 

Della sua malinconia non ti accorgi

 

quando lo guardi e non lo vedi,

 

quando lo accarezzi e non lo senti.

 

Come un fantasmino si aggira per la stanza

 

urla a volte per destarti dal sonno ma invano

 

e poi di nuovo tace

 

vinto dalla tua indifferenza

 

più solo e più piccolo di prima.

 

 

 

 

L’ABISSO

 

Ho spiato l’abisso dell’anima mia

 

spalancando gli occhi incredulo

 

a quel buio senza fine, senza luce.

 

Ho teso la mano

 

a toccare il fondo

 

dove frammenti vagano

 

in cerca di pace.

 

Un dolore profondo a fiotti

 

come magma infuocato

 

travolge ogni cosa.

 

Ferite aperte

 

mai rimarginate

 

ormai senza più riposo

 

anelano carezze.

 

I miei occhi impotenti

 

ora scrutano tutto il mio dolore,

 

nel buio piangono lacrime

 

che brillano di sole.

 

 

 

SPREMI IL MIO SUCCO

 

Spremi il mio succo ragazza!

 

spremi tutta la vigna

 

e beviamo sino ad esserne ebbri

 

che anch’io sono pazzo di te

 

e di nuovo ardo di febbre.

 

Spremine ancora e ancora

 

e riempi la coppa proibita

 

per brindare sorella all’aurora

 

splendida amante della vita.

 

 

 

 

 

ERA UN GIOCO

 

Le rincorse sui prati

 

quell’acchiapparci

 

per finire lottando fra l’erba

 

… era un gioco.

 

Era un gioco

 

il mio corpo sul tuo

 

e trattenerti vinta per terra,

 

posarti la testa sul seno

 

aspettando che il respiro

 

tornasse leggero

 

… era un gioco.

 

Era un gioco

 

la prigionia contro i sassi

 

del muretto tra i rovi,

 

il tuo viso offerto nel sole

 

la dolce schermaglia dei fianchi

 

… era un gioco.

 

Ma quel gesto in più,

 

la mia incontrollata reazione,

 

la follia che ci prese

 

e che ci sconvolse la vita,

 

era un gioco dal quale

 

non abbiamo più fatto ritorno.

 

 

 

 

 

MEDUSA

 

Chioma di Medusa

 

ha i suoi tentacoli stesi sul letto.

 

Salice piangente

 

sul colle d’illusioni,

 

la luce dell’alba l’accende

 

fonde le fronde col cielo infuocato,

 

disegna l’ombra e il profilo

 

amaro e sommesso … dolce e sottile …

 

… fiero e slanciato.

 

Occhi penetranti come fari di luce,

 

inestinguibili fonti di vita,

 

pozzi profondi, impercepibile essenza

 

dolce presagio di un amaro futuro

 

prova incombente di vita e di morte.

 

 

 

 

 

ANIME GITANE

 

Abitano una terra di confine

 

piccole Charlot in blue jeans,

 

crisalidi incantate,

 

figlie di Veneri avare e rinnegate.

 

Hanno sguardi intensi e fuggevoli

 

e corpi sprofondati nei maglioni,

 

a proteggere anime gitane senza casa.

 

Vivono il sogno sospeso

 

di adolescenti cresciute

 

e di donne mai trovate,

 

cercando in un volto lo specchio

 

che rifletta quella parte di esse perduta.

 

 

 

 

 

STELLA DEL MATTINO

 

Bentornata stella del mattino

 

ancora dai miei occhi sgorga pianto:

 

che giorno è questo in cui tu dormi ignara,

 

mentre io già veglio sui miei fantasmi antichi?

 

Ti sveglierà l’odore del bosco

 

e il lento dischiudersi di altri baci.

 

Avrai suoni e colori anche per oggi.

 

Io, soltanto la tristezza.

 

 

 

 

ASCOLTA

 

Per quel che vale anche tu ascolta

 

non riesco a sbiadire il volto

 

disegnato nella mappa della memoria,

 

contorno scuro

 

chioma di inchiostro e di seta.

 

La tua voce rauca richiama

 

lacrime come di rime sparse.

 

E ti posseggo solo

 

con parole che ripeto

 

magia di nenia o canto,

 

voce che si incunea

 

fra i lacci della vita,

 

su ciglia chiuse.

 

Dimmi: sei una donna o una strega?

 

le tue labbra dolce pretesto,

 

nei tuoi occhi la magia:

 

una bugia!

 

La tua malizia mi accende

 

il corpo mi rendi

 

e l’anima vendi.

 

Io ti seguirò

 

annientandomi,

 

fino a frantumarmi nella tua follia.

 

 

 

 

 

PASSIONI FRA DONNE

 

Danziamo molto vicine

 

ma non ci tocchiamo,

 

una specie di intimità sessuale ben presto

 

ci costringe a usare le mani.

 

La notte è calata su noi

 

ma la musica ci riempie di energia,

 

è eccitante spingerti su me,

 

adoro sentirti mia.

 

Bere dalla tua bocca

 

ha un significato purificante per la mia arte,

 

è così inebriante il tuo odore,

 

sai che hai la voce sensuale.

 

Sei divina, così aggressivamente tenera,

 

farò di tutto per raggiungerti in quella sfera magica

 

delle nostre menti che non sanno spegnersi

 

nemmeno quando il corpo sa di anima.

 

Perdonami se non ho parole

 

per dirti quanto ci tengo alla luce

 

che vedo nei tuoi occhi,

 

siamo in pochi

 

ad averla ancora.

 

Stringimi, baciami, mordimi, abbracciami!

 

Non voglio restare sola

 

ora che tu con un sorriso

 

cacci via ogni malinconia.

 

Non posso che cercare

 

di fare del tutto per renderti mia

 

perché sei splendida, splendida, splendida

 

così come sei.

 

 

 

 

 

L’ANTIMATERIA DEL CUORE

 

La persistenza del cuore,

 

vorrei che questa cenere

 

ti desse il segno che tu non sai.

 

Ali di farfalla nella notte,

 

il viaggio senza fine,

 

il tuo profondo desiderio della terra australe.

 

Siamo noi il confine, l’antinomia,

 

il duro esserci per inerzia.

 

La materia opaca del corpo

 

per desolare il desiderio,

 

solo gli occhi con un cenno vanno oltre.

 

E mi dicono gli insonni spiriti dei luoghi siderali

 

che nelle lacrime di Orione c’è l’amore ignoto

 

come quando sul pontile ti chiesi un bacio che mi desti

 

ma te lo vidi poi chiudere in cassaforte

 

come un gioiello di antenati.

 

Ma sconosco la chiave

 

che gira a vuoto per questo silenzio di galassie

 

sparse nel cosmo vagabonde,

 

sento che l’antimateria del cuore

 

è labile cometa

 

visibile nella sua traccia di contigua assenza.

 

 

 

 

PAGLIACCETTO AZZURRO

 

Leggevo tempo fa

 

le tue poesie,

 

piccolo arcobaleno ribelle,

 

scheggia di sorriso

 

e di follia,

 

fra la stanchezza generale

 

che invade la gente.

 

E mentre sfogliavo le tue pagine,

 

ti vedevo

 

pagliaccetto azzurro

 

saltellare fra la rugiada,

 

nei fiori giocare,

 

coi fili d’erba

 

burlati dal sole,

 

amare la notte,

 

e poi morire

 

in un’autostrada di parole.

 

Quanta tenerezza mi susciti!

 

il mio mondo alla tua età

 

era così simile.

 

Vorrei dirti pagliaccetto azzurro

 

non smettere mai di sognare

 

ma non sarebbe giusto, ti farei del male.

 

Siamo rimasti entrambi su una giostra di colori

 

forse non riusciremo mai ad imparare a vivere.

 

 

 

 

AL DI LÀ DELLA SIEPE

 

Odore di foglie di menta

 

bagnate in una notte estiva

 

circondate dalle lucciole

 

nel giardino della mia infanzia.

 

Ascolto,

 

a testa in giù come un acrobata,

 

l’eco delle tue parole

 

incontrare i miei pensieri,

 

sottile momento di comunione

 

al di là della siepe.

 

 

 

 

IL MIO DELIRIO

 

Cosa vedo,

 

dai miei occhi trapela solo pensiero,

 

solo erosione che non mi appartiene,

 

amore che sfugge al mio delirio,

 

passione che arde

 

nell’oscurità dei miei giorni.

 

Vedo potenti fiamme bruciare una casa

 

eppure non è per me

 

il chiarore che giunge alla mia vista,

 

devo lasciare che bruci sola

 

senza poterla salvare,

 

però dentro di me un vortice di sensazioni

 

scuote la mia mente.

 

Il mio corpo vibra in una danza impazzita,

 

si agita,

 

è rovente,

 

vuole amore,

 

ma dove cerco, non trovo nulla,

 

solo gelido inverno.

 

Mi trapassa,

 

mi gira intorno,

 

mi lascia ferite sul corpo,

 

mi dà dolore.

 

Ora un fuoco riscalda la mia pelle,

 

toglie l’antica solitudine,

 

eccita i miei sensi,

 

dà pienezza alla mia anima

 

e mi libera da lei.

 

 

 

MAGICA NOTTE

 

Mi giungi nell’anima, magica notte!

 

che hai ridato il sorriso al mio volto,

 

uno sguardo ai miei occhi.

 

Ho incontrato i tuoi, unici

 

perfette lagune di sogni

 

e tutto il mio corpo vibra

 

attendendo di immergersi ancora in essi.

 

E respirare la tua aria

 

assaporare la tua vita

 

sarebbe il sogno a cui la mia anima

 

vorrebbe aggrapparsi

 

per far divenire tutto

 

calda estasi.

 

Tu magica nella tua perfezione di donna,

 

nelle tue dolci labbra

 

sulle quali vorrei morire

 

lasciando i miei sensi in delirio.

 

Tu o notte,

 

ipnotica visione

 

che non voglio dimenticare

 

lasciami il tuo ricordo,

 

un tuo momento.

 

Tenderò le braccia a te

 

anima che delicatamente ti scopri a me.

 

Ti toccherò con la mia,

 

ti avvolgerò con il mio amore,

 

ti darò pressante passione,

 

ti offrirò tutto me stesso,

 

il mio delirio per te.

 

 

 

 

AQUILA DALLE GRANDI ALI

 

Salti per il mondo

 

e in cima in un attimo ti ritrovi,

 

da quell’altezza sei tu la padrona,

 

niente potrà più fermarti.

 

Aquila dalle grandi ali

 

ti stagli di profilo,

 

i tuoi occhi

 

puntano la preda.

 

Cosa ricordi di te stessa?

 

forse il fiore che ti generò,

 

il respiro del fuoco,

 

l’aria aperta.

 

A chi somiglia?

 

della natura sei complice

 

bocca bellissima.

 

Non avrò timori,

 

il sentiero è dritto

 

e la ghiaia bianca.

 

L’erba che raccoglierai

 

sul ciglio ti basterà

 

e gli anni futuri

 

ti vedranno fiera

 

in cima alla montagna.

 

Ed io saprò dove cercarti:

 

nel tuo nido.

 

 

 

 

ESTASI LUNARE

 

Vedo l’inviolabile notte implorare,

 

mi muoverò lentamente in un arido silenzio

 

come un gatto protetto dalla sua torpidezza,

 

cullerò un’infinità di rumori e di fumo

 

e a stento la notte ritroverà la sua pace.

 

Vedo un lucente angelo esanime,

 

infido torcerò gemme colorate

 

e vagherò nudo, tedioso e inerte

 

tra i docili fremiti degli antri di donna

 

e a stento l’angelo ritroverà la sua forza.

 

Vedo un’incantevole regina piangere,

 

rifiorirò tra le grinfie dell’amore e della vita

 

nel perduto e meraviglioso oblio rosso

 

sussurrando poesie tra le spire d’una stella

 

e a stento la regina ritroverà il suo sorriso.

 

Vedo una bambina perdere la sua infanzia,

 

insidierò ancora l’umidità delle tentazioni,

 

eviterò l’abbaglio dei cristalli

 

cancellando anche il sapore della nebbia

 

e a stento la bambina ritroverà il suo gioco.

 

Ma nel solenne splendore delle mie visioni

 

della notte, dell’angelo, della regina

 

e persino dell’innocente bambina,

 

attenuerò il lacerante taglio dei ricordi

 

e danzerò nell’estasi lunare.

 

 

 

 

ADOLESCENTE LUNA

 

Erano brevi attimi di buio

 

interrotti da labbra di neve,

 

addolciti da profumi d’incenso

 

e deliziose manie.

 

Era l’estate appagante

 

nella sua rossa solitudine

 

assordante di rumori al sapore di grano.

 

Ti adoravo mia adolescente luna,

 

disegnandoti sul mio diario segreto

 

illuminavi i miei giorni confusi, le notturne paure,

 

e le memorie ancora acerbe prendevano forza

 

in una danza eclettica di ondeggianti stelle.

 

Eri mia, lunghi fianchi sinuosi

 

distesi su letti d’argento,

 

e lì riappariva il mare nella sua immensa distesa.

 

Oggi che i miei giorni si consumano di vecchiaia,

 

sei ancora mia

 

attraverso rughe di arrugginite memorie.

 

 

 

 

 

CREATURE SAFFICHE

 

Svelatemi

 

o Numi del cielo

 

o amabile Venere

 

o chiunque abbia creato l’Eros,

 

svelatemi vi scongiuro

 

l’arcano mistero di costoro:

 

son giovanissime dee puttane

 

e dolci figlie di Saffo?

 

Ninfette in amore,

 

amabili creature saffiche

 

con i loro giovani corpi nudi

 

attorcigliati e avvinghiati uno sull’altro

 

fino a formarne un solo.

 

Anima nell’anima

 

respiro nel respiro

 

fiamme di paradiso.

 

Acerbi potentissimi sensi

 

scambiatevi lancinanti effusioni,

 

esplodete di malizia e innocenza.

 

Brividi, sussulti e fremiti

 

son lugubri rintocchi di messa funebre,

 

orgasmi, orgasmi e orgasmi

 

rosari sussurrati nel silenzio della chiesa.

 

Grazie potente Zeus

 

grazie divinità tutte dell’Olimpo

 

per avermi donato occhi

 

che possono ammirare

 

così celestiale visione.

 

Perdonami Dio della bontà e della purezza

 

ma io non so rinunciare

 

alla tentazione di quei corpi.

 

 

 

 

 

CHE BELLA SEI

 

Scorre la pioggia su di noi,

 

che bella sei!

 

sembri un cucciolo

 

infreddolito, stretto nelle tue spalle.

 

È bello il rumore

 

dell’acqua sull’asfalto tra pozzanghere di specchi

 

e aghi di pioggia che cadono giù.

 

È dolce sentire

 

il tuo corpo umido

 

contro il mio, bere dalle tue labbra.

 

Vedere i tuoi capelli gocciolare

 

arruffati selvaggiamente

 

stupendi nel loro disordine.

 

Che bella sei!

 

troppo bella per essere tangibile,

 

per essere mia.

 

Sento che sei parte di un sogno

 

ed ho paura di svegliarmi,

 

vorrei morire dormendo

 

con te al mio fianco.

 

 

 

 

 

IL RESPIRO LENTO DELLA FINE

 

E odo soltanto

 

l’impercettibile canto delle farfalle

 

quelle ebbre di vita nel loro ultimo giorno.

 

Il respiro lento della fine

 

ancor più mi strazia le carni,

 

mi indica il sentiero.

 

Una spirale di nebbia mi avvolge,

 

i rovi fermano i miei passi,

 

in lontananza un pallido sole

 

allunga le ombre dei cipressi

 

che come antichi guardiani scandiscono il mio tempo

 

con le loro lance sugli scudi di bronzo.

 

 

 

 

 

L’EFEBO NELL’ANTICA GRECIA

 

Che splendor mio grazioso giovinetto

 

quasi femmineo puro tutto ben curato

 

sii pronto su è giunta l’ora

 

d’esser da viril uom sodomizzato.

 

Oh si è bello è natural

 

e l’accoppiamento sai è gran giusta cosa

 

eroe e signor diman anche tu sarai

 

assai degno di fedele sposa.

 

Che aperte menti pensatrici

 

avean quei greci valorosi!

 

oggi mamma mia che tabù sarebbe

 

s’aprirebber celle per ricchi e per morosi.

 

Come corri in fretta pazza civiltà

 

c’è internét altro che lontan caverne

 

siam del progresso già tutti robots

 

e al natural piacer addio senza più goderne.

 

Così Sant’Uomini col mal dentro Sé stessi

 

san trovarlo ovunque persin dove non sta

 

e ciò che con durezza sono pronti a condannar

 

in segreto è praticato in Lor Sacra Autorità.

 

 

 

 

IO L’HO VISTA

 

Io l’ho vista

 

quand’ero ancora adolescente e mi sentivo solo

 

in un freddo pomeriggio d’inverno,

 

nel silenzio,

 

in quella grotta buia coperta da fronde.

 

L’ho vista

 

nella sua nudità d’angelo

 

librarsi in volo con le sue ali dorate,

 

mi ha parlato

 

con la sua voce dolce e suadente.

 

L’ho vista, lo giuro!

 

anche se nessuno mi vuol credere,

 

mi ha detto di non svelare il suo segreto

 

che da allora è anche il mio.

 

Nella notte delle stelle cadenti

 

sono tornato nel punto dove mi è apparsa

 

ma non ho veduto più nulla

 

silenzio assoluto anche del vento,

 

ma una luce brillante si è accesa

 

subito dopo che sono andato via.

 

Da allora la Madonna non ha mai smesso

 

di comunicare con me proteggendomi e guidandomi.

 

 

 

 

IL CLOWN

 

Se in questa vita proprio devo fingere

 

voglio essere un clown

 

un trasformista multicolore

 

che diverte il mondo scherzando di sé.

 

Voglio essere l’arcano numero zero,

 

l’amico dei bambini,

 

il nano di corte, il giullare, il folletto.

 

Voglio essere il folle saltimbanco

 

che entra in scena,

 

che rompe gli schemi,

 

che fa ridere i cuori,

 

che sa indossare sulla guancia dipinta

 

una lacrima vera camuffata per finta.

 

Sarò triste come Pierrot

 

o forse allegro come Arlecchino,

 

non so neanch’io quello che diventerò.

 

 

 

 

 

LETTERA AD UN AMORE LONTANO

 

Messina 16-12-1989

 

È quasi Natale ormai ma non è più festa per me,

 

ogni giorno è uguale all’altro.

 

Io lo so che in paradiso

 

non si può vivere per sempre,

 

ma nei tuoi occhi l’infinito

 

libera la mia mente,

 

se potessi io ti raggiungerei dovunque.

 

Sei tu

 

che mi fai sognare, ridere, impazzire.

 

Sei tu

 

che mi dai il coraggio di ricominciare.

 

Con te

 

ci sarà ancora tutto da scoprire

 

ed io so già

 

che la mia vita cambierà colore.

 

Ma tutto ormai appartiene al passato

 

e sembra non avere futuro.

 

Oggi cammino da solo per le strade ricche di addobbi natalizi

 

straniero anche per me stesso con la sola compagnia di lacrime che sanno di sale,

 

non so dove vado né se sto vivendo.

 

Mi sono guardato riflesso allo specchio

 

la barba lunga, i capelli arruffati

 

io sono cambiato sai

 

ma si è abbruttito pure il tempo, non si vede più il sole.

 

Quando l’aria si trasforma all’improvviso

 

e la tramontana sale,

 

è il mio cuore che mi chiede dove sei

 

e proprio in quei momenti tristi,

 

mi rendo conto che lunghe distanze

 

ormai mi separano da te.

 

Una sottile crescente malinconia

 

allora mi prende sempre più

 

e sembra che mi arrivi da lontano il calore della tua pelle,

 

mi par di sentire il suono della tua voce,

 

il ritmo regolare dei tuoi respiri sul mio petto.

 

E mi lascio andare così

 

alla dolce melodia di questi pensieri

 

e dentro di me fra mille paure

 

conservo ancora il tuo fuoco.

 

Giuliana, io darei qualunque cosa per rivederti un solo istante,

 

mi chiedo se è lo stesso anche per te.

 

 

Con amore, tuo Claudio

 

 

 

 

 

SOLO NEL CIMITERO DEI VIVENTI

 

Solo,

 

insieme a mitiche creature,

 

mi cullo su un filo di ragnatela.

 

Navigo nel mondo

 

su di una zattera fatta di sogni,

 

le mie vele idee immorali,

 

i miei remi i miei peccati.

 

Solo,

 

con arti di plastica

 

che sfiorano il mio corpo,

 

lo scuotono in convulsi balli tribali,

 

in un vortice nero perdo me stesso

 

per ritrovarmi vuoto

 

senz’anima.

 

Solo,

 

sotto la pallida luce

 

di una sterile luna invernale,

 

vago per il cimitero dei viventi

 

che chiamo casa.

 

Solo,

 

attraverso la linea di confine,

 

unico superstite di un’era di scintille e ferro,

 

passo al di là dello specchio.

 

Le mie orme si confondono con quelle del mio clone

 

nell’arido deserto dell’Ade.

 

 

 

 

ACROBATI

 

Emozioni sul trapezio della vita,

 

equilibri instabili di cuori in bilico,

 

questo è il nostro destino,

 

essere acrobati

 

rappresentare ogni giorno noi stessi

 

ora guitti, ora attori dai mille volti,

 

capaci sempre di carpire l’ultimo applauso,

 

sempre pronti a giocare con il fato.

 

Nella notte offriremo lo spettacolo più bello,

 

saliremo sul ciglio della luna,

 

saremo giocolieri delle stelle,

 

cammineremo in punta di piedi nei sogni dei bambini

 

e strapperemo loro lo stupore più innocente,

 

salteremo di cuore in cuore.

 

Questa è la nostra forza,

 

questa è la nostra scelta:

 

essere equilibristi di noi stessi.

 

 

 

 

 

I SEGRETI DELLA LUNA

 

Per ore lunghe e lievi

 

ho scrutato i segreti della luna,

 

e senza accorgermi,

 

una notte dietro l’altra,

 

ho cercato una forma di vita

 

sul suo pallido volto

 

per colmare questo purpureo calice

 

ancor vuoto.

 

È vero,

 

eterni sentimenti ci uniscono,

 

e come lupo in fuga,

 

orfano d’eteree rimembranze,

 

tendo le mani e la ricerca

 

nel mezzo dei suoi argentei fili,

 

chioma di madre celeste.

 

Non sogni o fatue visioni,

 

non amori o delitti,

 

non tormento o quiete

 

a cui abbandonarsi

 

finché lei resta lassù

 

con il capo chino

 

sulle mie mani aperte.

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in foto: l’autore Claudio Cisco da bambino

 

 

Poesie (Claudio Cisco)

 

NISIDA

Sconosciuta Nisida, sacerdotessa del male

misteriosa, imprendibile, diabolicamente angelica

dimmi ti prego: chi sei?

Fai parte del mio mondo mortale

o ti ha partorito la mia immaginazione?

Sei una creatura di carne e ossa

oppure un’entità figlia di magia e misteri?

Ogni notte ed alla stessa ora

puntuale mi rapisci col tuo campo magnetico

invisibile alone che dà piacere e uccide

e mi traforma in alieno uguale a te

estrema lotta fra carne e spirito

drammatico calvario di orgasmi e morte.

Ti scongiuro Nisida

svelami il tuo complicatissimo enigma

e rivelami se è donna o fantasma

colei che di notte fa l’amore con me.

Amabile folle creatura

da quale mondo vieni?

che poteri hai?

che specie di demone sei? Mi leggi la mente, oltrepassi i pensieri.

Non ho paura di te, sai: tu sei tutto quello che io sono

ma le conseguenze di questa tua presenza in me

non sono in grado di controllarle, potrebbero essere devastanti.

Io so da sempre

di non essere normale

legato da un cordone ombelicale alla solitudine

perso nei labirinti dell’angoscia

sospeso tra le forze del bene e quelle del male

aggrappato solo all’arte ed alla sua creatività.

Ma tu inafferrabile Nisida disegni il mio destino

sei una lama affondata nella mia carne che non trasmette dolore

una voce lunare che mi guida la mente come un sesto senso

ed hai disintegrato ogni equilibrio

ormai sono folle più dei folli.

E’ tempo di portarmi con te, seducente Nisida

questo mondo non è più per me

la mia anima è troppo inquieta e gitana per rimanere ancora,

ho conosciuto solo tenebre

ora voglio entrare nella luce.

 

 

LACRIME D’ARDESIA

Una bruna landa

Trafitta da aghi verde-spento.

Sopra dense nubi pendono basse;

immote, opprimenti con il loro grigiore.

Nella plumbea ombra del mio albero

Dalle foglie color del giaietto

Seggo.

Sondo l’orizzonte;

custodisce la nera voragine.

Sol essa m’affascina.

Sotto le palpebre, ribolle d’enigmi di vermiglio.

Del suo vuoto oscuro, si empie l’anima.

Ma è lontana.

-il mio tronco è riarso solo alla base –

Sebbene pur sempre incombente.

I miei lineamenti,

-raggelati dal dubbio-

Le mie membra,

-contratte dalla costernazione-

Attendono il vento;

poiché i suoi dardi

devasteranno l’immobilità

e libereranno il fulgore,

il sole.

Tutto brillerà

Percosso da riverberi;

-immaginifiche distrazioni-

M’accecheranno.

-Come tutte le altre volte.-

Frattanto, piango lacrime d’ardesia.

 

 

 

 

 

ESSENZA DI TE

Dell’iridi tue

Ho tinto un lago,

e dal fondo delle sue acque

respirando di te l’essenza,

ho contemplato

i fulgori dell’oscura notte.

Li ho sussurrati al mattino,

con la pelle immersa

nel sole

ed i sensi adagiati

nell’ombra dell’animo tuo,

come mai avrei potuto

se solo.

Ora,

come io artista e tu estro,

carpisci note alla spuma e alla rugiada

ed al vento

la nostra poesia

canta!

 

 

 

 

MANTO DI TENEBRA

Ama il mare

L’immane sua armonia

Frangersi in spuma

Nella maestosità

della scogliera

Ch’ama a sua volta

La solenne sua immobilità

Dissolversi in riverbero

Nelle danze eteree

Dell’acqua.

Così

Ella ama la sua ignea luce

Avvolta dal manto di tenebra di lui,

Egli ama la sua oscurità

Stracciata dai guizzi di fulgore di lei,

Ciascuno nell’iridi dell’altro.

 

 

 

 

OSCURO ENIGMA

Avvolto l’istinto

da un manto di mestizia

-imprimendo nella neve orme d’onice-

respiro un’arida ibernazione

fra montagne canute.

Squassato il pensiero

da fitte schiere

di lividi tassi e spogli gelsi,

vano m’arranco

per una forra ove gemere

all’insaputa della selva.

Incatenati i sensi

da esperidi coriacee

a riverberi sparuti d’un fiume sibilante,

madido di foschia

mi struggo ammirando nel vespro

l’oscuro enigma

-effimero-

costellato di fulgori criptici.

Ma nell’unica lacrima

serbo il ricordo

d’un ibis tinta

d’ostro giulivo

che con sguardo di lince

sonda ogni orizzonte,

carpendo della meraviglia la purezza.

Così dell’essenza

-che anche solo a percepire

spesso s’anela-

ella rifulge.

 

 

 

 

IMMENSITA’ INDEFINITE

Volle il caso che quella sera

Una nube d’ovatta azzurra evaporasse

Da immensità indefinite

A titillare soave il roseo cielo.

Della sua serenità quel gigante

Inondava il tutto

Che al di sotto gli voltava le spalle,

Riarso dalla sua decadenza.

Mirabile spettacolo

Nei meandri più foschi dell’essere mio

S’insinuò;

Violento

Fra le effusioni dell’istinto ed i bagliori dell’emozione

Cercò la ragione,

Volle destarla.

Così io compresi la mia beatitudine,

Scovandola

E poi rimirandola

In una fausta sera estiva.

 

 

 

 

INCANDESCENTE

Ad un arido aggallato

S’abbandona.

Iris vividi o giunchi fausti

-Acidi come uno spillo di luce irriverente

Diritto negli occhi-

Talvolta l’accarezzano.

Del silenzio non teme più

Gli echi,

dell’oscurità non agogna più

le ombre.

Giunge così all’orizzonte,

rincorrendo il tramonto;

si getta

divampando incandescente

in un’eruzione di fulgore.

Grida la commozione,

Piange la gioia,

Fa l’amore con la morte.

– S’estingue nel mare

Che di vita

Vibra.-

 

 

 

 

SORDIDI LAMENTI

Sotto betulle

torbide lacrime

sordidi lamenti

d’un pavone a cui

gli sfolgorii delle piume

l’impervia selva

eclissa.

 

 

 

 

FRANTUMAZIONE

Della burrasca di vermiglio

E delle sue magnifiche folgori

Solo indugiano esauste perle

Sul lacero perpetuino.

Segue l’eliotropio

Il fulgido splendore;

ma non il fiammante Apollo,

non il Sole.

Si schiude il mirabile fiore

Alla nera ombra;

non all’estatica Selene,

non alla Luna.

Allora nella placida aurora.

(“Frantumata in lacrime l’illusione, nel silenzio della solitudine sento forte la tua presenza;

Il mio demone mi ha lanciato contro un boomerang ma la mia fede è cresciuta.

So che piangere significa ritrovarsi, glorificare Dio non più il mio io.

Guardo avanti e scendendo nelle acque battesimali

rinasco in Cristo Gesù come una sua nuova creatura,

il male appartiene ormai al mio passato:

È cancellato e vinto, frantumato!”).

 

 

 

 

 

ECHI ANCESTRALI

Una radura imperlata

Di luce

Soffonde in echi ancestrali

Di grandine

Un sogno screziato

Di malinconia;

Ciò che è stato

Di consapevolezza

S’inebria.

 

 

 

 

FOGLIAME DI SANGUE

-Fogliame di sangue

Macerato graffia

E spiana lercio sentiero

Entro faggi di pece-

Lì giace abietto

essere scialbo

per le bieche percosse

nei suoi tardivi fremiti.

-Ma scroscerà

Rugiada d’onice

Ed irromperà ogni tinta

vivida nel viluppo dell’ombra.-

Nell’iridi vitree sfolgorio

d’ardesia l’incita al primo

indomito vacillare;

egli correrà allora

reiterando la vita

tra spine di rose

superbe

ruggendo lacrime.

 

 

 

 

 

PULSA…LA VITA

Nei celati orizzonti

Incede gelido il vento

Lontano coi neri nembi.

A fiotti da sprazzi d’azzurro

Floridi imperlano i raggi

d’ambra i prati rinnovati.

Lassi e sparuti solo

gli arbusti straziati e tremanti

ancor pulsano di vita

aspettando

della primavera l’arancio e il vermiglio.

 

 

 

 

 

 

SOLE SPENTO

S’è spento il sole

nell’orizzonte

Vibra il mare e

brilla d’oscurità

com’ogni tuo sguardo.

 

 

 

 

SILENZIO CREPUSCOLARE

Prese l’iridi

Dal silenzio crepuscolare

Nell’essere m’inabisso

Come amanti di fiamma tremanti

Brucianti dinanzi all’oceano

In burrasca.

Così l’avverto

Sole d’onice

Fatua palpitare;

la vita.

 

 

 

 

 

FOLGORI

Ci sono macchie scure, zone d’ombra che anziché scacciare ho alimentato,

Che non riesco ad estirpare mai dal mio io: frutti cattivi d’un albero buono,

Enigmi interiori della mia mente, sempre invasa da concupiscenti tentazioni demoniache,

Carnali follie indecifrabili radicate in me sin dalla nascita:

Perdonami mamma!

Se non son riuscito ad essere ciò che volevi,

Per non aver saputo vivere una vita normale: una falsa libertà mi rendeva schiavo.

Ora che tu non sei più capisco che l’unica ragione della tua vita ero io

Le tue parole scuotono la mia anima

Come folgori nella notte, ho sfigurato la bellezza dell’anima scandalizzando i miei occhi;

Rimane il rimpianto di non averti ascoltata e il doloroso esame d’un passato ingolfato di sbagli.

Ma vi è un’unica grande consolazione dopo la tua morte, segno di vittoria:

L’imbattibile tempio di Satana fatto di lussuriose immagini oscene,

Eretto in segreto a casa mia, ora brucia nel fuoco, umiliato ed impotente,

Ridotto in cenere, trasformato in sporcizia e spazzatura.

 

 

 

VITA SU MORTE

Rosei petali

sparsi

su

riverberi

oro

e porpora

d’un

brillante sole,

laggiù

in una

pozzanghera

di cieco

cemento.

 

 

 

 

 

FOSSI CUPI

Limpide allietava il sole

Rose cremisi d’assurdo splendore

E Zefiro fra petali di mille viole

Danzava coi gigli in spirali di candore.

Ma d’un tratto scese l’ombra

Sui prati rossi.

Nera nube spense ogni ambra

Nel buio di cupi fossi.

Sbiadita ogni tinta

Si staglia unico al di là del monte

Linea cieca e muta

Di morte e dubbio l’orizzonte.

Invasa la terra e ogni umano essere vagante

Da un esercito di demoni in azione

Specializzato ciascuno dei quali e operante

Nel proprio campo di tentazione.

Più forte dai cupi fossi essa si alzerà

Verso chi nel cammin di fede dal peccato sembra distante,

Difficile preda più ambita sarà:

L’acqua santa in diabolico veleno mutamento devastante!

 

 

 

 

 

 

PERLE DI CANDORE

Fiammante il fulgido Sole

Con sfolgoranti gigli di fulgore

Nell’immane mare sino alla sponda sparge

Sentiero di luce che arde

Fra un miliardo di sguardi frementi

Corrucciati, bruciati, accecati

All’orizzonte rivolti

Bimbo nella spuma s’immerge

S’abbaglia di sorriso che splende

Carpendo coppa traboccante perle di candore

Con due mani Sole.

 

 

 

 

 

 

PROFONDITA’

Sorrisi Di Perla

Lacrime D’onice

Grida Di Smeraldo

Passioni Di Rubino

Cosa n’ode il mare?

Uguali, soavi e mille

Su profondità diafane

Del suo volto benigno

Solo

Mormorii d’Onda

Ombre di Spuma

Gigli di Fulgore

Ode il mare.

 

 

 

 

IL CARILLON DEL DOLORE

Culla Sporca Di Sperma

Strilla In Silenzio

Ma Ancora Sussurra

Melodie Di Velluto

Il Carillon.

 

 

 

 

 

MACHERA DI CRISTALLO

Chiudete il sipario

lo spettacolo volge alla fine

ormai   stanco l’artista

sfinito si ritira

nel suo camerino.

Nel pubblico cercava

una luce

lo sguardo della sua ballerina

ma vana è la ricerca

lei danza

persa nel nulla.

Lo spettacolo impassibile

ricomincia:

“Ridi, ridi…

vivi, interpreta… sogna!”

Ci sarà

ancora una commedia

e come sempre tu sarai

l’incompreso protagonista,

al di là di te stesso

dietro maschera di cristallo

oltre ipocrite finzioni,

una smorfia di gelo.

Dolce e incantevole

l’illusione

malata

e tu sei inconsapevole maestro

regista

e attore.

 

 

 

LASSU’…OLTRE LE NUVOLE

Venne il vento

e portò via

i suoi ricordi,

in un alito

li rapì trascinandoli

senza darle spiegazione alcuna.

Leggeri

fluttuavano

nel cielo,

liberi

finalmente

di volare,

da soli

non più reali

senza vincoli.

Un sorriso rubato

un amore mai scordato

una passione

il dolce tocco di un bambino!

Volarono insieme

lassù

oltre le nuvole

oltre il blu.

Raggiunsero

mete da tanto sognate

per vivere ancora una volta nel cuore

di chi li aveva perduti.

 

 

 

 

 

ANIME MUTE

Solo ti perdo

In pensieri offuscati

Da nebbie indistinte

Attimi scappati

Da un destino non svelato

La tristezza t’invade

Come un’onda alta e potente

Che non lascia scampo

Tu piccola donna

Puntino nell’universo

Di anime indistinte

Di volti non definiti

Granello di sabbia

Sulla riva

Di un mare

Di corpi informi

Di anime lacerate

In un attimo

Da anni e anni

Di odio

Di vendetta

Di tragedie

Accumulati

Gli uni sugli altri

Anime mute

Stanno lì

In silenzio

Ad ascoltare

La speranza

Di un domani

Di un giorno nuovo

Di una nuova luce

Che rischiari il cammino

Una luce accecante

Bagliore d’amore

E fratellanza

Luce di tolleranza

Luce di pace

Che rischiari la speranza

Di una vita migliore

Di raggiungere la riva

Della salvezza.

 

 

 

 

 

GRIGIO ACQUARELLO

Pioggia sul selciato

colori indistinti

anime bagnate.

Delicatissimo

fruscio.

Sembra del pittore

il pennello che:

leggero dipinge

grigio acquarello.

Frusciare lento:

come seta

antica.

Leggero andare.

Semplicemente:

Piove.

 

 

 

 

MAGIE D’AUTUNNO

Quando le foglie

si preparano a morire

regalando:

non un’agonia

ma un tripudio di colori

il cuore immalinconisce.

Si sente andar via

rubare dall’età

offuscare dai ricordi.

Come le foglie

mescola colori.

L’oro: è l’amore.

L’argento: la sua età.

Il rosso: la sua vita.

Il verde: il suo prato di speranze

Questa è la magia.

Un bosco d’autunno

colorato.

Non è agonia.

di un cuore

ancora innamorato

di questa vita stanca.

 

 

 

 

LA TELA DELLE TRE SORELLE

Tre sorelle

tessono una tela.

Buio:sorregge il filo

Notte:tesse lesta

Orrore:cuce.

Grido, per tornare

quello che ero.

Nessuno ode.

Il silenzio tace.

Mi avvolge scuro

quasi maligno.

La tela è pronta:

sudario destinato

a una parola.

Deve morire:

il suo sepolcro

è pronto.

Solo la mia dolcissima Asia

può riaprire

il vaso.

Far uscir speranza.

Corri Asia corri

del tempo mi puoi

ancora regalare.

Il Vento

non lo voglio

ancora seppellire!

 

 

 

 

 

LA SCALA DEL TEMPO

Vecchie scale

consumate da secoli

di passi mi portano

alla finestra dove

stavo affacciato

da bambino.

Son passati anni

anni ed ancora anni!

e ti ritrovo qui

fedele,

polverosa

ma sempre amica.

Come sdraiato

su di un’antica e spettrale

sedia a dondolo.

man mano

crescevo

osservando il mondo

con occhi sempre nuovi.

Com’era bello

il paesaggio:

dolce brughiera

un pò nebbiosa.

ed io li, incantato

a guardare.

Anche ora mi affaccio.

Ritrovo quella voglia

d’un tempo.

che sembra

improvvisamente esumarsi.

Il vecchio ulivo,

sempre più grande,

ora mi sta salutando.

Lui mi riconosce ancora.

Eppure quanto

son cambiato da allora.

Scende piano

l’autunno

sui miei anni!

Come scende dolce

serena in fondo alla mia anima

la sera!

Ora devo, devo, devo

andare,

là dove tutto mi è straniero

il futuro nebuloso e incerto

la vecchiaia opprimente ed imminente.

Ma un giorno

un giorno forse tornerò

e quando ciò accadrà

chissà

se mi riconoscerai

ancora!

Chissà

se nel bianco dei miei capelli

e nella stanchezza delle mie rughe,

saprai captare nuovamente

gli occhi di me bambino.

 

 

 

SUSSURRI E POESIA

Liquide note

virtuose:

nell’aria spandono

voce melodiosa

di questo pianoforte.

Si confondono

col silenzio

danzando tra

i cristalli

del lampadario.

Sospese nei pensieri

si rincorrono

tra felicità e tristezza.

Pianissimo…………..

Ecco l’andante .

Sussurri e poesia.

Sull’ultima nota

s’incanta il silenzio.

 

 

 

 

VAI

Solchi l’acqua

Maestosa.

Tuo il mare

che succube

ti abbraccia

frusciante sussurra.

Ora vai,

non indugiare oltre

forte e sicura.

verso orizzonti

con nuovi arcobaleni.

La tua forza

dammi

prendimi come polena:

con te conoscerò

il sapore amaro del mare.

Oltre l’orizzonte

sparirò con te

coperto di sale.

 

 

 

 

TEMPESTA SPETTRALE

Passione

risplende

nel miraglio della lussuria

come fuoco

che arde

vane emozioni.

Frammenti rosso rubino

riflettono

il femmineo profilo

di suadente fascino

alchimia di incanto e fertilità.

Ricordo effimero

di perduto amore

volteggia

come foglia

al gelido vento

per poi svanire

in un anelito

di vivo sentimento.

offuscati i nostri lumi

dentro di noi saette

come serpi di una tempesta imminente

ritardata dal vento

strisciante dei nostri

mille brevi baci

e taci, taci…

pulsa parole e brama la mente

di voglia ossessiva

stropiccia d’arancia la pelle

e piega le gambe debolmente

ad ogni graffio

ad ogni morso

ad ogni soffio…

una cerniera lampo

scivola lenta in verticale

giù fino all’osso sacro

sinuosa sbaraglia il campo

come un freddo bisturi

la tua colonna vertebrale…

fa’ piano ché dentro di noi

la tempesta in corso

la diplomazia dei gesti

è all’erta per dilungare

questa lotta eterea

in questa notte eterna…

lesto sulle tue labbra

soave sul tuo neo

ti guardo cedere dolcemente

t’accarezzo da brividi il collo

e m’arrampico tra le tue valli…

ti adoro inginocchiato e fedele

bacio il tuo letto a mani tese

guanto d’ansia e di finta quiete

assorbito dal tuo incenso

frustato dalle tue catene

e ingoiato dalla forca…

frutto di mare

libertà e male

ti mangio crudo

sei il bisogno

sei vizio

sei sazietà animale

in questo lampo notturno

sei tempesta spettrale.

 

 

 

 

COMPLICE ARMONIA

Visi sconosciuti

dipinti sull’identica tela

nell’attesa di un sogno,

arrivano a percepire la vibrazione

di somiglianze ancestrali,

scoprendo gli occhi

a disegnare fuggevoli

momenti di serenità dell’anima.

Divisi da terre lontane

affiora il desiderio

di sentire le voci,

di sfiorare attimi di complice armonia

per nutrire lo stupore

che avvicina le emozioni più profonde.

Così, gemelli nel respiro,

camminando mano nella mano,

compagni d’avventura

del destino incantato,

una cascata di luce

inonderà l’intima passione

di una carezza al chiaro di luna.

Sarà la gioia di un incontro.

Per un lunghissimo istante…

che apparirà vicino all’infinito

in cui equilibrio e grazia,

liberando i sensi più puri,

concederanno il privilegio

di abitare lo stesso mondo.

 

 

 

 

 

IL CANTO DEL CIGNO

Vivide gocce rincorrono

immagini sbiadite nell’ombra;

drappi neri s’inseguono

nel cielo di lucida pioggia.

S’incammina la sera

e i tratti del mondo

scolora.

Bruciano nuvole torbide

– stordite, infiammate –

al canto del cigno

solista del sole.

Con lingua di fuoco

le afferra, dilaga,

si scioglie, le invade.

È un incendio sommerso

d’oro e piombo colati

– fusi l’uno nell’altro –

abbracciati.

Il cielo s’inebria,

svanisce la terra…

 

 

 

 

ESTASI ANTICHE

Quando il tempo era vivo

e potevi toccarlo

con dita profumate di bimba

non respirando ancora

quel suo aroma amaro,

quando poi ti baciò

fra i capelli e sulla pelle

facendoti donna,

facendoti dea

di giovinezza immortale,

lì ero io

come un veliero

sospeso sopra il mare,

uno squarcio ferito di vento

che scioglieva il dolore

a ricordarti chi ero

al di fuori di te,

immerso di carne e di sangue

a coprire il silenzio del tuo segreto..

E di ogni cosa sentisti finalmente il sapore.

Mi sfiorasti, vaga e indistinta

– visione intatta dell’anima –

pietra, raggio di luce e follia:

linfa dolce dalle vene,

dubbio aperto fra le cosce,

la percezione incerta di esistere

in bilico sul filo, per amare.

in estasi fuggevoli di nulla

a dissetarci coi nostri corpi mortali

e le nostre anime divine

ancora e poi ancora…

 

 

 

 

ABISSI SENZA SCAMPO

Arrenditi fra le mie braccia fragili

scivola piano ai bordi del mio cuore;

io ti ho dispersa ormai tra mille angoli

e nevica un silenzio che assassina…

Assolvimi per questo cielo inutile

– pieno di voli e abissi senza scampo-

ricorda che bellezza non perdona:

svicola serpe in fondo ai desideri.

E quel che è stato è cibo per i cani

– ruvido istinto che incatena ai limiti –

volgi lo sguardo, la tua strada è libera:

assolo e dissonanza ancora tiepidi…

Tutto mi tace intorno come l’ombra

del mondo che si allunga sulla via.

Gli occhi di un cieco tu li hai mai guardati?

Sono rivolti al sogno che non muta.

Conta solo il respiro, mentre il tempo

ignaro arresta il passo sulla soglia;

nevica adesso e ormai si è fatto tardi…

La parola, soltanto, gronda sangue.

 

 

 

 

 

IO RESPIRO

Era l’istante immobile, stremato

sugli occhi nudi e visionari

dell’aurora.

Raccolsi l’erba e chiusi il pugno

a trattenerlo,

ma fu l’errore a tradirmi

e sciolse il pianto.

Credo all’idea,

al sogno fatto carne

che mi fu spina

a crescermi nel cuore.

Fiore non schiude

se neghi pioggia al cielo

e nell’istante fermo, adesso,

io respiro.

 

 

 

SCHIAVA DELLA CARNE

Donna

che sei padrona di niente,

schiava della carne

spezza per me queste catene

rimescola il mio sangue

alla sabbia del deserto

trasfondi il tuo – piacere!-

in un’oasi di sole,

e rompi il silenzio

complice d’inganno,

restituisci dignità al cielo

ed al mio corpo:

rifammi bambino nel cuore e nell’anima

– come sai fare –

tu che dal tuo utero dài vita.

E fammi fiore

che dai miei petali strappati

non sgorghi più il dolore,

ma finalmente la speranza

di un giorno nuovo,

in cui la libertà di essere

non sia solo orizzonte

ma germoglio di vita vera.

 

 

 

 

INSEGUENDO LE NUVOLE

Le nuvole passano

dentro ai tuoi occhi,

sono uccelli che tornano

da molto lontano…

o forse stanno ancora partendo

per l’amore che non dice

e sussurrano parole,

nel silenzio.

Le nuvole oggi

mi attraversano il cuore,

sono gocce di pioggia

e di sole cadute

tra le dita bagnate

in fondo al secchio del tempo,

mentre il fiume scorreva

annegandomi i sogni…

Le mie nuvole

le ho succhiate da piccolo

nelle notti in cui avevo paura,

quando il buio

mi entrava dagli occhi

sotto fredde lenzuola di rabbia;

gli aquiloni strappavano il filo come palloncini colorati

e restavo a guardarli volare.

Ora che sono libero

dentro la mia illusione

voglio perdermi ancora, un sacco a pelo e via…

inseguendo le nuvole.

Mi raccolgo le lacrime

e ne intreccio collane:

incantesimi fragili,

perché il cielo è mutevole.

 

 

 

 

 

STANOTTE

Stanotte

ho fermato su di me

le tue labbra,

spezzando il lamento

del tempo

in cui fui senza esser chi sono.

Sull’erba

è lievitato di sole

il mio corpo,

l’ampolla si è versata

nel mare

del tuo vivermi dentro, da sempre.

E l’onda

si è infranta sull’orlo

del sogno

-donna, sangue, mio amore-

sgranando

l’eterno proprio fra le mie dita.

Tu stai a me

come l’acqua ad un fiore

come il buio alle stelle,

il canto antico degli avi

che mi nutre le vene.

Mi somigli, mi insegni

il flusso delle maree

-ritmo arcaico del cuore-

l’inverno che non si umilia

e incarna già primavere.

Stanotte

ti ho sentita tremare

nel sonno,

il dolore ha sfoltito le ciglia,

ma il tuo fiato

era culla e rifugio.

Il delirio

dei giorni sprecati

a contare

in silenzio la pioggia

si è dissolto

nel tuo abbraccio caldo

ai confini

di un mondo inviolato.

Ora dormi

mia Atlantide emersa

dal profondo

mistero notturno,

mio miraggio

più vero del vero…

e chiamandoti

imparo il mio nome.

 

 

 

 

E POESIA FU

Dall’amante tormento

fra le tenebre e aurora

originarono i venti

che impetuosi versarono,

zampillarono stelle

a illuminare la notte.

Il sangue sgorgò

dalle ferite del cielo.

E poesia fu

agli occhi dell’uomo.

 

 

 

 

 

SIMBIOSI D’ANIME

Fuso al ventre della Madre

-inscindibile crepa

d’immaturo amore-

sempre andrai cercando

un varco al centro

dell’universo ingrato.

Nuvole dense e pioggia

nei tuoi occhi

incontrati per strada

mentre già tradivo,

Armato di cristallo

crepitando lucciole distanti.

Non erano braccia

nè certezze

Non erano lievi i sogni

nè carezze

Avevo reciso il filo

di tristezza…

Anch’io

prigioniero di un’immagine stranita

Anch’io

perso per sempre nel deserto:

Ferite

aperte tra lacrime nude…

Eppure siamo stretti

uno nell’altra,

pericolanti tracce

del futuro,

sopravissuti allo strappo

più crudele.

Tremante sui sentieri

del tramonto,

attraversando in bilico

i crepacci,

trasparente è ancora

il nostro sguardo.

Sospesi sull’abisso,

franando a perdifiato nell’immenso…

Simbiotica

-d’intreccio indissolubile-

è la nostra

Unica Anima.

 

 

LA LUNA DI PETER PAN

Sentirsi eterni adolescenti

o addirittura curiosi bambini

alla meravigliosa scoperta del mondo.

Presi per mano dalla fantasia,

sospesi fra le nuvole

tra favole ed eroi,

viviamo nella città dei sogni.

In fondo

siamo creature talmente vulnerabili e fragili

che finiscono per provare realmente

i sentimenti e le emozioni che immaginano.

E rifiutare di crescere,

fuggire dalle proprie responsabilità,

annullare la vecchiaia e cancellare la morte.

Tutto è ingenuità,

disarmante stupore,

poetica avventura,

tenerissima immaturità.

Avere per amici solamente

gli artisti,

gli uccelli,

gli acrobati,

gli angeli

e tutti coloro i quali

con i piedi per terra

un senso non hanno.

Viaggiare con la mente,

leggeri come piume

che non atterrano neanche senza vento,

col dono dell’immunità’

verso i problemi pratici quotidiani,

incontaminati dalla crudeltà del materialismo.

Noi siamo Peter Pan,

affetti da una sindrome cronica

che non si potrà mai curare

e che si nutre ogni giorno

di nuovi colori, nuove sensazioni,

abbiamo la luna sempre negli occhi

siam pronti a raggiungerla in ogni magico istante.

Siam veramente malati e patologici?

o forse siamo solo

più fortunati di altri,

capaci di essere noi stessi.

Credo che siamo davvero vicini a Dio

e veniamo da un mondo

che sta al di là.

 

 

 

 

 

 

MIA PICCOLA LISA

Il dono più grande

che la vita mi possa offrire

è quello di poter leggere

ciò che nascondi nel cuore,

mia piccola Lisa.

Lascia che io lo raccolga

fiore che è gettato via,

e lo custodisca qui

in uno spazio che da tempo

ormai è anche tuo.

Spero che quei sogni

che come gemme preziose porti nel cuore

un giorno si avverino tutti,

perchè lo meriti

e lo desideri.

Non ho mai visto

nella continua ricerca della mia immaginazione

ne’ in mille volti di creature reali,

una ragazza dal viso così dolce e poeticamente espressivo

come quello tuo.

Il tuo adolescenziale mondo

è per me suggestiva poesia,

la tua voce,

quel silenzio

dei tuoi timidi sguardi!

Trovo nell’irrisolvibile mistero in cui celi pensieri ed emozioni

qualcosa che mi appartiene e mi attrae,

sensazioni che,

nella mia tormentata e adulta esistenza,

sono anche mie.

 

 

 

 

PICCOLI MOMENTI

Sono i piccoli momenti

a riempire la nostra vita.

Sono i piccoli momenti

a regalarci le più belle emozioni.

Sono sempre essi

che si fissano negli eterni ricordi,

che non vanno via

nemmeno quando gli occhi si bagnano di pianto.

C’è vita persino in quegli attimi di disperazione

dal silenzio una scintilla di gioia   provocherà un’esplosione.

Basta un istante, solo un istante

per rallegrare i nostri gelidi cuori.

 

 

 

 

 

IDEA DI LIBERTA’

Ho nella mente un’idea di libertà,

ma nella mia mia vita purtroppo

vi è una libertà in gabbia.

Scavo nei miei sogni

e trovo

idee infinite,

fuggenti attimi,

sussurri lievi

di libertà.

Penso,

mi fermo,

rincorro,

ascolto,

e scopro in me sempre lei

la libertà:

la libertà è in noi

dobbiamo solo trovare il coraggio di liberarla,

non rinchiuderla mai.

Vola gabbiano!

librati alto nel cielo della speranza,

sfiora i raggi del sole della vita,

tuffati nel silenzio della pace,

giaci stanco sul lido della fiducia,

e vivi!

Anche le gocce d’acqua possono gelare

prima di unirsi all’oceano,

il freddo clima dell’umanità

può lasciar galleggiare

i pezzi di ghiaccio

finchè un raggio di sole

penetrerà la lastra gelata

e l’oceano accoglierà riscaldate nel suo seno

le piccole gocce.

Spero di poter un giorno

essere un raggio di sole.

 

 

 

 

 

L’ECO DEGLI ANGELI

Ho sentito delle note

provenire da lontano

ma forse era l’eco

delle risate dei bambini.

Ho visto una luce

brillare da lontano

ma forse era il riflesso

di un battito del cuore nel silenzio.

Ho udito le parole

giungere alle mie orecchie da lassù

ma ora sono sicuro

eri tu, tra gli angeli, che mi parlavi.

 

 

 

 

 

 

ATTIMI DI MERAVIGLIE

Quando la sera tutto si ferma

e il silenzio

può entrare nel tuo cuore,

riesci ad ascoltare note inespresse

di una vita

che palpita nelle tue vene.

Non fa freddo

e la notte

sarà più bella che mai!

Potrai guarire

da quelle notti insonni,

scacciare la paura se lo vorrai,

riemergere per un attimo dalle tue profonde solitudini.

Chiudi gli occhi

e lasciati cullare dal mare dei ricordi,

lasciati accarezzare

dalla brezza dei sentimenti,

assaporando vivide sensazioni

potrai scoprire una luce che brilla.

E’ un diamante dalle mille facce

che chiede solo di essere scoperto

e condiviso,

fermati!

contempla quella luce,

parlale della tua solitudine,

togli le bende che ti accecano.

Troverai un volto

con occhi pieni d’amore,

troverai una mano

che ti vuole sostenere,

troverai un cuore

che ti vuole abbracciare.

Ti prego credi

nella sincerità e nella magia

di quegli attimi,

non lasciarli sfuggire

ma vivili,

vedrai meraviglie compiersi in te.

 

 

 

 

 

 

CHI SEI

Chi sei?

dolce compagna di avventure!

Sono solo

e tu sfiori il mio braccio.

Piango

e mi mostri un sorriso.

Sono triste

e mi fai una piroetta.

Vorrei morire

ma mi porgi un giglio.

Sono silenzioso

e tu canti al mio orecchio note di gioia,

ma chi sei?

 

 

 

 

 

ESISTONO SILENZI

Esistono silenzi

in cui vedo scorrere parole

come un fiume in piena

sul diario della vita,

ma non è la mia mano

che le scrive.

Esistono silenzi

nei quali vedo scorrere una lacrima

come stilla di rugiada

sul mio volto,

ma non sono io

che la verso.

Esistono silenzi

che mi fanno sentire un alito di vita

che come un profumo di mille fresie

mi accarezza il volto,

silenzi magici

in perfetta sintonia col mio indefinibile anelito.

Ora sento e comprendo

che il cuore dell’universo

palpita all’unisono col mio respiro

e allora chiudo gli occhi,

e cerco di ascoltare nel silenzio

la dolce melodia di quegli istanti.

Sono attimi che parlano d’amore,

che mi rapiscono con loro,

e in quei momenti

trovo anche te.

 

 

 

 

 

 

LA’ DOVE IL SOLE ILLUMINA ANCORA

Stringimi a te,

ai tuoi sogni leggeri

che san volare in alto

sino a sparire all’orizzonte

per poi riemergere in quella zona del cuore

che confini non ha.

Guardami riflesso

attraverso la chiarezza delle tue pupille,

incontaminato sguardo d’un’anima semplice,

e con un sorriso

illuminami

e scolpisci il tuo amore nella mia mente.

Calpesta la mia eterna tristezza,

lascia che rimanga a terra

immobile e impotente,

polvere sulla polvere,

inerme

come nulla nel nulla.

Mostrami il profilo d’un arcobaleno

arco di vivida luce e colori sgargianti,

affinchè possa frantumare squarciando

il buio della mia solitudine

che nessuno sa capire,

che nessuno è in grado di ascoltare.

Portami in alto,

lontano da quaggiù,

via dalle ombre oscure

che mi rendono loro schiavo,

là dove il sole illumina ancora

e riflette amore.

Ascolta il grido della mia disperazione

e amami più forte che puoi,

mostrami fiducia,

regalami l’infinito,

fai sentire questo bambino insicuro e uomo mancato

importante almeno per te.

 

 

 

 

 

QUELLO CHE VORREI

Io cerco la tenerezza

non come si cerca qualcosa

che non si conosce

e che non si è mai provata,

ma come qualcosa di cui

si ha infinita nostalgia.

Ecco cosa vorrei per me:

un sogno dipinto

coi colori dell’arcobaleno

sul fondo azzurro dei miei pensieri

e sterminate praterie di profumatissimi fiorellini

e un mare verde smeraldo rigoglioso di vita subacquea.

E vorrei che quel ponte di colori e di emozioni

unisse idealmente la prateria e l’acqua,

la mia vita e quella che vorrei che fosse

per essere libero anch’io fino a divenire cielo,

anima nell’anima,

vento nel vento.

 

 

 

 

 

 

 

ARTEFICE DELLA MIA VITA

Non esiste il destino,

sono soltanto io l’artefice della mia vita,

io e soltanto io posso scrivere la mia storia

disperata ma profondamente umana

e per questo vera, sofferta, vissuta.

Semplicemente so che devo vivere

senza aspettare il via della bandiera a scacchi,

devo correre prima che sia troppo tardi,

potrei sprofondare nella palude della tristezza

se solo mi fermassi a riflettere o mi arrendessi in partenza.

Vane le preghiere, inefficaci le medicine,

nessuno mi spingerà a seguirà il mio cammino,

dovrò necessariamente farcela con le mie sole forze,

nessun aiuto dall’alto,

forse nemmeno il soccorso della zingara fortuna.

Stasera però mi sono fermato un attimo

a guardare il rosso del tramonto

che dava l’addio al giorno

proprio mentre anch’io mi sentivo finito,

quella luce mi ha sussurrato piano:

“tu rinascerai con me e vincerai se lo vorrai”.

 

 

 

 

 

 

 

IL CHICCO

Era arrivato il giorno tanto atteso,

il mio sogno doveva essere seminato,

doveva sbocciare,

crescere e dare i suoi primi frutti.

Piantai quel chicco

nella zona più fertile della mia vita,

lo innaffiavo ogni giorno con le mie lacrime

e desideravo sempre più la sua nascita.

Finalmente spuntò una foglia,

mi fece sognare,

sperare,

sorridere,

sapevo che i suoi frutti

sarebbero arrivati presto.

Con molta lentezza crebbe,

fece un piccolo fiore,

un briciolo di gioia

ma nessun frutto.

A differenza della lentezza

con la quale era nato,

al primo spiffero di vento

morì

e con lui

il mio cuore.

 

 

 

 

 

 

 

 

LA RINASCITA

Per assaporare i colori della primavera

e sentire il calore del sole,

il suono della natura che rinasce,

dobbiamo avvertire prima il gelo dell’inverno.

E il bosco dovrà apparirci freddo e silenzioso,

solo dopo vedremo il pettirosso cantare,

giovani foglie danzare, una goccia divenire oceano.

E i fiori giaceranno inerti sepolti nell’oscurità

per poi germogliare e fiorire come per incanto,

fiori vivi che mostreranno le corolle al sole.

L’inverno può durare anche per mesi e mesi,

il buio potrebbe rivelarsi lungo e interminabile,

camuffarsi da maschere umiliate e sconfitte

di solitudine e di tristezza

ma la primavera e con essa la sua incantevole luce

torneranno sempre prima o poi

e sarà festa nei nostri cuori,

definitiva vittoria per la nostra anima.

 

 

 

 

 

 

 

 

I COLORI DELL’ARCOBALENO

Tu

che hai saputo dipingere

con i colori dell’anima,

immortalando sensazioni racchiuse

in mille immagini.

Hai creato arcobaleni,

voli di aironi

tra cielo e mare

abbagliando di luce

l’orizzonte del cuore.

Mi hai modellato,

con la tua arte plasmato,

sfiorando insieme

il tutto e il nulla,

l’estremo e il semplice.

Una libertà

infinita

che attraversa il respiro

e fa volare via,

via.

 

 

 

 

 

 

 

 

IL SILENZIO DELL’ANIMA

In questa notte

che il sogno

non riesce a strappare

ai miei pensieri,

lascio scivolare

lievi

piccole gocce

sul mio viso.

Il silenzio

della mia anima

ora preme

come non mai.

Ed io riconosco

la mia debolezza,

la disperazione d’un uomo

che è consapevole della propria fine.

Ma io non vorrei

morire adesso

senza nella mia vita

aver mai amato prima.

 

 

 

 

 

RITRATTO DI DONNA

Soffermandomi a guardare il tuo viso,

quella profondità del tuo sguardo,

vorrei passarci delicatamente le dita

seguendo con una linea i tratti dei tuoi lineamenti.

Scrutando i segreti di quegli occhi verdi

che sembrano cambiare ad ogni tuo stato d’animo,

non so che darei per leggere quelle paure e incertezze

che mai avresti il coraggio di rivelarmi.

E in quell’infinita dolcezza

che lasci ancora scorgere,

cerco dipinto un viso di bimba,

trovo invece il ritratto di donna.

 

 

 

 

 

 

IO E TE IN AMORE

Se avrò gli occhi spauriti

di un cerbiatto indifeso,

ti potrai commuovere

e mi accarezzerai.

Se subirò la sconfitta

di una speranza naufragata nel niente,

soffrirai con me dispiaciuta

e mi consolerai.

Se di colpo scoprirò

di non farcela più,

tu combatterai con me

e mi incoraggerai.

Ma quando ti guarderò

con gli occhi di un uomo innamorato,

ti perderai con me

e saremo un vortice nel blu dell’oceano.

Là dove la vita

si rigenera dopo la morte,

là dove il tempo

non si ferma.

Io e te in amore.

 

 

 

 

 

SAPORE DI LIBERTA’

Voglio allargare le braccia

e respirare forte

l’immensità del cosmo,

il sapore della vita.

Voglio sentirmi libero,

Finalmente felice di vivere e amare

senza negare più a nessuno

me stesso.

Desidero imparare a conoscere

ed aiutare il mio prossimo,

dire addio alla bramosia d’egocentrismo

del mio io.

 

 

 

 

 

 

IL QUADRO PIU’ BELLO

Spicchio di luna in cielo,

aliti di parole incantate,

soffio caldo del tuo pensiero

sul mio cuore.

Mi soffermo a contare e raccogliere le stelle

ne farei una collana per donarla a te

che non ne hai bisogno

perchè stella fra le stelle.

Altro che tesori e ricchezze!

non servono gioielli e diamanti,

regni solo tu

con la tua magica e preziosa presenza.

Tu dolce e bellissima principessa

nella favola della mia vita,

dolce musica il tuo respiro

che danza nella notte col silenzio.

Ed io che in uno spiraglio di luce

ti guardo incantato

come un fermo immagine nella mia mente:

il mio quadro più bello.

 

 

 

 

 

 

 

 

LA MAGIA DI UN NUOVO GIORNO

E’ ora finalmente!

quell’attimo mansueto

che segue la notte e precede il mattino

trattiene il respiro,

la natura tutta è in attesa,

il risveglio è prossimo.

La magia

che si rinnova

nell’incanto dell’alba,

canta il gallo

ambasciator di questo evento,

poi trepido silenzio e fremente compostezza.

Ed eccolo il boato

in un fragore di luci che si accendono

tutte insieme,

esplodono nel cielo,

giunge infine il sole

a battezzare il nuovo giorno.

Ed è un festoso cinguettare di uccellini,

lo schiudersi dei fiori,

la carezza della rugiada

che lieve scivola sugli steli,

la òla dell’erba che vibra

pizzicata dalle esperte dita della brezza.

E poi ancora il guizzar dei pesci giù nel fiume,

il suono d’una campanella al collo d’una mucca,

il rincorrersi di un’onda dietro l’altra,

oche che schiamazzano in girotondo,

il sapore fresco del latte appena munto, del pane caldo,

delle uova raccolte sulla paglia,

lo sguardo di un pulcino appena nato con le piume in disordine.

I miei occhi sbigottiti che veloci applaudono

aprendosi e chiudendosi ritmicamente

sul mondo che nasce,

avidi e mai stanchi,

felici ancora di assistere

alla magia di un nuovo giorno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SEGRETI

Segreto grave

occultato dalla maschera del silenzio.

Segreto profondo

sigillato da una promessa.

Segreto fragile

taciuto per rispetto.

Segreto inconfessabile

celato per vergogna.

Segreto remoto

ancestrale,

incomprensibile,

misterioso,

completamente folle.

Quanti segreti

appartengono alla coscienza d’un uomo!

Radice d’un male, silenzio dentro il silenzio,

amara fonte di strani tarli.

Quanti segreti verranno con liberazione confessati?

Ma quanti di essi sfoceranno poi nella morte!

 

 

 

 

 

 

 

OCCHI DI GATTA

Occhi oblunghi d’ambra e smeraldo

percorsi dai sentieri dell’eden.

Oasi sconfinati di terre e fuoco

solcati dai fiumi dell’anima.

Mondi lontani d’amore e odio

abitati da abissi profondi.

Occhi di gatta

inafferrabile enigma.

 

 

 

 

 

 

 

 

NEBBIA

E la nebbia scendeva

lentamente

confusa.

Solo una luce

si distingueva all’orizzonte

in un tremulo brillio.

Poi un’altra

e subito dopo un’altra

e un’altra ancora.

Indefinibile paura e insieme lontana speranza,

chiusi gli occhi

e non fu più niente.

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ALTROVE

Libero varco che trasmigra mondi

veggenza astrale tra fuochi oscuri,

notti di voci in sussurri sopiti

che risvegliano danze di lucenti magie,

nel dorato alito di fate leggere.

Quello strano timore di essere Anima

come un lamento di foglie schernite dal vento!

Come sorrisi di orchi che diventano buoni!

E per un istante sottile,

trafitto dal megalitico luccichio della luna,

il confine che separa l’Altrove

non è poi così lontano.

 

 

 

 

 

 

 

 

MASCHERE MUTAMBOLE

Non detestare ciò che sei se sei,

vivi semplicemente nell’orma dei passi antichi

che furono dei padri fucina dell’esistere.

Ascolta nel silenzio la saggezza e lo scongiuro

di maschere mutambole

come folletti strambi malati di magia,

piegati alle fogge di forme controverse

cercando il senso della smorfia

in ogni pietra cesellata.

Non vedi? Ridono di te!

Non senti? Piangono per te

e cantano la storia lontana

che scaccia demoni dal mondo.

 

 

 

 

 

 

GESU’ IO TI AMO

Gesù! Ora posso, devo, voglio amarti; ogni giorno di più!

io ti sento vicino, molto vicino

fin quasi a sfiorarti,

guardandoti dal basso verso l’alto

inginocchiato ai tuoi piedi.

Per troppo tempo non ti ho creduto

e ho vissuto come se tu non esistessi,

lontano da te

senza mai leggere il Vangelo,

perso in strade buie senza sbocchi.

Tutte le porte mi parevano chiuse,

ero preda di ansia e tristezza

immerso in una solitudine senza fine.

Sopravvivevo ossessionato ed atterrito

dall’idea d’invecchiare e morire,

schiavo della lussuria e della pornografia

non capendo che la carne è morte e lo spirito è vita,

tu soffrendo hai crocifisso la carne, io ne ho fatto fonte di piacere,

il male aveva inquinato persino i miei scritti: ero ridotto una larva umana!

Ora cerco persone avanti nella fede

mentre prima bramavo esperienze sessuali.

Oggi tutto è cambiato come per magia

da quando finalmente aprendo il mio cuore

io ti ho accettato con fede nella mia vita.

Ogni cosa mi appare nuova e bellissima

vedo tutto ciò che c’è dentro e fuori di me

con occhi totalmente diversi, sento nella coscienza serenità e giustizia.

Hai riempito la mia anima d’una purezza fortissima

come se in un momento avessi cancellato tutti i miei peccati perdonandomi,

purificandomi come un bambino, ero caduto e mi hai rialzato.

Sono rinato libero e felice.

Ora amo te Gesù, gli altri e la vita

ho smesso di chiudermi vigliaccamente nel guscio del mio egoismo

ma sento forte il bisogno di aprirmi all’universo che mi circonda.

Vorrei tanto fare del bene, aiutare e trasmettere al mio prossimo

rendendo testimonianza ed evangelizzando

questa gioia che provo dentro

e che vorrei condividere con tutti.

C’è una nuova luce che brilla nei miei occhi

e l’ispirazione poetica è cresciuta diventando positiva e bellissima

mentre prima scrivevo dolore e autodistruzione

e rileggendo è come se non avessi scritto io.

Ho compreso che senza di te

c’è il vuoto e regna la paura,

nulla ha senso o valore e si è vulnerabili e infinitamente deboli

ma nella debolezza in umiltà si è forti.

Piccoli grandi prodigi

mi sorprendono giorno per giorno

rinnovandomi continuamente e progressivamente.

E’ una rivoluzione interiore, una metamorfosi d’amore.

Tutte le porte si aprono da sole.

Ed io non posso più tornare indietro

ora che ho sperimentato

l’importanza della tua presenza nella mia vita.

Smascheri il diavolo, discerno il bene dal male.

Da ora in poi griderò al mondo intero:

Gesù io ti amo con tutto il mio cuore più della mia stessa vita

e ti adorerò per sempre.

Perchè con te vicino posso ogni cosa, non deludi mai

niente potrà più abbattermi

o farmi del male: chi è con te non è del mondo!

E le cose di esso perdono consistenza:

Solo luce e amore

tu hai riservato

per me! Tu battezzi, liberi, guarisci, salvi!

Dentro me hai iniziato un’opera meravigliosa

che porterai a compimento,

primi timidi germogli

d’una miracolosa fioritura di santità.

Leggendo la tua parola,

nelle profondità del mio spirito,

una capacità di penetrazione talmente forte

vivifica.

 

 

 

 

 

 

 

LA SPIRITUALITA’

Esiste da sempre e per sempre in noi,

in fondo alla nostra anima,

qualcosa indefinibile

ma estremamente preziosa e vitale

capace di renderci immortali,

invincibili,

simili a Dio,

e che non può essere in nessun modo

annullata o distrutta.

Questo meraviglioso dono di immensa potenzialità

che ci è stato regalato con amore

è la nostra spiritualità.

Immersi nel fango dell’errore e della disperazione

o sprofondati nel mare dei nostri guai,

essa ci trascinerà con se’ sconfiggendo la morte,

risorgeremo dalle macerie ricostruendo noi stessi

con una straordinaria forza di vita e d’amore

sollevandoci fin lassù

perchè noi siamo nati per vincere.

 

 

 

 

 

 

 

 

SENTIRE GESU’ NEL CUORE

Oggi ho capito

una cosa molto importante

che soltanto chi sente veramente Gesù nel cuore

può comprendere:

la vita è meravigliosa,

è un dono bellissimo

che ci è stato regalato con amore

e per questo va vissuta con gioia ed entusiasmo

fino in fondo.

E se spesso accadono cose brutte e tristi,

non è perchè siamo sfortunati

o perchè il male regna sovrano,

oppure perchè siamo stati abbandonati al nostro destino,

c’è invece un qualcosa di bellissimo

celato dietro quel male,

come un meraviglioso e definitivo riscatto futuro

che noi per adesso con gli occhi mortali e terreni

non possiamo neanche concepire o immaginare.

Per questo io ho fatto la scelta più importante

della mia tormentata e solitaria esistenza:

“ho messo la mia vita nelle mani di Gesù Cristo”

e per la prima volta in vita mia

scrivo di Gesù e per Gesù.

 

 

 

 

 

 

CHISSA’ SE TI RICORDI ANCORA

Chissà se ti ricordi ancora

le domeniche d’estate

e quel silenzio nelle strade,

correvamo solo noi

ad inseguire i sogni

senza più tristezza ed abbandono.

Stringevi forte la mia mano nella tua

e spinti dall’incoscienza della nostra età

fuggivamo via lontano,

vivendo il presente senza domani,

ci bastava e non ci importava di sapere

cosa volevamo noi dalla nostra vita.

Chissà se ti ricordi ancora

i pomeriggi d’inverno

trascorsi chiusi in casa

a fumarci la malinconia,

ad inventare il nostro mondo,

giorno dopo giorno senza aver paura,

senza fermarci davanti a niente

tra storie vere e viaggi con la mente.

Ma il tempo passa in fretta sai

ed io ho non ho imparato a vivere

ma lo stesso tempo

sento che non cancellerà

quelle cose in cui io credo

che vibrano e bruciano dentro me,

mi chiedo se anche tu

sei rimasta quella di allora.

Chissà adesso dove sei, che fai e con chi stai!

Chissa se avrai trovato mai

la vita che volevi,

quello che sognavi.

 

 

 

 

 

 

 

I POETI

Ci sono ancora loro,

strani individui

con l’anima più leggera di una nuvola.

Loro,

i poeti,

ingarbugliati nelle rime di ogni giorno,

con le più vere promesse e il più nobile scopo:

donare con il cuore e tramite la penna

ancora e poi ancora all’infinito,

amore.

Ci son sempre loro a risvegliarti dal torpore

che t’infonde l’infernale macchina del nulla,

a dirti quanto vali se le ali

le dispieghi ancora

ferite e sanguinanti forse.

Ci sono ancora loro a dirti di stranezze

disegnate dentro al vento,

a farti capire quanto sia vero il tuo sorriso

se arriva dopo quel dolore,

quanto sia libero questo mondo

se non avvelenato da quei gas

più che mai sconosciuti ed assassini.

Sì, libero e vero! come la vita che ti scuote

contro quella morte che non puoi capire.

E ci sono infine loro:

bambini, folletti, tenerissimi giullari di emozioni

ormai ridotti a non avere più parole

che parlano muti lo stesso,

piangono in silenzio,

e nel silenzio,

senza fare rumore,

accarezzano l’immenso.

 

 

 

 

 

 

 

 

AMORE

Ho visto lanterne ardere

in un silenzio infinito

dove la memoria

si perde.

Voci di bambini aleggiare

in un tempo remoto

dove suoni di flauti

contrastavano sussurri e grida.

Incontrollato amore, sconosciuto, amaro

disperato amore

che devasti l’animo

e sconvolgi la mente.

Amore rincorso, perduto, ritrovato

amore di lacrime

che purifichi gli occhi

e lontano calmi l’ardore.

Ho sentito il mare infrangersi

in onde di tempesta

in un tempo inaccessibile

dove il dolore si dissolve.

E ricordi amari al cuore

che offuscano

la vita vissuta

e non vissuta.

Inspiegabile amore, vagabondo, inconsueto

fragile amore

che distruggi il mio sangue

e annienti il mio corpo.

Amore cercato, sognato, sperato

amore di rabbia che infiammi lo sguardo

e lontano

accendi le vene.

Più amore

più forza,

più di te

dentro me.

 

 

 

 

 

 

 

 

FRAMMENTI DI SENTIMENTI

Impalpabili volteggiano nell’aria e profumano di primavera

cadute distrattamente da chissà dove

smarrite nel tempo.

Spaziano nella mente

nutrendosi di spasimi

anelando consolazioni.

Danzano coi ricordi

si adagiano su fiori recisi

dipingendo l’amore.

Un ritratto d’autore

ma sono solo briciole

briciole e nient’altro.

Frammenti di sentimenti

che uniti tra loro

danno vita al mio cuore,

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INCROCIO DI VITE SBAGLIATE

Sei storia d’amore incompiuta,

poesia mai finita,

sei l’amore sfiorato e incosciente

incontrato per strada, la stessa

a un incrocio di vite sbagliate.

Fra mille anni

o forse fra un istante

io ti ritroverò seduta ad aspettarmi

nella quiete di un tempo

che sarà verità.

Mi chiamerai “mio amore”

ed io “piccola mia”

come se ieri fosse appena passato,

come se mai

tu fossi andata via.

 

 

 

 

 

 

 

DENTRO TE

Dentro te

ascoltavo il dolce silenzio

affondando nel grigio notturno

dei tuoi occhi

mentre l’azzurro delle tue iridi

svaniva fra le ciglia del sole.

Dentro te

percorrevo il tempo immobile

cullando il sogno di te bambina

ed una carezza silenziosa scorreva

accanto ai tuoi occhi lucidi.

Dentro te

immagino ancora il tuo profumo

l’estasi proibita

e la dolcezza di quel momento

che diventerà il mio indelebile ricordo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL TEATRO DELLA VITA

Personaggi

costumi di scena

copioni

luci

prove

soddisfazioni.

Tutti vagoni di un treno

che viaggia

lungo il binario del teatro,

arte sopraffina

nel comunicare con gesti

mimica e parole.

Un viaggio

che conduce la nostra anima

in uno spazio virtuale

a volte fantastico

a volte specchio

della cruda realtà

ma che ormai fa parte

della nostra vita,

del nostro essere maschere

in questo mondo

chiamato teatro.

 

 

 

 

 

 

IL DELFINO E LA SIRENA

Su un’isola deserta

sperduta in mezzo al mare

viveva una fanciulla

che non sapeva amare.

In mezzo alla natura

da sola era cresciuta

tra fiumi, uccelli e fiori

di quell’isola sperduta.

Dormiva su una rosa

mangiava dentro un cocco

cingeva i suoi capelli

di un nastro con un fiocco.

Passava le giornate

parlando con gli uccelli

svelava a loro i sogni

più intimi e più belli.

Il suo migliore amico

era un delfino bianco

ch’era rimasto lì

lasciando il proprio branco.

Un dì mentre nuotava

nel mare di cristallo

qualcosa la colpì

in un banco di corallo.

Con gli occhi spalancati

guardava attentamente

quello che succedeva

nel fondo sottostante.

Il suo migliore amico

ossia il delfino bianco

giaceva dolorante

poggiato su quel banco.

D’istinto si lanciò

portandogli soccorso

e gioì quando capì

che non l’aveva perso.

Qualcosa nel frattempo

in lei era cambiato

pensando a quel suo amico

che Dio le aveva dato.

D’allora la fanciulla

con lui volle restare

sirena diventando

per vivere nel mare.

Restò con lui per sempre

coprendolo d’amore

ma l’isola dei sogni

rimase nel suo cuore.

 

 

 

 

 

LA RAGAZZA COMPUTERIZZATA

Io vorrei confessar questo

in fondo è un segreto onesto,

mi son follemente innamorato

di una ragazza virtuale che ho creato.

Non so da qual mondo sia venuta

ma si muove, mi guarda e non è muta,

non esiste nella realtà

ma a me par quasi verità.

Dal mio computer è uscita fuori d’improvviso

senza dolori, problemi e con un bel riso,

è proprio bella, formosa e seducente

fatta di hard disk, processori ma non mente.

Cliccando il suo corpo l’amor ci ho fatto in ogni lato

non ho preso virus e piacer ho anche provato,

lei programmata ride, parla, si muove sai

mi ubbidisce, non dà problemi e non tradisce mai.

Figli purtroppo non me ne può dar

ma che importa, la stringo e continuo ancor a baciar,

ormai in questo secolo di robots e computers ultrapotenti

mi sentirei antico con una vera donna coi sentimenti.

Per questo io sto tranquillo con la mia ragazza computerizzata

che mi soddisfa, mi piace e l’ho tanto amata,

son arrivato al punto di non volerla cambiar se far lo possa

neppur con una ragazza vera in carne e ossa.

 

 

 

LUCE

 

Quando nel buio della notte

perdutamente solo

come un bambino prego,

sento nascermi dentro una forza improvvisa

calore ed energia mi esplodono nel corpo,

ed è di nuovo LUCE nella mia anima

di nuovo LUCE dentro i miei occhi

gioia nel cuore

festa di sorrisi.

Quando invincibile

il male sembra sconfiggermi

ed ombrosi pensieri mi spingono verso la morte

una potenza positiva forte come un fuoco

scorre divampando nelle mie vene

ed è di nuovo LUCE nella mia anima

di nuovo LUCE dentro i miei occhi

pace nel cuore

libertà nella mente.

Quando con brividi di freddo

la paura mi assale

ed io credo di non farcela più

una voce intima mi infonde coraggio

pronta ad aiutarmi mi tende la mano

ed è di nuovo LUCE nella mia anima

di nuovo LUCE dentro i miei occhi

amore nel cuore

equilibrio nella mente.

Quando terrorizzato d’invecchiare e di morire

solo senza compagna e senza amore

sono schiavo del terribile pensiero che la mia vita non abbia senso o valore

tu cancelli di colpo questa mia agonia

la tua presenza rende preziosa la mia esistenza

ed è di nuovo LUCE nella mia anima

di nuovo LUCE dentro i miei occhi

serenità nel cuore

comunione con te attraverso la mente.

È di nuovo LUCE, LUCE e soltanto LUCE!

E spariscono le tenebre

fuggono da me fantasmi e demoni

è sconfitto il serpente.

Solo LUCE, LUCE, e per sempre LUCE.

Ed io ora so

che non smetterai mai di illuminarmi.

 

 

VIALE ALBERATO D’AUTUNNO

 

Cade una foglia

soffice piuma

leggera

volteggia nell’aria

come una ballerina che danza sulle punte

poi

si posa per terra

sul tappeto di questo viale alberato

anch’essa

parte d’una coperta

ingiallita

di foglie morte.

L’autunno è arrivato

con la sua malinconica dolcezza

ed ogni albero si sta spogliando

del proprio vestito.

I rami ormai nudi

sembrano tendere

le proprie braccia al cielo

quasi come ad abbracciarlo.

In un amplesso tenero ed appagante,

io mi stringo a te,

alma Natura,

voglio cogliere ogni tuo palpito

e respirare il tuo stesso respiro,

vestendomi dei tuoi colori.

 

 

 

 

 

CASTELLO ANTICO

 

Il castello

sta

là,

disteso sul colle

come statua imponente.

Guarda

nebbie e fantasmi

terre ed oceani

monotoni e spettrali

nel tempo che passa.

Ricorda

lotte e tormenti

amori e passioni

nel volgere lento

dei secoli.

Fra quelle mura antiche e millenarie

trova ancora rifugio un vecchio gabbiano

ammalato e stanco

che mira da lontano

le immense acque solcate nei voli.

 

 

 

 

 

 

MONTAGNE

 

Maestosi giganti addormentati

o eruttanti fuoco fra le gole,

vi osservo in silenzio su pendii boscosi di valli ridenti

brillare al sole come rocce ardite.

Cime svettanti che austere sfidate il cielo

incontrastate padrone dei grandi silenzi

accogliete le aquile, scrutate i mari

riconciliatevi con l’immenso.

Dolci declivi bianchi di pura neve,

inesplorati paradisi e regno di purezza,

siate finestra aperta verso l’infinito,

dove quiete e pace dànno ebbrezza.

Voi segno di grandezza vera,

espressione della potenza della natura madre,

noi al confronto tante formichine,

prede di paure e confusioni.

 

 

 

 

 

PRESAGIO DI MORTE

 

Ho un presagio,

qualcosa serpeggia nell’aria,

striscia invertebrata nella memoria,

credo sia angoscia,

spettro del mio respiro pesante.

Ansimo,

ho il fiato corto,

sarà paura,

e m’abbandono,

vinto.

È punta di spillo che penetra le mie carni,

solitudine

vuoto,

è vento di ghiaccio che invade

rapida mi scava nelle ossa.

Schiava la mia mente di lei e del suo male

vorrei almeno vederla, comprenderla

ma ella non si mostra,

mi osserva,

la si sente e basta.

In un muto silenzio

come trasparenza nascosta

penetra profonda nelle mie pupille,

non posso che subirla ma adesso so cos’è:

presagio di morte.

 

 

 

 

 

 

L’ANTICAMERA DELLA MORTE

 

La paura dilata il tempo come un elastico

il cuore palpita disordinatamente,

ansima il respiro.

Occhi catturati dall’inquietudine,

sguardi impietriti dal terrore,

il volto è una maschera.

Il corpo dapprima si oppone,

si dimena,

poi affoga in una lenta agonia.

Mentre il torpore immobilizza gli arti,

il cervello resta lucido qualche altro istante,

poi si perde la concezione dello spazio e delle ore.

Confusa e impaurita la mente,

l’abbandono può sembrare dolce e soffice,

l’ultimo respiro sembra seta.

L’uomo ora è rigido,

si adagia smarrito,

perduto.

L’attimo che segue è l’anticamera della morte,

il tempo immoto,

gli occhi pesanti, opachi, vitrei.

A malapena distinguono i colori,

si allontanano dalla vita,

graffiano la memoria.

Alle luci dell’alba

sguardi deliranti sigillano le tenebre

le labbra spalancate in una smorfia amorfa.

La morte brinda in calici d’argento,

il silenzio diventa

perfetta armonia.

 

 

 

 

 

 

LEI MI SEGUE

 

Ovunque io vada

lei mi segue

in silenzio

discreta

e senza farsi notare.

Ogni tanto mi sembra

di sentirne il respiro

dietro ogni angolo

ogni porta

ogni passo.

Non serve correre

rifugiarsi

scappare chissà dove

lei è la mia ombra

e ci sarà sempre.

Non riesco proprio

ad allontanarla da me

mi ossessiona

sono l’unico ad accorgermi di lei

soltanto io riesco a vederla.

Ma forse una soluzione c’è

no! non cadrò nelle sue braccia

non sarò il suo burattino abbandonato

ormai ho deciso

sarà la mia poesia a farmi fuggire da lei per sempre.

 

 

 

 

 

IL MIO DESERTO

 

Non ho mai conosciuto amore alcuno

in quest’orrido deserto

che è la mia vita,

solo miraggi d’amore inesistente

sete d’acqua mai bevuta.

È il deserto

quello nel quale mi ritrovo,

ricordo che è stata la mia culla,

momenti di intensa solitudine,

di preghiere inascoltate rivolte al cielo.

In fondo è sempre in esso che mi sono ritrovato

dopo lunghe corse affannate ad inseguire il vento,

a sognare di raggiungere le stelle,

nei miei occhi neanche un raggio di quel sole,

solo freddo nell’anima e nulla più.

Sento la notte nel mio cuore,

alitare con lunghi interminabili silenzi

giovinezza sfuggita fra le dita e perduta per sempre

sogni svaniti all’alba.

Non mi è rimasto che rifugiarmi nel deserto, amico fedele

lì anche se triste ogni cosa è mia,

è solo sabbia lo so, echi di silenzio

ma almeno non posso perdere

ciò che non ho mai avuto.

In questo mio deserto

il niente è tutto per me,

e il mio tutto è niente per il mondo,

oggi è la mia casa,

domani, la mia tomba.

 

 

 

 

 

 

SOLO

 

Pagina di giorni inutili

spesi a pensare e piangere,

muta amica di parole confidate ad un diario

silente fanciulla triste ma accattivante.

Con la tua veste leggera di tulle

mi inviti a ballare

un giro di danza e mi dici perfino:

“sai che amo ballare con te!”.

Mi afferri le mani e me le stringi forte

ed io mi sento così bene,

è tutto incredibilmente assurdo

incomprensibile.

Ma non vedi la contraddizione

nella nostra amicizia?

Io con te dovrei sentirmi…

solo!

 

 

 

 

 

 

PULEDRINO

 

È una piccola bellezza la sua

in tutti i sensi,

con quelle gambette ancor deboli.

Venuto alla luce da una settimana,

ha sempre un’aria incuriosita

per tutto ciò che di nuovo gli sta intorno.

È completamente nero come la notte,

con soltanto un piccolo raggio di luce sulla fronte;

fa tenerezza con quel corpicino che appena nato muove i primi passi.

Non so… ma questa piccola creatura

possiede una bellezza estranea a questo mondo, una novità

due occhietti dolci che osservandoli ti fanno innamorare di lui.

Ora, disteso fissa il vuoto

chissà a cosa pensa!

le sue orecchie attente aspettano qualcosa di curioso.

Appena la sua mamma si muove

lui la segue come se avesse paura di rimanere da solo,

in questo mondo che sente ancora straniero.

Con quelle lunghe gambette e tutto il suo corpicino

scoprirà pian piano la vita

e non sarà più un gioco.

E chissà,

forse un giorno sarà libero di correre lungo i campi

da solo con la sua raggiante bellezza.

 

 

 

 

 

 

AL MIO CANE

 

La tua presenza

colmava il vuoto

della mia oziosa solitudine,

spesso mi contrariava

il tuo lungo abbaiare

che ora mi manca da morire.

Mostravi tutta la tua gratitudine

stendendoti ai miei piedi

e mi contemplavi,

parlavi con gli occhi

ci capivamo

nell’incrociarsi dei nostri sguardi.

Ci ritrovavamo sempre

nel nostro mondo

pieno d’abitudini,

forse

non ero solamente il tuo padrone

ma il vero amore.

Oggi non ci sei più

la tua festosa compagnia

si è dissolta

nella morte

ricoperta

dalla nuda terra.

Ma per me

rimani sempre una ferita aperta

incancellabile ricordo dentro al mio vuoto

nel ripiombato abisso

d’un’altra e più profonda

solitudine.

 

 

 

 

 

 

FARFALLE

 

Le ali son come petali

di fiori colorati,

e con eleganza

volano posandosi sui prati.

Ed è in festa la radura

per quelle piccole creature sospese in aria,

sorride gioiosa

la natura tutta.

Un’esistenza tanto fragile

quanto bella e preziosa la loro

che dura solo qualche giorno,

il tempo di imparare a volare e farsi ammirare.

Ma a differenza degli uomini

accomunati dallo stesso destino,

son felici ugualmente mostrando di apprezzar la vita

e spensierati si godono

la loro breve gita terrena.

Son consapevoli

d’aver concorso fino in fondo

a far stupire gli uomini

e colorare il mondo.

 

 

 

 

 

L’AQUILONE

 

Un esile ma robusto filo

ci lega l’uno all’altra

e tu mi conduci senza esitazioni,

ed io posso andare più in alto

e scorgere paesaggi sublimi., bellezze mai viste.

Corri veloce

ammiro il mondo oltre la collina,

al di là delle montagne fino al mare

dove il cielo dona voce solo al mio respiro

mentre l’infinito abbraccia i miei pensieri.

Qualche nuvola all’orizzonte

accompagna il mio volo sempre più leggero

ed il vento mi sostiene l’anima

innocente e bambina in questo cielo azzurro,

più su di così io non sono stato mai.

Non so se le mie ali sono davvero forti,

o sei tu che mi incoraggi,

da quassù ogni segreto,

ogni promessa,

sembrano più veri, non arriva la cattiveria degli uomini.

Di quella terra lontana non scorgo più nulla,

quasi fosse ormai dimenticata e perduta

qua in alto tutto sa di eternità,

sto assaporando lentamente

la magia che mi circonda.

Vorrei descriverti ogni cosa che vedo

trasferendoti le emozioni che provo

ma tu continui sempre a dirigermi,

non ho paura di volare, sai

mi sei vicina nei pensieri.

Ora conosco i desideri del cuore

vivono scolpiti in me

ed io volerò per sempre

e ti porterò con me ovunque

al di sopra di queste montagne, oltre l’orizzonte

nello spazio infinito.

 

 

 

 

 

TU

 

Tu!

un vento gelido che consuma il respiro,

un bacio di lapide

dal sapore di terra,

tu mi indichi il cammino verso la morte.

Tu!

sei la notte del vampiro

che sorge dalle macerie della mia disperazione

triste riflesso di luna piena,

tu godi della mia rassegnata sconfitta.

Ma tu non sai

di quella scritta scolpita sul legno

di un ulivo arso dal vento,

che perde sangue lasciando un segno eterno di riscatto:

Sangue innocente di perdono, non di condanna.

Dopo tre giorni scaraventato fuori dalla tomba

slegato da ogni legame mortale.

Tu sconosci

che quella morte mostrava la vita

non più pioggia di dolore ma riso di angeli

in quella croce la definitiva vittoria.

 

 

 

 

 

C’È QUALCOSA

 

C’è qualcosa che immagini

quando sei bambino

e che poi perdi da grande.

È una sensazione magica

figlia della tua innocenza

vivida d’una luce quasi immortale.

Ma se da adulto riuscirai a ritrovarla,

davanti ai tuoi occhi

come per incanto si aprirà l’universo.

E le sue leggi lo governeranno con amore

e sarà armonia

bellezza cosmica.

L’oceano non ti farà più paura

e vorresti essere una goccia d’acqua

per unirti al mare.

E scoprire il tutto

essere in simbiosi con la natura

ammirarne il fascino.

Vorrai dare agli altri

la ricchezza che avrai dentro,

fino ad entrare in comunione con Dio.

Sentirai il bisogno di parlargli nel silenzio del tuo cuore

ringraziarlo per averti donato la vita

con le sue meraviglie sempre nuove.

 

 

 

 

 

SOGNO SVANITO

 

Sono in un prato,

un grande prato fiorito,

pieno di pace

e silenzio,

lì vedo i miei sogni perduti

impossibili

finiti.

Ci sei anche tu con essi

mi tendi le braccia con i capelli al vento

accenni un sorriso

ed io ti corro incontro,

ma di colpo mentre sto per sfiorarti

il mio sogno si spezza,

e il prato ridiventa il mio letto.

Il cielo torna ad essere un bianco soffitto,

tutto intorno si trasforma

il sole diventa luna,

il giorno notte,

ed è caos nella mia mente,

tormento nel cuore,

mi ritrovo solo.

Non più il tuo sorriso

ma lacrime nei miei occhi,

quella brezza leggera è ormai vento freddo sul mio viso,

addio mio dolce sogno inghiottito dalla realtà

di te mi rimarrà solo il ricordo

e la speranza di incontrarti di nuovo,

intanto mi consumo nella mia tristezza.

 

 

 

 

 

AD UN PASSO

 

La tua esile figura,

trasfigurata nello specchio dell’universo

come spicchio di luce scende dall’alto

e attraversa cieli

strati di lucide gemme.

Entra così nel giardino della mia vita

fiore rigoglioso che affonda radici

nella terra della mia carne,

mutando destinazione

orientandosi su di me.

Ed è amore

puro

asceso come in un vortice

alimentato dalla forza della speranza,

pervaso da particelle fuse di materia.

Imponente figura

regina e sovrana

giri le spalle

all’ultimo sguardo della tristezza

ormai

ad un passo dall’amore immortale.

 

 

 

 

CONCHIGLIA

 

Come una conchiglia

che racchiude in sé

i profumi e i segreti del mare,

attendi che le mie mani calde

si posino su te,

forti e gentili,

per raccogliere la tua essenza.

Spuma di mare e salsedine sulla mia pelle,

accarezzi il mio involucro

fragile eppur millenario con te vicino

mi osservi mostrandomi la tua fiduciosa nudità,

per poi sussurrarmi all’orecchie

suadenti parole d’amore

in un mistico erotismo.

Portami con te

nell’intimità di un pensiero ribelle,

cullami,

come onda che lambisce le coste,

scaldami,

con carezze e sguardi penetranti

infine vivimi.

Tu sarai per me fantasia che non teme realtà

ed io sarò per te complice silenzioso e compagno di giochi

di fughe e ritorni,

innocenze e malizie

brezze di desiderio

che spirano gioiose

e rallegrano il cuore.

E saremo

semplicemente noi,

attimi di vita,

creature senza tempo

anime viventi

liberi

indelebili.

 

 

 

 

 

ISTANTE ETERNO

 

Mi svegli di soprassalto,

la notte è carica di misteriosi segreti.

Esco dalla mia morbida tana

ed inseguo una fata irrequieta.

Mi conduce lì,

in luoghi soavi ed incantati.

Boschi incontaminati, fiumi e laghi scintillanti

profumi nascosti eppur quasi reali.

Lì incontro gli elfi, mitiche originali creature

e anche gnomi, folletti, e tanti strani esseri sconosciuti alla realtà.

Rimango a braccia aperte sotto cascate d’acqua cristallina

poi volo libero tra vulcani e nuvole.

Guardo affascinato ma non domando nulla

non oso chiedere dove sono.

So soltanto che è stato un istante eterno,

spazzato via troppo in fretta dalla bufera della vita.

 

 

 

 

 

SUSSURRI

 

Solo sussurri

parole senza voce

sovvien la morte,

riverberi di luna

a illuminar la notte

ritagliano paure ancestrali.

Occhi negli occhi

scorre l’ultimo sangue

mani giunte in preghiera,

antiche speranze in Dio

amor oltre la vita

sigillato in eterno.

 

 

 

 

IL GIOCO DELLA MORTE

 

Si è fatta bella

la morte,

che con mano gentile

dell’inferno m’ha schiuso le porte.

Stanotte ha indossato per me

l’abito da sera,

soffiandomi lieve sul viso

un alito di primavera.

È Bella!…È santa!… Così vestita da puttana,

giarrettiera, pizzo e calze a rete.

Con mosse seducenti s’aggiusta la gonna tra le gambe,

mentre si aggira furtiva con la sua falce intorno a queste tombe.

Intenso il suo odore,

inebria come vino l’aroma del peccato,

gocce di mistero i suoi occhi,

sensuale si manifesta il profumo del tormento.

Malizioso e penetrante il suo sguardo grigio fumo

m’ ha legato con robuste catene

e posseduto sull’altare del piacere

attimo di fugace emozione.

Come rito sacro

di gran sacerdotessa,

intenta a celebrare

messe nere.

Pezzi di carne cruda

e sangue offerti in sacrificio,

calice di fiele per acquietare

l’ansia nell’oblio.

Incantevole, dolce ella appare

e io l’ho amata

su un letto di passione impudica e discinta

intensi orgasmi i nostri tra lenzuola di seta,

nettare d’ambrosia e miele il suo calice.

È cosi bella….Così dolce ….Mio Dio !

sul viso vivida

risplende una luce.

Sembra innocente e pura

come una bambina,

il mio nero angelo

invece mi tenta come una sfrontata sgualdrina.

La cerco!… La voglio! … La bramo!…

non conosco il suo nome

ma in silenzio

la chiamo.

Da questo mucchio di cenere e ossa

dove è sepolta sotto nuda terra,

la mia sconsacrata fossa

è già pronta.

Leggera come un’odalisca

ella volteggia su opposti cieli,

sinuosa muove i passi di una strana danza,

sventolando lunghi veli.

È allegra…libera… e mi sorride!

Mentre cerco di afferrarla con le dita scheletrite:

“Dimmi come ti chiami!” le chiedo finalmente,

me lo scrive con rossetto color porpora

su una lavagna azzurra

illuminata da una stella:

“Amor mi chiamo io! E dolore è… l’eterno compagno mio”

mi risponde.

 

 

 

 

PREGHERÒ

 

Pregherò per chi mi ha creato

e per te che mi sei sconosciuto,

per chi nel deserto arso dal sole

brama un sorso d’acqua

e per chi nel freddo degli inverni

batte i denti esposto alla neve.

Pregherò per chi crede di cambiare

qualcosa con una guerra,

e allo stesso modo pregherò

per chi suda nella valle della vita,

mentre scuote con fatica

le zolle della propria terra.

Pregherò per chi cura le piaghe del corpo

non vedendo le ferite della propria anima,

pregherò anche quando da te

sarò cacciato, non capito

perché solo di parole sarò vestito

e di fede consolato.

Pregherò accettando

il tuo passo nel mio confine

condividendo senza spartire,

imparando a servire prima di mangiare

porgendo rispetto perché anche tu come me

non rimanga da solo ma faccia parte di un tutto.

Pregherò per chi è rinchiuso

dentro o fuori le mura,

che sia prigioniero d’ingiustizie

o per le proprie colpe,

per chi è un re e si sente povero

e per chi è povero ma si sente un re.

Pregherò per i tuoi azzardi

perché non di sola mano sarà il peccato

ma conteranno anche gli sguardi

di chi umilia con occhi e gesti,

pregherò per chi non crede

e per chi da poco ha imparato a farlo.

Pregherò senza giudicare perché ho peccato più di te

io che non so neanche il tuo nome,

pregherò senza limite alcuno

e ancor più per chi ha offeso

nella speranza che scopra

il valore di un perdono.

Pregherò

chiunque tu sia

alla luce del sole

o nel buio di questa notte

perché tu mi abbia al fianco

qualunque sarà la nostra sorte.

 

 

 

 

 

LA BAMBOLA GONFIABILE

Per quante notti

ti ho tenuta stretta a me, mio pneumatico amore

sotto le lenzuola come una vera amante!

Ti ho baciata, accarezzata, posseduta

quanto liquido seminale ho versato su di te

e quante dolci parole d’amore ti ho sussurrate.

Eri giovane in viso con trecce infantili

seducenti le tue forme

ti mostravi sempre pronta e disponibile.

Oggi rido di te

dell’assurdità di averti comprata

e tenuta nel letto con me per così tanto tempo.

È stata solamente follia

o la mia solitudine forse è la chiave d’ogni risposta

ma non c’è nulla di logico in questa pazzia che è la vita.

È la mente umana

specie la mia nella propria lucida follia

ad esser così ammirevolmente imprevedibile.

 

 

 

 

 

CARITÀ

 

Siede un mendico

lungo la strada

con voce querula

tende la mano.

Passan le donne

lo sfioran gli uomini

nessuno sguardo

verso il vecchio scarno.

Eppur egli tende

più smunto il viso

sempre protesa

la mano tremante.

O perché mai

indifferente l’uomo

alla miseria resta

del proprio fratello?

 

 

 

 

 

ATTESA

 

Felici tanto

al tremulo trillar d’un campanello

i bimbi escono da scuola.

Ed erra una gran gioia tutta intorno

che irrompe impetuosa nel cortile

fra dolci braccia trepide d’attesa.

È tutto un luccichio di mille speme

di palpiti e d’amore

su cui sorride intatto l’arco dei cieli.

 

 

 

 

MIA STREGA

 

Balla mia strega

balla per me muovendo più forte i fianchi

balla con il corpo e con l’anima.

Balla sotto questa luna piena

colora d’argento i miei sogni

nei tuoi occhi vedo riflessi cosmici diamanti.

Non ho bisogno di bere il tuo filtro

mi hai stregato solo con lo sguardo

mi hai in tuo potere ormai.

Riempimi i sensi e l’anima di te

abbandonati tra le mie braccia

e regalami la tua follia per sempre.

 

 

 

 

 

LA BELLEZZA DEL SILENZIO

 

Chiuso in un silenzio

senza fine

la solitudine mi fa compagnia.

È bello il silenzio

è di una bellezza

che fa paura.

 

 

 

 

 

COLORI SPENTI

 

Tu, bambino che abbracci un fucile e spari,

dimmi cosa guardi lassù.

Io vedo solamente un cielo di fuoco che illumina la notte,

cammino tra i campi ed urto contro… la morte.

E tu, bambino che schiavo fai la guerra imbracciando un fucile,

dimmi, raccontami di quando nei prati vedevi fiori bianchi.

Io… non li vedo più!

osservo solo occhi che non guardano più alcun colore,

orecchie che non sentono più alcun rumore

cuori che non provano più alcun dolore.

Erba spezzata, prati calpestati, fiori contaminati.

Io bambino Italiano chiedo a Dio per te,

un infinito giardino, che risvegli il tuo cuore e ti riporti a giocare.

 

 

 

 

 

OCCHI SENZA LUCE

 

Ti guardi riflessa allo specchio,

sei bella ancora,

ma come sei diventata adesso? Sembri anestetizzata

chi sei? Fuggi da questa tua vita vuota.

Hai il viso di sempre,

i gesti, le smorfie

non son cambiate,

ti manca il sorriso lo so

ma sei tu, positiva, anche se credi di non esserlo

sei quella di prima,

la stessa che un tempo correva felice, eri un mito per me

ingenua, innocente, serena

con gli occhi pieni di sogni,

diamanti di luce

sei sempre tu, speciale, non immagini quanto

son solo passati due anni!

tu non puoi sentirti già vecchia, inventa di nuovo la vita.

Hai cercato la tua libertà senza sapere mai dov’era.

I sogni

ti sono stati rubati dal destino

e tu,

sei da sola nel mondo,

fantasma vagante senza pace

inquietudine nell’anima.

Dolore?

Sì,

tu l’hai conosciuto, vissuto e forse ti ha fortificato

ma ora non è tempo di morire come credi.

Devi reagire alle ingiurie e ai malanni che ti stendono,

risorgere dalle macerie: morire è il nulla

chi vive può ancora sperare.

Vedrai cambierà solo se tu ti ritroverai

e ritornerai ad essere quella di ieri in una casa che non sia solo tua.

Adesso anche gli occhi

sembrano spenti, svogliati

e non è rimasto che vuoto,

un corpo riflesso allo specchio,

privo d’identità, senza reazioni

che non sa chi sia, ridotto ai minimi termini

giovane ancora,

ma vecchio dentro,

vivo

ma senza sangue nelle vene,

con un viso che non sorride

e due occhi senza luce.

 

 

 

 

 

MELODIE DEL CUORE

 

Ho riascoltato oggi,

dopo anni,

una musica che non sentivo più:

liuto, violino, arpa e chitarra.

Una cascata di suoni

che prima, la mia tristezza,

mi impediva di apprezzare;

le scale di chitarra

percorse da dita alate;

i trilli del violino

suonati da un archetto fatato;

le note del liuto

toccate con dolce armonia;

le fantasie dell’arpa

cercate fra una miriade di corde;

ma la mia anima, prima, non era serena;

e non c’è mente più chiusa di quella

che non si vuole concedere!

Ma oggi, di nuovo,

ho apprezzato quelle melodie

e che gioia sentir cantare nuovamente il cuore!

 

 

 

 

 

LA VOCE DEL CREATO

 

Musica nell’universo

come di mille strumenti

agli occhi nascosti

ma palpitanti di ancestrali note.

Armoniose spirali si diffondono,

vagano sospinte dal vento,

cullate dalle onde del mare,

vestite della tenerezza di un’alba,

del riverbero infuocato di un tramonto.

Melodie piovono dal cielo stellato,

scivolano sui raggi di luna

e si librano nel silenzio della notte

come nenia al sonno degli umani.

Suoni sublimi rapito percepisci

se incontri il languido sguardo di una donna

o il candido sorriso di un bambino,

se chi soffre con gli occhi ti ringrazia,

grato apprezzando una tua carezza.

Non soltanto gli artisti hanno sensi

per cogliere il bello della vita:

basta lasciare fuori da se stessi

il fragore del mondo

ed ascoltar la voce del creato,

di ciò che ci circonda e che ci parla

di quanto la Natura ci ha donato.

 

 

 

 

 

 

STILLE DI SENTIMENTI

 

Stille di sentimenti

imperlano i miei occhi,

scavano solchi sul viso,

scendono lunghe e piovono

su questo foglio vuoto.

Lacrima il mio pensiero,

piange il ricordo

di un passato lontano

che più non può tornare

immobile come mummia imbalsamata.

Di quel che avevo in mano

e distratto lasciai cadere,

di ciò che allora non colsi

ed incosciente sciupai

nulla più mi rimarrà.

 

 

 

 

 

 

GLI OCCHI DI UN BAMBINO

 

Guarda la luce

negli occhi

di un bambino,

osservane la purezza,

la voglia di scoprire,

l’innocenza.

Guardala attentamente,

fanne tesoro,

proteggila,

è il riflesso d’un angelo,

melodia del paradiso,

ninnananna e girotondo di eternità.

Solo quella luce autentica

riuscirà a rimetterti

in pace col mondo,

sarà l’unica ragione

per cui valga la pena

vivere e sperare nel domani.

 

 

 

 

ELEVATI POETA

 

Elevati, poeta!

agita forte le ali della fantasia

e portati in alto,

dove non giunga il rantolo

di questa umanità morente,

il fragore delle armi,

la disperazione degli oppressi.

Allontana dallo sguardo

le brutture di un mondo

contaminato e contorto.

Immergiti nell’argento lunare

e fatti specchio per riflettere

su questa derelitta terra,

un raggio rubato al sole

che illumini le menti

e sia speranza d’un futuro migliore.

Eleva, ispirato Aedo,

un canto di pace che come neve

scenda ad ammantare le valli

ed addolcire i cuori.

Celebra la Natura,

che pur maltrattata e stanca,

ogni giorno si veste di bellezza

per far felice l’uomo.

 

 

 

 

 

 

I VECCHI

 

E guardo questi volti stanchi

il mio cuore e la mia anima

si aprono a nuove sensazioni profonde

di indicibile tenerezza

che mi conducono alla scoperta di un mondo

a me prima sconosciuto.

Provo a ridisegnare la vita di ciascuno di loro

anime vaganti in un limbo immaginario

ma così terribilmente reale

quasi tangibile.

così disperatamente soli, avviliti, scoraggiati

invecchiati di fuori ma tornati bambini di dentro.

Menti brillanti un giorno ormai lontano

ora prigioniere di se stesse

dove le parole che escono dal cuore

diventano solo suoni col sapore salato

delle loro lacrime non viste,

vecchi considerati morti ancor prima di esserlo.

Sarebbe così semplice capire, provare nella profondità di noi stessi

tutti i sentimenti che ci propongono

inconsapevolmente queste anime silenziose

che forse non hanno avuto il tempo di dire, ieri:

“Io vado. Esco di scena.

Ti lascio il palco della vita; il prossimo atto è tuo”.

 

 

 

 

 

 

 

SCONVOLGIMI

 

Trascinando la mia anima per i capelli

portami negli oceani più tumultuosi,

facendo ondulare nelle profondità

il mio esile essere come un fuscello.

Poi di corsa

trascinami nei deserti più arroventati,

con migliaia di serpenti ai miei piedi

in modo che io possa atterrirmi.

Quando tu mi prendi il cuore e lo stomaco

sei peggio di un cancro

non hai pietà

mi annienti, mi distruggi.

Spingimi da altissime cascate

e lanciami giù per lasciarmi affogare nelle acque impazzite

facendomi percepire il vuoto assoluto

più terribile della stessa imminente fine.

Segregami in caverne

popolate da infimi animali

che possano succhiare

quasi tutto il mio sangue.

Fammi sostare in vallate sconfinate perennemente ghiacciate,

abitate da enormi rapaci

pronti ad affondare i loro poderosi artigli

nella mia povera carne.

Sii spietata e crudele con me

perché sai esserlo se vuoi

questa è la tua essenza di donna angelica

pronta all’occorrenza a diventare diabolica.

Svegliami nel cuore della notte

accelerando i miei battiti all’impazzata

e poi via nelle foreste più nere

tra il rumore assordante delle piogge battenti.

Voglio che tu mi faccia sentire

il suono minimale della follia,

mordimi quando fai l’amore con me

mischia sangue e orgasmo, orgasmo e sangue.

Fammi raggiungere le cime delle montagne più alte

ed ascoltare il fortissimo sibilo del vento,

poi giù nelle grotte più oscure e remote

dentro l’occhio di uragani giganteschi.

Sarò nudo come un verme

ma tu indifferente ai miei lamenti

mi lascerai schiavo di dolorose tagliole

coi miei piedi lacerati da piaghe.

Insieme a te avrei voluto tante volte morire,

guardami!

mi è rimasta soltanto

un po’ di compassione per me stesso.

Se mi farai tutto questo

io ti amerò di più,

amore mio

sconvolgimi!

 

 

 

 

 

 

PICCOLO RIVOLO

 

Ascolto il ruscello

mentre lento ma eterno

scorre assieme ai miei pensieri,

ai ricordi di una vita.

Gocce distillate

dal suono fresco di purezza

scendon giù dalla montagna

per finire chissà dove.

Solo io e te piccolo torrente

potessi seguirti,

tornando ad esser innocente bambino,

e lievemente carezzar le tue sponde.

Percorrere strade di verità

che solo tu sai attraversare

che noi umani abbiamo da tempo perdute

sulla nostra zattera ormai alla deriva.

La sapienza è sconfitta

la ragione calpestata,

è la speranza del domani che è morta

e con essa l’amore.

Ormai niente di questo mondo

somiglia più a te, casto ruscello!

Lascia che io stia qui vicino a te piccolo rivolo

ad imparare cose che solo tu puoi dirmi

con la musica delle tue limpide acque

col silenzio delle tue magiche parole.

 

 

 

 

PRIGIONIERO

 

Non ho mai chiesto di esser nato

ma è ugualmente avvenuto,

non è quello che volevo

indossare ogni giorno una maschera diversa

tanto da non sapere più chi sono

per chi vivo e perché.

Prigioniero di questo corpo

prigioniero di questa anima

prigioniero di questi pensieri

pensieri che ogni giorno si infrangono in me come onde forti

spinte dalla rabbia del mare

senza smettere mai.

L’odio, l’amore

la vita, la morte

la gioia, il dolore

che senso c’è in tutto questo?

se non il fatto di essere prigioniero di me stesso

prigioniero sino all’ultimo respiro.

E poi alla fine di questo incubo che cosa resta?

Una fredda tomba?

Solo il pensiero della pace

può darmi sollievo

quella pace che non ho mai avuto

da prigioniero di questa carne,

una pace vera, finalmente!

senza più onde.

 

 

 

 

 

DI NOTTE

 

Di notte tutto è diverso,

e cambia aspetto

e anche il freddo

può divenire calore.

Di notte tutto è più intimo,

c’è chi si abbraccia per dormire,

chi per passeggiare,

chi per far festa,

e anche un randagio,

cane o uomo che sia,

può suscitarti tenerezza.

Di notte puoi essere quello

che di giorno non sei,

forse perché non ne hai il coraggio,

c’è chi si spoglia di quelle vesti non sue

obbligato ad indossarle col sole

finalmente libero di essere se stesso.

Di notte puoi sognare,

nasconderti

amare

fare ciò che la mente vuole

ed entrare in contatto con anime

che di giorno non puoi mai vedere.

Di notte tutto è più romantico,

ti guarda la luna dal cielo

e brillano su te le stelle

torni dentro le favole dei bambini.

Di notte fai l’amore nei posti più incantevoli,

in quelli più assurdi

spariscono i tabù, si cancellano le inibizioni.

Di notte rifletti

preghi

crei opere d’arte.

Di notte non ci sono fantasmi

esistono solo di giorno nella tua psiche

ma con l’aiuto delle ombre puoi liberartene.

Altro che tenebre,

la notte è vita,

magia.

Di notte ti ritrovi,

di notte vivi

di notte avverti le emozioni più forti.

Di notte tutto è possibile.

 

 

 

 

 

VAGO

 

Vado

ma in realtà vengo sospinto,

verso un destino ignoto

e vago senza luce;

avanzo a passi incerti,

non ho meta,

neppure so dove la via conduce.

Spesso smarrito

guardo alle mie spalle,

alla già lunga strada che ho percorso

ed avvilito resto a meditare

quanto del tempo mio

sia già trascorso

e quanto ancora me ne rimane.

Rivivo ore di dolore e gioia,

rivedo visi amati,

e sento a volte in lontananza

suoni di campane

scandire l’ore al buio della notte

quello stesso suono che avvertivo

nelle mie inquiete notti di fanciullo.

Mi ritrovo di colpo

ragazzo spensierato,

giovane speranzoso ed incosciente,

capace d’inseguire con coraggio

sogni che dominavano la mente;

non so esattamente cosa mi prende

ma in quegli attimi io mi sento rinascere.

Ma cosa resta in fondo

di ciò nel mio presente?

forse un po’ d’esperienza ormai acquisita

qualche gioia che mi diletto a ricordare,

tristi rimpianti d’un’età beata

ma nulla più

che possa riempire questo incolmabile vuoto.

Vorrei sedermi un poco a riposare,

ma l’impietoso tempo non consente:

bisogna andare avanti senza pause,

incontro all’al di là, a cercare il niente,

darei miniere di soldi, maturità e saggezza dell’età adulta

pur di riavere in cambio anche solo un briciolo

della mia perduta adolescenza.

 

 

 

 

 

VOCI NOTTURNE

 

Scende la notte

sulla valle intorno

brillano in cielo

da lontan le stelle

la vita immersa

in un languor di pace.

Pur nel silenzio

voci vaghe s’odono

a tratti

altre

più ancor

distinte.

Fremiti di fronde

gracidii di rane

squittir d’alati

e d’animal notturni,

poi silenzio assoluto, più ombre e nulla

e fioche luci lontane.

O immenso buio

chi può dirmi

se riposa alfin

ciascun mortale

e se son pianto

le notturne voci?

 

 

 

 

 

 

SORRIDI

 

Sorridi!

Il tuo sorriso

illumina la stanza.

Sorridi!

È un giorno in bianco e nero

che si veste di arcobaleno.

Sorridi!

E l’uva si fa vino

il grano pane.

Sorridi!

Come un bambino che gioca

come una ragazzina nel suo primo amore.

Sorridi!

I primi raggi del mattino

han già vinto le ombre.

Sorridi !

La tristezza andrà via

ogni lacrima scomparirà dai tuoi occhi.

Sorridi!

Fa’ che ci sia allegria nel cuor

non abituarti mai al dolore.

Sorridi!

Fino a stancarti le labbra

mostrando i denti.

Sorridi!

Fino a quando non ti addormenterai

sorridi ancor e sempre.

 

 

 

 

 

 

VOLARE IN ALTO

 

Tentare, osare, ardire,

senza posa cercare,

nulla dietro lasciare.

Non affogare nella tristezza

reagire senza mai arrendersi

credere in se stessi.

Degli audaci è la vittoria,

di chi al cielo dirige lo sguardo

e mediocrità disprezza.

Sono i vermi che strisciano

presto preda dei rapaci

che volteggiano nell’aria.

Indirizzare la mente

verso grandi ideali,

ambire l’irraggiungibile.

Inseguire i propri sogni

anche per spinosi sentieri,

incuranti degli insuccessi.

Pretendere il meglio in assoluto,

volare alto e un dì potersi dire:

ho fatto tutto ciò che ho potuto.

 

 

 

 

 

 

A ME STESSO

Non può esser finita se non è manco cominciata!

Hai toccato il fondo, non puoi scendere di più.

La vita è fatta di alti e bassi.

Solo quando

sei nel punto più basso e non vuoi morire

puoi dire che è arrivato

il momento di tornare su

ma come si fa a risalire

se non si ha il coraggio

di cambiare?

E se cambiare

per te vuol dire solo

ritornare

al punto di partenza?

Allora datti una smossa finalmente, è colpa tua! Lo sai

non piangerti addosso e reagisci in una nuova vita che ti somigli davvero.

Forse all’inizio ti sembrerà duro o impossibile

ma poi cambierà vedrai, sarà la tua rivincita

ma solo se tu lo vorrai veramente

dipende solo da te

e da nessun altro. Puoi cambiare quello che è stato e cancellare il passato.

Guarirai solo quando lo crederai davvero

e sarai un uomo nuovo se ti convincerai di riuscirci, ritroverai la strada trasformando il destino

sì! ce la farai, tu vincerai.

 

 

 

 

 

 

L’IMMENSO

 

Né più ti basterà

guardare il granchio

assiso sulla riva,

il sasso assiderato,

il lombrico nella crepa

e svolazzi radenti

di lucustre.

E più in là, sulla battigia,

il cannolicchio pesto,

e scheletri di carpe,

e legni secchi,

come gemiti di croce,

pallide alternative al vivere

in un mondo fatuo.

Tenderai lo sguardo oltre

l’azzurro planare dei gabbiani,

dei densi fumi che chiudono

della marina l’ultimo orizzonte

ov’uomo eterna, l’arcano.

Finalmente avrai l’Alternativa

ti arricchirai d’immenso.

 

 

 

 

 

 

 

SERENITÀ INTERIORE

 

Vivi in serenità

per come ti riesce

e ricorda ogni giorno

che non può piovere per sempre.

Nelle mattine di primavera

segui con gioia

il risveglio della natura

ed il sole che diventa più giallo.

Non pensare che il mondo

sia sempre pronto a prendersi gioco di te

ma fai in modo, con tutte le tue energie

che questo non accada.

Nei pomeriggi d’estate

respira profondamente l’aria dopo i temporali

e apprezza liberando la mente

quei pochi attimi di frescura.

Con i tuoi cari e con il prossimo

sii sempre leale e sincero:

il rispetto per gli altri

è la più grande virtù.

Nelle sere d’autunno

osserva le prime nebbie

che avvolgono la terra

e comincia a mandare i pensieri lontano.

L’essere umile ti aiuterà con forza

ogni giorno

anche quando dovrai lasciare

tutte queste cose, nei momenti difficili saprai chi ti vuol bene.

E ti siano d’ausilio tali pensieri

per poter guardare il buio delle notti d’inverno

con tranquillità, con la stessa tranquillità

con cui avrai seguito il sole di primavera.

 

 

 

 

 

È LA VITA

 

Una margherita gialla in un campo di grano

guardarla e di colpo scoppiare a ridere senza motivo

che buffo!

e sentirsi improvvisamente bambino

e ridere, correre, aver voglia d’abbracciare

tutto ciò che s’incontra per la strada:

un cavalluccio marino sulla sabbia

una giornata di vento,

un mandarino sull’albero,

mille chiese

una rondine che vola

sola!

Tutto sembra un meraviglioso e pittoresco quadro

dipinto di colori coi pennelli

dal più grande artista di tutti i tempi.

E continuare a guardarsi intorno

scoprendo ogni cosa con stupore e meraviglia:

un gatto sul tetto dormire come fosse in un comodo letto,

il sorriso smagliante di un viandante,

il rumore di pioggia battente, la luce del sole,

il gallo che canta, l’arcobaleno che ride,

è tutto così strano, così…magico!

È la vita,

semplicemente la vita!

le sue forme, i suoi colori, i suoi odori, i suoi sapori.

È la vita che ti prende

ti porta con sé

e voli su immagini di sogni

fantastici ed irreali

fanciulleschi e spensierati.

E non smettere proprio mai di ridere, correre, abbracciare

lo sguardo sereno si posa su ogni cosa, il mondo sembra tutto rosa

mentre l’anima si sveglia immersa nel giallo dell’autunno,

si abbandona all’ebbrezza dell’estate,

alla neve bianca dell’inverno

ai papaveri rossi di primavera.

E il pensiero corre… corre come un fiume in discesa

e s’infiamma come la brace sul fuoco

poi diviene alato come un airone libero

mentre corro senza stancarmi, guardo il cielo felice, respiro l’aria

mi sento vivo…vivo…vivo… vivendo la VITA!

 

 

 

 

 

RECITAZIONE

 

Contorti, sofferenti

i miei pensieri ballano tetre danze

nella mente sconvolta da antico dolore;

gelido il sorriso sulle mie labbra,

forzato, quasi un ghigno beffardo,

mistificazione di gioia, paravento

di un’amarezza che tutto mi pervade

e che stroncare mi vuole.

Arduo è vincere la voglia di cedere,

di arrendersi senza un grido, un lamento,

dicendo solo: basta… hai vinto!

Poi l’abbandono cede alla speranza,

alla rabbiosa riscossa, al sano orgoglio:

rispetto mi devo, risorgere occorre,

ridestarsi dal torpore!

Ed anche se a denti stretti

e nascondendo le lacrime,

mi ridipingo un sorriso sulla faccia

e riprendo a recitar la mia commedia.

 

 

 

 

 

 

VIVI

 

Vivi ogni momento

come se fosse

prossimo a sbocciare,

come il gambo

ha il suo fiore,

come l’alba

il suo sole

e poi…

viversi

sfiorarsi,

lasciarsi andare,

quanto è delizioso

sorprendersi!

Ma non temere

non c’è un tempo

per appassire,

e nel tramonto

non c’è fine

sai,

nella tua purezza

ogni vita si rigenera.

Non cercare altrove la felicità

vivila dentro di te.

 

 

 

 

 

NELLA VALLE DEI SOSPIRI

 

Notte tetra, l’anima è in tormento

nella vicina foresta sibila il vento,

occhi stanchi, tristi e doloranti

scorgono immagini aberranti,

i solchi della mente luoghi speciali

per accogliere pensieri innaturali,

sarà stanchezza o malinconia

oppure un eccesso di fantasia,

vedo gli avvenimenti del passato

che sino a qui mi han trascinato,

pezzi di un mosaico mai risolto

umana condizione che affligge molto,

come un rebus senza soluzione

ti conduce all’eterna dannazione;

rifuggo in un sonno riparatore

come una preda dal cacciatore,

la mia anima vagabonda all’infinito

cercando il sollievo che m’ha tradito,

naufrago smarrito nel mare dei pensieri

amici ambigui di oggi e di ieri,

giungo sulla riva immaginaria

di un isola fatata e solitaria,

percorro il mio strano cammino

noto solamente all’ente divino,

vedo anime raminghe e vessate

con colpe non ancora scontate,

giungono le voci e i molteplici respiri

di spiriti che abitano la valle dei sospiri!

 

 

 

 

 

NON HO ALIBI

 

E non ho alibi

in questa mia follia

spartito senza note

per muto concerto.

Non ho domande

in questo mio deambulare

nel baratro

del vuoto.

Vago nel sentore

di una parola senza senso

partorita dall’astrazione

della non memoria.

Come onda del mare

si abbatte

irruente

sullo scoglio,

così

i ricordi miei

incontenibili

tornano.

 

 

 

 

 

 

LA SOLITUDINE DEL POETA

 

Nella spirale dell’indifferenza

a denti stretti plasmi parole,

e la notte dipani nuvole di sogni

per adagiarvi morenti illusioni

crocifisse ai remi

del quotidiano andare.

Poeta, troppo spesso la tua gioia

è fatta solamente di parole:

germogli nutriti di dolore.

Vesti abiti di solitudine,

nascondi le tue delusioni

dietro maschere di cortesia,

chiuse nel bozzolo del silenzio

indelebili le tue speranze

attendono ancora il sorgere d’impossibili aurore:

sempre spente

dal cader dello sguardo nel riflesso

inesorabile dello specchio.

Sulle labbra costantemente preme

insoluta la domanda:

Quale la mia sorte?

Il senso vero di me?

sei solo poeta

molto più solo di chi ti legge.

Un’infinità di pupazzetti sparsi per casa mia

gli unici miei amici.

 

 

 

 

 

 

 

RIFLESSI DI LUCI

 

Mi perdo nei suoi occhi

nelle notti che mi mancano,

approdo nelle sue labbra

come vascello nella quieta baia,

godendo attesi ritorni

di perpetue partenze.

Rileggo la mia vita

nello specchio del suo volto,

lancio la mia anima nel baratro dell’infinito

per coglierne il senso pieno

e inalterato da scure visioni,

rapito da trepidanti attese.

Ripercorro i viali alberati,

odorosi di glicini essenze,

ritrovo garrule le rondini

e miti le primavere consumate

e tutto mi appare buono,

e tutto mi appare vero;

Dal posto del suo sguardo

anche l’universo sembra più lieve,

distanti

riflessi di luci

mi riportano indietro nel tempo

rapito da antiche memorie.

 

 

 

 

 

 

LINFA VITALE

 

Linfa vitale

uscita intatta dal tempo dei millenni

come il respiro della storia all’albe di tutti i giorni

come melodia d’infinito

rubata ai venti della tua terra

come i presagi

rapiti a nuovi orizzonti

per la salute dei vivi.

Ma la luce dei tuoi anni va oltre il tempo

ed accende riflessi nuovi

la morta gora dei secoli.

Oh, i giorni laboriosi

nella vecchia casa degli ulivi!

Intorno alle derelitte pietre

che sanno di stagioni spente

un albeggiare di primavere

accoglie l’umile ancella

mossa dal fiato di Dio.

L’esile rete luminosa

infiammerà l’infinito

ed aprirà ai secoli il nuovo tempo.

Ora

sul tuo volto d’estasi

che ogni nube dislega

l’essere profondo del tuo amore di Madre

affranca l’anelito e l’ansia dei vivi.

E non importa se dolore a dolore

ti recheranno ancora figli

domani:

come ieri, come oggi, come sempre,

le tue mani s’illumineranno di grazia

e i tuoi occhi piangeranno di luce.

 

 

 

 

 

VECCHIA SIGNORA

 

Su di un comodino scordato,

stipato in un angolo scomodo,

riposano gli impolverati belletti:

perlate polveri ed odorosi olii,

antiche maschere artificiali.

Solo Follia ora copre i tratti,

sfatti dalla voluttà e dal tempo,

truccando a suo modo il volto:

sangue sulle languide labbra,

cenere copre gli stanchi occhi.

Davanti allo specchio venato,

cerchiato di stelle spente,

scende il sipario sullo spettacolo:

malsano ghigno s’apre tra le dita,

rigide sbarre tra Lei e la realtà.

 

 

 

DOLCI SILENZI

 

Dolci silenzi mi accompagnano

mentre lo sguardo del mare

arricchisce il cuore,

libera la mente.

Parole incise in un diario

fanno da eco fra le onde,

sembrano perdersi oltre le nuvole

là dove l’orizzonte apre all’infinito.

Il vento modula suoni con la luce

non spegne il suo soffio,

tarda a morire,

si confonde in volo con ali di gabbiani.

Sotto la pelle ambrata

caldo scorre il sangue

pulsa nelle vene

e tutto si fa memoria.

 

 

 

 

 

IL MIO MARE

 

Ecco il mio mare!

Non parlerò.

Non dirò nulla.

Chiuderò solo gli occhi

e respirerò il suo respiro.

Ecco qui il mio mare,

immenso e potente,

dolce e glaciale.

Lo guardo

lasciando volare i miei pensieri,

con gli occhi seguo il suo movimento

scrutando l’orizzonte.

I miei sogni cercano chissà cosa.

Quanta magia c’è in lui!

La sua voce

è un dolce richiamo.

Ed io sono qui ad ascoltarla.

 

 

 

 

 

INCANTO DI LUNA

 

Gli occhi fissati in quel lembo

di luna rilucente a fili d’acqua

portano la mente a ricordare.

Antichi ma vivi sono i palpiti d’amore

la voce si fa lieve nel rimembrare

un grido sulla pelle ricama nuove emozioni.

Trame tessute su corpi nudi

avvolti in lenzuola di sabbia

inventano l’alba di un nuovo giorno.

Onde impazzite nel mare inseguendosi

cancellano ciò che la mente

non riesce a fare.

 

 

 

 

 

VELA

 

Silenziosa e assente

ti fai sospingere

dalla leggera brezza della sera.

Solchi i mari

sembri quasi trasparente

sospesa sull’acqua.

Solo un leggero fruscio

accompagna il tuo viaggio

nella calma del tramonto.

Sei come la mia vita

persa nel mare

della mia solitudine.

 

 

 

 

 

UNA SIRENA

 

Una sirena

in alto mare

mi ha portato il vento,

bagnata di sole,

fresca d’alga marina.

Una sirena

che intona canzoni d’altri mondi,

accorda melodie d’acque azzurre

bianche di schiuma,

profumate di salsedine.

E’ il ritmo del mare;

quando le onde

tuonano di rabbia

nell’urlo della burrasca,

nel pianto di grandine incessante.

O mia sirena!

femmina mediterranea dalle squame d’argento

compagna d’abisso d’agili pesci e crostacei,

dissipa l’inganno dei tuoi inebrianti canti,

sussurrami al cuore sincere parole d’amore.

Intanto

echi omerici mi catturano

si dibattono tragici sul fondo

trascinandomi in un sepolcro senza fine.

 

 

 

 

 

 

UNA BOTTIGLIA NEL MARE

 

Quello che scrivo

lo metto in una bottiglia

e lo affido al mare.

In fondo

non mi ascolta nessuno

non serve nasconderlo.

Verrà trasportata dalle correnti

attraverserà mari ed oceani.

senza pace proprio come la mia vita.

Qualcuno un giorno troverà quella bottiglia

e forse in quel momento leggendo quei pensieri

avrà per sempre un’emozione da ricordare.

 

 

 

 

 

 

ANIMA SOLITARIA

 

Quell’istante tra la luce del giono ed il buio della notte

dove è ancora nitida la linea dell’orizzonte

è magia, è incanto per la mia anima solitaria.

Lentamente cancella con le sue carezze silenziose

ogni traccia del giorno passato

e il suo respiro si fa lieve.

Quella luce rimasta ancora, rischiara le acque

sento in lontananza le voci dei gabbiani

arrivati per il riposo notturno.

In questo momento vorrei essere con te

ad ammirarti, a respirarti

sotto questo cielo che brilla di stelle.

 

 

 

 

 

 

 

SONO COME IL MARE

 

Sono come il mare

e per amore di esso voglio vivere.

Puoi accarezzare le mie sponde di sabbia

e farti cullare dalle mie braccia azzurre.

M’immergo negli abissi

risalendo tra gli scogli.

Emergo tra bollicine d’acqua

simili a mormorii di rosari in coro.

Saltello su distese marine felice come un delfino

fra la voce del vento e quella delle acque.

Il sole affonda fra limpide profondità

dissipando le ombre, scacciando i fantasmi.

Custodisco i tesori di madreperla

vivendo tra fiorite chiome di corallo.

Regalo a chi mi cerca

perle colorate e tempestate di conchiglie.

Sono libero come il mare

e come il mare voglio vivere.

 

 

 

 

 

 

 

LA RAGAZZINA CHE GUARDA IL MARE

 

Appoggiata al muretto

la ragazzina guarda il suo mare

attenta, rapita, sognante.

Quel sole giallo

enorme palla lucente di remoti giochi infantili

saluta il giorno che muore regalando i colori più belli.

Il mare dolcemente si trasforma in adolescente

poi in padre comprensivo

e penetra nell’anima di quella ragazzina.

 

 

 

 

 

PRINCIPESSA DEL MARE

 

Eri tu la regina sullo scoglio

venuta dal mare

sirena dai neri capelli.

Fiera e vanitosa

ti lasciasti immortalare

come principessa del mare.

Tra quelle acque limpide e lucenti

stavi quasi per asciugare

quando tornò quell’onda che verso me t’aveva spinta.

Così il mare t’ha ripreso catturandoti

lasciandomi di te

solo due squame ed un ciuffo di capelli.

 

 

 

 

 

 

MISTERIOSO MARE

 

Segni sull’acqua,

note solitarie,

disperse armonie

come lettere d’amore,

come onde svanite

al rossore di un timido tramonto.

Onda sull’onda

voli di gabbiani che si rincorrono giocando

in un unico suono,

ed io che

sulla riva ti attendo

impercettibile richiamo d’amore.

E per pochi istanti

è come se la mia anima

viaggiasse lontano dalla terraferma

per fondersi con tutti i mari del mondo,

strana sensazione che mi fa sentire

come un verme attaccato ad un amo.

Misterioso mare

dimmi chi sei e che vuoi da me,

sott’acqua

ho cercato il tuo nome,

dall’onda

emerge il tuo viso.

 

 

 

 

 

 

 

DONNA DEL MARE

 

Ella appare e scompare

donna ridente

di bianche vesti ondulate

di piedi nudi e veloci.

Avanza danzando

tra gli scogli addormentati

blu di mare,

azzurra di cielo.

Sorride

vela gli occhi tra le ciglia

allunga le ombre sulle guance

chiusa in se stessa appare profonda, misteriosa.

Poi si rivela d’improvviso

luce emanata dall’anima

festa del cuore

danza di sorrisi.

Suo è il nettare

d’un sensuale richiamo cullato dal mare

inebriante aroma

liberato nel sole e nel vento.

Avanza ondeggiando i fianchi

morbidi e rotondi,

dolce nei gesti

infantile nei sogni.

Nei ricordi antichi che prepotenti riemergono in superficie

il suo ventre suona e risuona

chiama e richiama

si muove, sorride, libera se stesso.

E’ un attimo soltanto

e poi di nuovo ella fugge via e si vela

scompare

nascondendo la sua figura oltre la linea dell’orizzonte.

Sei sparita un’altra volta donna del mare

tua è la pienezza e la bellezza

tuo il profumo della carne e dei sensi

la gioia della vita e dell’amore.

 

 

 

 

.

 

 

IL MARE AMANTE

 

Dolce ed impetuoso

come un’amante.

Ti guardo.

mi affascini.

La tua voce

entra nella mia mente.

Mi lascio accarezzare

dalle tue onde che t’allontanano e riportano da me.

Brividi,

sulla mia pelle.

Il tuo continuo movimento

culla i miei pensieri.

Li porta via laggiù

dove l’orizzonte si confonde con il cielo.

Amami finchè vorrai,

amami e saprò chi sei!

 

 

 

 

 

BREZZA MARINA

 

Lì sul ciglio,

assorto nel silenzio,

ascolto il canto del vento

e con mute parole

dipingo il mare a mio piacimento.

Mare e vento

da sempre complici ed antagonisti,

son la personificazione di attori e registi

in uno scenario naturale

straordinario.

La visione è così spettacolare

sortisce su me un effetto magico

apocalisse interiore e meravigliosa ricostruzione

oggi, come loro,

anch’io sono reso immortale.

Spumose onde si rincorrono

in una danza perpetua

per poi schiaffeggiare lo scoglio

graffiandolo,

umiliandolo senza pietà.

Nell’impatto

stille marine

si posano sul viso,

mi ristorano

da quest’arsura opprimente.

Brezza marina,

ora tocca a te!

inebriami col tuo potere!

rendimi libero e schiavo

irradiami d’infinito.

Coriandoli d’acqua salata,

rapiti dal celere vento fluttuano sull’azzurro tappeto

andando altrove fino a dissetare sua maestà il Re Sole,

immobile spettatore

da sempre assoluto padrone e gran signore!

Inchiodato lassù nel cielo,

riscuote piacere

e splendendo,

a modo suo,

gode!

 

 

 

 

 

 

 

MAREE

 

Noi siamo maree,

vivi e liberi come onde i nostri pensieri

a volte sommersi da potenti tempeste

altre cullati da dolci zeffiri.

Ma vi è qualcosa di straordinario e grande:

un pensiero unico, travolgente

che cerca il naufragio e non l’approdo,

così fuggente e folle

da essere eterno,

così intenso e imprevedibile

da essere amore.

 

 

 

 

 

 

 

A TE MARE

 

Se solo sapessi esprimere a parole

il sentimento che susciti in me

quando ti vedo

o mio adorato mare.

Quanto spettacolo

nel vedere la tua calma e serenità,

sei celeste e limpido come un neonato,

sembri immune dalla cattiveria di questa vita.

Se solo sapessi

quanta pace infondi nel mio cuore selvaggio.

come mi somigli quando sei agitato,

vorrei avere la tua forza, impeto travolgente   e implacabile che tu solo hai.

Se solo sapessi rinascere e diventare delfino,

per poter solcare i tuoi fondali

lasciandomi travolgere dalla schiuma delle tue onde,

sentirei sulla pelle le tue correnti prima calde e poi fredde.

Tu sei come il mio faro nella notte più scura,

il sentiero più sicuro nel maremoto della confusione,

dolce pensiero di liberazione

quando la solitudine attanaglia il mio cuore.

Non resta che sperare di incontrarti ogni notte nei sogni…

per dare a te o Mare

quella potenza d’amore inespressa

che vibra da sempre dentro di me.

 

 

 

 

 

 

 

SOLO NOI DUE

 

Mare,

oggi ti ho incontrato di nuovo,

in silenzio

ho ascoltato la tua voce.

Il mio sguardo

spazia libero nella tua immensità,

i tuoi colori sempre nuovi ai miei occhi

mi hanno riempito il cuore e l’anima.

Sei calmo, sereno, invitante,

ho accettato la tua chiamata

e mi sono immerso nelle tue acque

sempre così fresche.

Ogni pensiero

si è allontanato,

eravamo solo noi due

in queste prime ore del mattino.

Intorno,

il nulla.

 

 

 

 

 

 

 

NEL FARO

 

Nel faro

i nostri corpi amanti,

come ombre cinesi,

spaziano isocroni

nel futuro infinito,

scanditi lampi di luce

girando nel nulla

accendono desideri

oscurando l’amore.

L’estasi

proietta lontano nel tempo

costellazioni d’amore

per folli amanti.

E il tuo gemere

risuona in me,

ora,

come la risacca

nel mare.

 

 

 

 

 

 

NON SMISI PIU’ DI AMARTI

 

Immerso nel tuo grandioso ventre

popolato da anime colorate

che vivono in te,

mi hai accolto

senza fare domande

nelle tue limpide e chiare acque.

Sei apparso

come un’immensa madre

o forse come una bambina,

dalle tue onde

che mi accarezzano il corpo,

inerme mi lasciavo coccolare.

Sono rapito ed estasiato

la mente mi riporta indietro nel tempo,.

alla prima volta che ti vidi

quando ancora bambino

mi conquistasti all’istante,

provai subito per te un amore profondo.

Leggiadro

mi abbandonai sulla battigia,

i miei occhi rivolti al cielo,

catturati dal volo di gabbiani

che volando in alto

sembravano rincorrersi per gioco come angeli bambini.

Mare

io non smisi più di amarti!

 

 

 

 

 

 

 

CANZONI DEL MARE

 

Fermati sulla spiaggia,

ascolta la melodia del mare!

Pensa

che racchiusi sul fondo di esso

esistono mille segreti

vivono incontaminate bellezze,

un mondo irreale,

quasi finto,

magico,

inesplorato.

In quei profondissimi fondali

anche nell’oscurità più totale,

pullula la vita

d’esseri minuscoli ed enormi,

strani e fantastici,

creature mai viste

inventate da nostro Signore

che appartengono solo al mare.

Ma se hai orecchie anche per udire,

nel silenzio abissale degli oceani,

sentirai le canzoni piu belle.

note antiche di vecchi pirati,

che parlano di donne

e di battaglie, di tesori sommersi.

Canzoni un po’ stonate,

piene di speranze, di sopravvivenze affidate al mare,

con mani seccate mai dome di pescatori appassionati

che sanno di sale, stanche di fatica.

Canzoni romantiche e tenere

d’innamorati incollati

a guardare tramonti morire

e gustare felicità nascente nei cuori.

Canzoni che le onde spumeggianti

trasportano lontano oltre il sole

e che i gabbiani scuotendo le ali

disperdono nell’aria.

In questa notte d’inverno

ci sarà sul fondo

una canzone in più.

La mia voce

arrivera’ dolcemente a te

e questo scrigno

fatto di acqua salata

sarà poesia per me.

 

 

 

 

 

 

PARLAMI

 

Parlami, mare!.

Raccontami le tue infinite storie,

fammi partecipe del tuo mondo.

Ammiro la tua bellezza,

mi spaventa la tua potenza,

mi cattura la tua immensità.

Le tue parole mi arrivano con le onde

s’infrangono nella mia mente

e mi fanno sognare.

 

 

 

 

 

 

IL MIO SOGNO

 

La spiaggia al tramonto.

Cammino

solo con me stesso,

il respiro del mare

accompagna il mio,

il suo profumo

inebria la mia mente,

un gabbiano

vola all’orizzonte.

Mi fermo,

guardo il suo volo,

come vorrei poter volare anch’io

andare lontano

raggiungere il mio sogno

e non tornare

mai più.

 

 

 

 

 

 

 

 

SOSPESO

 

Ti guardo.

seduto davanti a te,

sento il tuo respiro

calmo.

La mia vista

spazia fino all’orizzonte

là dove ti unisci al cielo

e i suoi colori si riflettono nelle tue acque.

Starei ore ad ammirarti,.

in silenzio

seguo il tuo movimento,

lento, continuo, le tue onde arrivano lievi.

Mi avvicino,

lentamente allungo una mano

avverto la tua presenza

sento la tua carezza.

Mi sdraio sulla sabbia

ad occhi chiusi

ne aspetto un’altra

e un’altra ancora.

Mi lascio scivolare via

tu mi accogli,

sento il tuo abbraccio

il mio corpo perde peso.

Sono sospeso

sopra di me l’immensità del cielo.

come ritornare protetto nel grembo materno,

rivivendo quegli attimi ovattati.

Poi dolcemente,

mi riporti a riva

mi adagi sulla sabbia

mi regali. le tue ultime carezze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TU CHE AMI IL MARE

 

Tu che ami il mare

e ne fai parte.

Tu che voli con ali leggere

e ti lasci trasportare dal vento.

Le tue grida si confondono

con la voce del mare.

E quando sei stanco

ti adagi sulle sue acque facendoti cullare.

Che voglia avrei di seguirti,

di volare con te e sentirmi libero!

Ti regalo un mio pensiero,

portalo con te.

Sopra questo mare,

nel vento.

 

 

 

 

 

 

 

L’OCEANO DELL’ANIMA

 

La felicità

spesso ci raggiunge in silenzio

nei momenti più impensati

della nostra esistenza.

Arriva come un gabbiano

spinto dal vento

e rimane con noi

se non la turbiamo coi nostri pensieri.

L’amore

è come un’onda del mare

che può infrangersi prima del tempo.

Non sarà perduta per sempre dentro di noi,

prima o poi

una nuova onda raggiungerà la riva.

Tutta la nostra esistenza è avvolta nel mistero

proprio come la profondità del mare.

Nei suoi abissi inesplorati

vi è il luogo dove s’incontrano

due realtà della vita:

quella che riusciamo a vedere coi nostri occhi

e l’altra velata dal buio.

Ma nella nostra anima

vive un oceano immenso, potente, sconfinato.

E la nostra immaginazione diviene eternità

spazia nell’infinito

varcando qualunque orizzonte

libera di sognare e di amare.

 

 

 

 

 

 

IL RESPIRO DEL MARE

 

Com’è bello il mare all’alba!

La spiaggia deserta,

l’onda che l’accarezza dolcemente,

il sole all’orizzonte che nasce,

l’aria ancora fresca.

Passeggiare sulla riva,

ascoltare il suo respiro,

sentire il suo profumo

così intenso.

E poi fermarsi

e rimanere a guardare

questo immenso continuo movimento

fin dove l’occhio può arrivare.

Provo

infinite sensazioni,

il mio respiro,

è il suo.

Un richiamo

e lentamente

passo dopo passo

mi ritrovo immerso nelle sue acque.

Mi sento abbracciato

baciato da questo liquido amante.

Mille brividi

percorrono il mio corpo

e mi lascio trasportare,

libero da ogni pensiero.

Che silenzio stupendo!

E’ come rinascere ogni volta.

 

 

 

 

 

 

 

L’ARTE DEL MARE

 

Camminando sulla spiaggia

s’incontrano tanti piccoli particolari

che colpiscono la nostra attenzione:

legni levigati dal mare,

fiori sparsi qua e là usciti dal nulla,

rami di alberi trasportati dalle mareggiate,

opere create

da questo meraviglioso ed immenso artista.

Ascolta il respiro del mare,

affacciati alla finestra e guarda ….

Il mare gioca con gli scogli

e li accarezza dolcemente

oppure

si abbatte su di loro con forza

e li plasma a suo volere.

Osserva ancora le scogliere!

le onde del mare

giocano con loro

modellandole come le dita di un artista,

con dolcezza e potenza,

negli anni

ricamano un merletto prezioso,

regalandoci insenature,

grotte bellissime.

Rimani ammutolito

davanti all’arte creativa del mare

e sogna proprio nel punto dove lo stesso

si incontra con il cielo.

 

 

 

 

 

 

IL DELFINO E IL GABBIANO

 

Volava il gabbiano

nel suo pezzo di cielo dipinto di bianchi voli

permeato dei dialoghi striduli

intessuti di piume leggere.

Nuotava il delfino

nel suo giardino azzurro fatto di onde amiche

scomparendo in esse

e riemergendo poco più in là.

Ma un giorno il gabbiano

volò in un pezzo di mare

e il delfino si immerse

in un giardino di cielo osando sognare.

E lì si incontrarono

in quella terra di mezzo che è l’orizzonte,

in quello spazio infinito dove si affacciano i sogni

che è approdo felice di pochi.

Allora il gabbiano disse al delfino:

quali sono i tuoi sogni?

e il delfino rispose: volare e i tuoi?

il mio sogno è imparare a cavalcare le onde, rispose il gabbiano.

E il gabbiano e il delfino si presero per mano

e insieme divennero maestri e scolari l’uno dell’altro,

scoprirono la forza di essere in due

e di saper sognare.

Quando venne il momento di separarsi

il gabbiano disse “addio” e riprese il suo volo

“addio” rispose il delfino

e scomparve nel blu.

Ma il suo cuore di oceano

aveva messo le ali

così come il cuore di aliante del gabbiano

che adesso solcava i mari.

Erano a conoscenza entrambi

che prima o poi si sarebbero incontrati nel cielo o nel mare

ormai sapevano essere mare e sapevano essere cielo

e all’orizzonte potevano essere sogno.

 

 

 

 

 

 

 

QUELLA STRANA RAGAZZA

 

Magia di una notte di luna piena.

Non riuscivo a dormire.

Le tende bianche svolazzavano leggere

e una chiara luce illuminava la stanza.

Il respiro del mare arrivava alle mie orecchie

il richiamo era troppo grande per resistere.

Una figura

dai lunghi capelli biondi,

innamorata del suo mare

veniva verso di me.

Il suo sorriso era dolce

i suoi occhi tristi,

quella strana ragazza confidava al mare sogni e segreti

sicura che mai nessuno li avrebbe rubati.

Disperato io la chiamavo

in quella notte di luna piena,

avevo bisogno che qualcuno mi ascoltasse

sognasse per me.

E lei era già là

a piedi scalzi,

sulla sabbia umida e fresca,.

si lasciava accarezzare dalle onde.

I suoi occhi erano quelli del mare

guardavano la luna e il suo chiarore

inseguivano i suoi desideri,

rincorrevano i suoi sogni.

La luna

era alta nel cielo,

la sua luce argentea

illuminava il mare.

Gli occhi di quella strana ragazza

seguivano il ritmo delle onde,

la vedevo correre,

ritornare a vivere.

 

 

 

 

 

 

UN ALTRO GIORNO MUORE

 

Il sole

gioca con i colori,

ogni volta

sempre diversi.

Come non volesse mai andare via

fino all’ultimo momento

i suoi raggi si specchiano nelle tue acque

trasformando l’orizzonte in un una tavolozza dai mille colori.

Il cielo scuro

si riflette in te

come in uno specchio,

e tu diventi triste e il vento muove le tue onde.

Un altro giorno muore

dimenticato nel silenzio,

solo un gabbiano sopra di te

vola.

 

 

 

 

 

 

 

QUEL MARE

 

In quei giorni

ero triste,

disperatamente solo,

ateo,

col cuore chiuso nel ghiaccio.

Per fuggire dal mondo,

lontano da tutto e da tutti,

mi rifugiavo lì nel solito posto

sulla spiaggia in riva a quel mare.

Quante volte ho pianto!

volevo capire,

essere amato,

tornare bambino,

e parlavo al mare della mia solitudine.

Più volte seduto sopra quella sabbia

ho provato ad alzarmi di scatto

per andare incontro al mare

sempre dritto fino ad annegare.

Desideravo affidare

a quelle acque a me così care

il mio corpo,

e farla finita per sempre.

Ma qualcosa invisibile e forte

mi ha sempre fermato

proprio sul punto di farlo,

oggi che sento Gesù nel cuore

capisco che è stato Lui a bloccarmi.

Adesso la mia vita

è completamente cambiata in positivo,

torno spesso in quel posto

ma non mi sento più solo.

Gesù è con me,

sento gioia, felicità, certezza,

ho dentro una ricchezza immensa

non spiegabile a parole.

E’ una potenza d’amore, una luce infinita,

e quel mare che prima mi parlava di morte

o non mi rispondeva affatto,

oggi comunica col linguaggio della pace.

 

 

 

 

 

 

 

I TUOI SEGRETI

 

L’immensità che ti porti dentro

è come il mare.

Non scorgo l’orizzonte

del tuo essere.

Cielo e acqua si fondono

nella tetra nebbia della tua solitudine.

Non ci sono velieri di speranze in te,

e nemmeno alghe

che possano attaccarsi agli scogli.

Rifiuti la mia àncora di salvezza:

perchè ti lasci annegare così?

Preferisci naufragare nelle tue paure

per poi morire

nel vento e nella tempesta del tuo dolore.

Non posso far nulla se non ti lasci aiutare,

darei la mia vita per te.

E come un marinaio sconfitto

vago alla scoperta dei tuoi segreti.

 

 

 

 

 

 

ANIMA INQUIETA

 

La mia anima inquieta

di naufrago Ulisse,

non ha smesso

di navigare;

non ha porto

cui fare ritorno,

non ha lidi

sui quali approdare,

è perdutamente libera.

Dolce sirena,

più del tuo canto

mi vince il silenzio.

 

 

 

 

 

 

LE ALI DELL’ANIMA

 

C’è un momento nell’universo

in cui il cielo

incontra il mare.

Ed è proprio in quell’istante

che le ali dell’anima

iniziano a volare…

 

 

 

 

 

 

LA POESIA DEL GABBIANO

 

E’ arrivata esultante

la stagione del gabbiano,

è tempo di migrare

verso terre lontane

per scoprire nuovi segreti,

nuove sensazioni.

Un nuovo giorno è oggi

per spiccare il volo

sulla superficie del mare aperto,

sull’orlo dell’oceano,

per volteggiare sulla cresta dell’onda.

Vola nel vento gabbiano!

vola più in alto che puoi!

non ti fermare.

La mia penna

saranno le tue ali,

i miei versi

la tua scia.

 

 

 

 

 

 

 

IL MARE E LA BAMBINA

 

L’inesorabile sbattere delle onde

graffia gli scogli,

li scolpisce,

li modella.

La bambina,

con la vestina gialla e il fiocco stretto in vita,

ha negli occhi l’immagine del sole

per l’ultima volta visto.

Guarda il mare,

vi proietta quell’immensa luce.

E’ solo un attimo

e l’acqua la travolge.

E dopo è solo luce

luce che rischiara e scalda il mare

e la bambina è solo acqua.

 

 

 

 

 

 

LA SPOSA DEL MARE

 

Il suo corpo appartiene solo al mare

fedele sposa e amante del potente Nettuno.

Avanza elegante tra schiere di pesci

nel suo abito bianco,

spuma di cristallo

dal riflesso lunare.

Avanza la sposa sopra le onde,

cadono fiori dal cielo stellato

cielo che si confonde col mare,

brezze di vento

alitano accanto,

leggero un profumo di conchiglie

si diffonde sulle coste.

E’ un rito la sua danza

sulle acque in controluce,

lontano s’ode un canto.

 

 

 

 

 

LAGGIU’ DOVE SI DISPERDEVA IL MARE…

 

Si dirada come per incanto

la nebbia che mi avvolge

e s’apre d’improvviso il cielo

col suo manto azzurro,

torno a ritroso nel tempo in seno ai miei ricordi

come alghe marine che succhiano caute mammelle di roccia.

Mi rivedo di colpo adolescente

quando evitavo i compagni e le feste

e restavo da solo per ore

ad osservare la distesa infinita del mare,

una voce dentro mi ripeteva sempre:

“i sogni non muoiono mai”.

Cercavo la libertà,

mi chiedevo se nell’universo esistesse qualcuno simile a me,

immaginavo di volare via per scoprire il mondo

senza ritorno, senza fermarmi

come un’onda senza mai una spiaggia

ed i miei occhi ragazzini curiosi e attenti,

si perdevano in lontananza,

laggiù dove si disperdeva il mare oltre l’orizzonte.

 

 

 

 

 

 

 

ALLONTANA DA ME QUESTO CALICE

 

Allontana da me questo calice, Mare!

non voglio berlo,

non è vino

ma è sporco di sangue, veleno per il mio spirito

è salato

come schiuma di mare.

Allontana da me questo calice, Mare!

non lasciare che io m’immerga in te

sino a scomparire sott’acqua,

sono ancora vivo

il mio corpo inerme non giace sul tuo fondale.

Allontana da me questo calice, Mare!

sono solo un uomo di carne e ossa

non posso vincere le tentazioni

non riesco a sconfiggere forze soprannaturali,

abbi pietà di me. Nelle tue acque ho gettato la rete.

Allontana da me questo calice, Mare!

sono come Gesù nell’orto degli ulivi

non posso perdermi

e tu non puoi abbandonarmi

ora che ne ho più bisogno.

Allontana da me questo calice, Mare!

trasmettimi la potenza delle tue onde

la libertà del tuo orizzonte,

fa’ che la tua immensità

riempia la mia solitudine.

Aiutami!

 

 

 

 

SOGNI DI SIRENE

 

Era quello un modo

per rinascere innocenti

su una strada nuova,

come se una dea partoriente

avesse plasmato il suo feto

in schiuma di mare,

fino a ridosso delle correnti

dove accorsero sirene

a cantare ninnananne al vento,

richiamo vibrante

d’antica preghiera,

primordiale anelito

di sfiorare Dio,

 

 

 

 

PERDENDOMI NEL TRAMONTO

 

Un altro giorno sta passando uguale agli altri

ed io sono da solo con i miei pensieri come sempre,

dentro l’anima sospesa tra i ricordi e l’infinito

una irrefrenabile voglia di fuggire via,

di respirare forte l’aria.

Con la mia auto corro sull’asfalto verso chissà dove

come per riscattare l’anima dal suo torpore

ma la strada sembra farsi sempre più triste.

Il sole scende lentamente all’orizzonte,

la sua luce filtrando attraverso le mie lacrime

mi mostra il suo colore su ogni cosa intorno

avvolgendo il paesaggio d’una malinconica bellezza.

Vedo la spiaggia deserta,

cammino udendo il rumore del mare che s’infrange contro gli scogli,

sento il calore della sabbia sotto i piedi nudi e mi scopro vivo

seguo la via illuminata che il tramonto sembra indicarmi.

E in quella luce come una visione

mi appare il tuo viso

così vicino da sembrare reale,

per quante notti l’ho sognato.

Purtroppo i sogni vanno via col vento e si dissolvono

ma io, chissà perchè, non l’ho mai dimenticato.

Ora vedo scomparire laggiù in fondo al mare

il sole,

nasconde i suoi ultimi raggi quasi furtivamente,

e la superficie dell’acqua,

che nelle giornate serene luccicava

come ricoperta da miriadi di specchi,

assume quel triste colore che segue al crepuscolo

delineando il profilo d’una natura morente.

Anche il tramonto ormai,

come tutte le mie cose più belle,

è fuggito via.

Ed io mi trovo ancora qui in riva al mare

senza sapere il perchè.

Portami via dove sei tu

non lasciarmi solo.

Distante dal mondo

senza ombra viva intorno e col tempo che vola,

la mia anima s’è perduta

volgendo anch’essa al tramonto.


in foto: l’autore Claudio Cisco

Recensioni-Pensieri-Prosa- Testimonianza di fede-“L A I L A”(Claudio Cisco)

                   

 

 

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                                                    R E C E N S I O N I

 

   È sempre difficile parlare di qualcuno con cui si hanno rapporti di profonda amicizia, mantenendo il giusto equilibrio.

Claudio Cisco nasce a Messina il 18/10/1964. Ho il piacere di conoscerlo da più di trent’anni, da quando cioè ero suo compagno di classe nelle scuole elementari. Non posso non ricordare con emozione quei periodi mai più ripetibili e in particolare il suo grande e quasi inspiegabile talento nello scrivere, rivelatosi sin dalla tenera età.

Ho ancora davanti agli occhi, come se il tempo non fosse mai trascorso, quel suo viso espressivo e misterioso insieme, meditativo e lontano che nascondeva chissà quali segreti, chissà quali pensieri, pensieri sicuramente molto più grandi di lui, fuori dal comune che nessuno all’infuori di lui poteva comprendere, così diversi e complicati rispetto ai miei e a quelli di tutti gli altri nostri compagnetti. Rivedo ancora nella memoria quei suoi occhi chiari e tristi di bambino, concentrati fissi sul quaderno e la sua mano che, come un automa, muoveva quella penna riempiendo infinite pagine, seguendo la traccia d’un tema, come se non riuscisse a fermarsi. Tutti noi suoi compagni, restavamo ammutoliti a guardarlo senza nulla saper scrivere, chiedendoci da dove riuscisse a tirare fuori tanta ispirazione pur riconoscendogli e ammirandone il suo grande dono di natura.

Continuo a seguire le immagini che il ricordo mi restituisce e rivedo con nostalgia i tempi dell’adolescenza quando ci frequentavamo, così diversi l’uno dall’altro. Lui solitario e introverso, un po’ timido che rideva a malapena d’un sorriso ineffabile e quasi celeste, io, al contrario, chiassoso ed esuberante ma ci rispettavamo sul serio, pur nella diversità dei caratteri, ci dividevamo ogni cosa, il panino in classe lo spezzavamo sempre in due, ci volevamo un bene dell’anima. Anzi, ad esser sincero, io sentivo verso di lui, quasi un complesso di inferiorità consapevole delle sue capacità artistiche ma mi sono guardato bene dal farglielo presente per non metterlo in una situazione d’imbarazzo.

Oggi che siamo diventati adulti, osservandolo, non riesco a staccare la sua immagine di adesso, da quella di quand’era bambino, sembra essere rimasto lo stesso, quasi si rifiutasse di crescere, a dimostrare che la giovinezza, quando la si possiede nell’anima, è eterna.

L’altro giorno, mi propone un suo libro “Come sono dentro”. Rimango, pur conoscendo la sua genialità creativa, stupito ugualmente e totalmente coinvolto dall’energia che emana. Il suo modo di scrivere è fuori da schemi. Le sue liriche danno risalto all’anima, a volte possente e virile, altre dolcissima e perdutamente sola ma sempre viva con un disperato bisogno di comunicare.

La lettura del libro poi mi rapisce totalmente. Colgo senza limiti il significato e la bellezza poetica.

Sono consapevole di essere di fronte ad una espressione artistica che va oltre le punte più avanzate degli scrittori di quest’epoca.

Non so se il lettore sia in grado di recepire tanta sensibilità e forza creativa, credo piuttosto che possa rimanerne sbalordito.

Questo libro raccoglie il meglio delle opere dell’autore dalla fanciullezza ad oggi, come sintesi della sua evoluzione poetica ed umana in genere. Per questo, con vivo interesse, vi invito a prenderlo in considerazione.

 

Vincenzo Fratantonio

 

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Claudio Cisco nasce a Messina nel 1964. Rivela sin da piccolo una fervida vita interiore che si sviluppò non solo nel fervore dell’immaginazione e nell’intensità del sentimento, ma anche in uno slancio artistico pertinace e costante. Ricco di intuizioni e creatività, soverchiato dall’impeto della sua fantasia e da una straordinaria capacità nel creare immagini, precocissimo nella sua inclinazione all’arte in genere, riesce ad estrinsecare il suo innato talento nello scrivere, esprimendo così il segreto palpito e il ritmo stesso della sua anima. Dotato di sensibilità profondissima e acuta, fuori dalla norma, di una freschezza vibrante di sentimento e di una vivida intelligenza intuitiva trasferisce, con grazia singolare, le sue interiori vibrazioni artistiche, nei ritmi della sua scrittura. Ottiene effetti potentissimi di rara e grandissima bellezza con la sola collocazione delle parole perfettamente associate alle immagini, padrone di uno stile raffinato e originalissimo, riuscendo così ad armonizzare tutte le proprie qualità artistiche. Focalizzando sempre più la sua genialità creativa e rinnovandosi continuamente su schemi da lui stesso creati, inventa uno stile tutto suo, ben definito, non paragonabile a nessun altro, frantumando così gli schemi cosiddetti logici della scrittura tradizionale. Fa nascere un’armonia di lettura quasi ritmica per via di creazioni fantasiose assolutamente nuove nella storia degli scrittori contemporanei, rappresentando le cose non solo per il gusto della semplice descrizione ma anche e soprattutto per l’anima e il sentimento che le pervade facendole apparire così vicine e familiari e insieme remote e sfumate. Ne vien fuori una musica di parole e immagini, sciolte da ogni saggezza logica che diventano forma dell’essere, incarnazione della profonda realtà dell’anima, dell’assoluto.

Con immediata freschezza, l’autore sa cogliere l’essenza intima e nascosta delle cose della natura e delle sue creature. Vede luci improvvise e parziali, immagini fantastiche e surreali. Tende a rendere nella sua scrittura l’incanto delle sue visioni e del suo quasi infantile stupore.

Mette in evidenza gli aspetti misteriosi dell’universo, attraverso moti che salgono dall’anima, simboli e immagini fugacissime, allucinanti e folgoranti con le quali osserva e trasfigura le forme più recondite della realtà, muovendosi con esse entro l’alone del mistero. È un’insurrezione straordinariamente creativa e istintiva, animata dalla volontà di essere, di esistere, di crearsi un suo spazio. È un mosaico, il suo, carico di immagini suggestive e fantastiche, intrise di sensibilità, testimonianza dell’eterno e quasi inspiegabile contrasto tra le forze misteriose che ci governano e le luci chiare della speranza e dell’amore che si alternano tra loro, creando l’immortale contrasto tra il bene e il male, tra il positivo e il negativo. L’autore rivela con impressionante intuito artistico questo contrasto, rappresentandolo nei suoi versi con alternanza di situazioni fantastiche e quasi inverosimili a immagini cupe e invisibili.

Nella rovina di ogni altro valore conoscitivo, nel moderno senso del reale inteso come fugacità, mutevolezza, inconsistenza, nell’opprimente senso del mistero e dell’inconscio, la sua originalissima scrittura appare come sola via di salvezza, come solo valore in un mondo senza valori, come il solo modo di intendere e svelare la realtà. I suoi versi, abbattendosi tra creature immaginarie e inconscio, hanno una funzione di illuminazione e immediata rivelazione. Non sono né conoscenza e né intuizione, ma immedesimazione istantanea col tutto, fuori da ogni chiarificazione definitiva. È il suo, un atto di vita (forse l’unico possibile), di immediata partecipazione al ritmo frenetico della realtà. I suoi versi hanno altresì il potere di catturare del tutto chiunque li legga, dando luce ai fondi oscuri del suo essere attraverso una descrizione analitica di fatti e situazioni psicologiche che investono rapporti e nessi del tutto inusitati. Il suo modo di scrivere, in conclusione, è baleno di luce e di fantasia, trionfo di immagini nell’oscurità di un mondo spento dalla praticità e dal mostruoso materialismo di tutti i giorni. La vita vuol essere, per potersi realizzare, arte e in Claudio Cisco tutto questo si realizza. Arte e vita si confondono, la fantasia eclissa la realtà grazie alla sua creatività e partecipazione emotiva. Questo libro diventa quindi purissimo atto vitale, allargando i suoi limiti sino ai confini della vita.

 

Giovanni Pierantoni

 

 

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È la seconda volta che mi è stato gentilmente chiesto dall’autore stesso, di offrire una piccola parte di mio contributo ad una sua opera. Lo faccio sempre con gioia e con immenso piacere essendo un convinto suo estimatore, profondamente certo delle sue qualità artistiche e prima ancora umane.

Anche in questa raccolta di liriche, le vicende psicologiche dell’autore divengono esse stesse motivo di poesia, del resto non c’è opera che insieme con il poeta non rispecchi anche l’uomo con i suoi timori, i suoi dolori, le sue speranze.

Cisco rivela chiaramente le ragioni psicologiche del suo isolamento dalla vita pratica e il suo amore per la solitudine. Esprime con vigore e precisione i suoi stati d’animo ed effonde con un rapimento quasi mistico il suo travaglio psichico assieme alla pienezza dei suoi sentimenti in perenne contrasto tra loro; con una fiamma viva e sempre ardente di curiosità tende a carpire il mistero che avvolge l’universo. Ne vengono fuori pagine intrise di tristezza ma anche di profonda meditazione.

Cisco esprime ancora una volta il suo animo agitato e tormentato, fedele specchio d’un uomo prima e d’un artista dopo, perennemente inquieto. Continua nei labirinti della sua mente l’incessante lotta tra umano e divino, tra sacro e profano, tra ciò che gli altri considerano male e il bene, sempre alla ricerca di un porto sicuro, di una certezza, di una pace.

Il dominio, Cisco, lo ottiene solo nella sua poesia, in cui ogni parola, ogni immagine si piega docile ad esprimere i moti più segreti del suo animo, elargendo nei suoi versi bellezza e armonia. Diffonde nella natura, come anche nelle sue liriche, le sue inquietudini, i suoi sogni, le sue delusioni e l’orizzonte naturale diviene il riflesso di quello interiore.

Il tema forse più profondo trattato in quest’opera, è rappresentato dal doloroso distacco tra la giovinezza e l’età matura. Nell’anima tutta raccolta in se stessa, si fa viva e struggente la memoria dell’infanzia con le sue dolci fantasie sbiadite e perdute.

Ma pur nell’accento doloroso della perdita, essa rimane sempre nel ricordo, un mito sereno chiuso in una luce limpida.

È ancora la fragilità del tempo che scorre e dell’uomo che perisce, rivelata dall’autore nelle sue liriche, con grande maestria artistica e insieme struggente nostalgia.

E poi ancora la contemplazione della natura bella ma ingannevole, intesa come tremenda e vana fatica, incomprensibile agli esseri umani, che tende a sfociare nella morte. In questa intensità di vita così esclusivamente soggettiva, la natura, gli uomini e le cose tutte del mondo esterno, sono assunte entro lo stato d’animo dell’autore e rappresentano il battito che il suo cuore di volta in volta conferisce loro.

Le cose si umanizzano e cantano, piangono, sospirano in un’intima corrispondenza tra il poeta e la natura.

Tutto sembra malinconia di cose perdute e di vane promesse, quasi un sogno inappagato, una preghiera appena sussurrata senza speranza e gli esseri viventi sono creature che corrono verso la morte.

In conclusione, grazie alla lettura del suo quarto libro, ho potuto capire come Cisco sia impossibilitato di essere e di realizzarsi in un mondo che nega tanto più crudelmente la felicità, quanto maggiore è la nostra virtù.

 

GIOVANNI PIERANTONI

 

 

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Cisco non smette mai di sorprendermi, come Autore ma soprattutto come uomo.

Ho letto attentamente tutte le sue opere e sono stato uno tra i suoi più “incalliti” critici. Ma l’ho fatto sempre in buona fede e con profondo rispetto verso la sua persona, seguendo una linea coerente di attento valutatore letterario, dettata da principi ai quali presto solenne fedeltà. Come ricompensa a tutto questo, Cisco mi propone addirittura di introdurgli il suo libro, garantendomi massima libertà d’espressione. Confesso che non me l’aspettavo ma ciò non toglie che ho accettato con piacere, spinto da una volontà di esser ancora più sincero e imparziale di prima. L’Autore l’ho sempre apprezzato nelle sue capacità narratorie, sicuramente più che in quelle poetiche. Le sue liriche infatti, le ho sempre considerate poeticamente efficaci nel contenuto, ma con un linguaggio formale non sufficiente per attribuirgli lo “status” di poeta. Dopo la lettura dell’opera in questione, devo parzialmente ricredermi perché alcune liriche in essa contenute, ricalcano ancora lo stile di quelle precedenti. Nella maggioranza delle composizioni poetiche però, l’Autore dà l’impressione di crearne uno nuovo dimostrando coraggio e voglia di rinnovarsi, ottenendo discreti risultati. Il linguaggio nella sua ricerca del “vocabolo” appare più sofisticato, più raffinato, più studiato, anche nelle forme poetiche più lunghe, quasi prosaiche, si evidenzia questa ricchezza di sonorità e significato delle parole, assolutamente nuova nella poetica di Cisco.

Quello che più ammiro nel suddetto artista, è la sua capacità torrenziale di scrittura che sgorga spontanea ed istintiva dalla fervida sorgente della sua creatività e che lo spinge, sia pure in maniera istintiva e non sempre perfetta, a creare opere anche di lunghe dimensioni, in un lasso di tempo minimo. Testimonianza di un innato talento che andrebbe, secondo me, seguito, migliorato e indirizzato verso la strada giusta. In quest’opera poetica, finalmente, non più esasperate, affrante e maniacali esaltazioni della propria privata solitudine né continue ed infantili fughe adolescenziali, ma un’intelligente ed efficace apertura verso tematiche svariate di più ampio respiro: quella onirico-fabulosa (già presente in opere precedenti), quella orientata verso la riscoperta di culture e civiltà lontane e diverse dalla nostra (quella celtica, ad esempio, quella greca). E poi ancora la rivendicazione di libertà sessuali ritenute ancora tabù, le valide ed approfondite descrizioni paesaggistiche, introspettive, psicologiche.

In conclusione di questo mio intervento, auguro di cuore all’Autore e alla sua “nuova” opera, di ottenere un ottimo riscontro da parte dei lettori gettando così le basi per un cammino sempre più ricco di soddisfazioni e consensi e definisco Cisco un “istrione” della scrittura, uno che mischia religiosità e trasgressione, a volte divinamente, altre con limiti e margini di miglioramento ma riuscendo sempre a sorprendere.

 

Walter Di Pietro

 

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Leggendo gli scritti che Cisco propone in enorme quantità, attentamente col cuore predisposto e aperto alla poesia, mi convinco sempre più di quanta ricchezza vi sia in questo autore così particolare, in quest’anima solitaria, forse incompresa, meravigliosamente creativa. Cisco non balza agli occhi di chi lo legge solo come poeta, come uno dei tanti “scribacchini” persi nell’immenso viale della letteratura. No! Egli è di più di questo, molto di più, non può e non merita di essere confuso nella massa. E’ il dramma interiore d’un uomo originalissimo e perennemente inquieto che risalta prepotentemente all’attenzione. Nella vita come nell’arte Cisco è uguale, non distingue i due aspetti, è coerente, vero, incredibilmente sincero, è lui, sempre e solo lui, senza maschere o finzioni di nessun tipo, degno anche per questo, ma non solo, d’essere apprezzato e seguito. Cisco è nella vita reale lo stesso che si mostra nei suoi scritti, e cioè quell’eterno bambino che mai crescerà e si realizzerà nella vita pratica, un’eterna impossibilità di essere che si manifesta chiaramente in ogni sua poesia, in qualunque sua narrazione, nei suoi scritti in genere. Non ho mai conosciuto in vita mia un modo di essere così particolare come quello suo, drammaticamente chiuso ad ogni contatto con la società e col mondo reale ma paradossalmente ricco di idee, pensieri, emozioni, cose da dire e comunicare, un vero vulcano di creatività, un flusso inarrestabile di sensazioni, di elettrizzante energia capace di travolgere chiunque lo legga. E’ un esempio di vita interiore, di profonda meditazione cercata, voluta, desiderata, oserei dire quasi bramata, un contatto diretto col proprio io che sente la necessità e il bisogno di esiliarsi per ritrovarsi ancora una volta, esprimendosi e rinnovandosi continuamente. Cisco è talento naturale ed istintivo prima di tutto, è anima vivente che trova nella sua arte l’immortalità, trae dalla fervida fonte dell’ispirazione, la sua linfa vitale, quell’energia in grado di lasciar spaziare uno spirito così libero ed etereo, fuori dalla misera prigione del suo corpo mortale e la sua poesia piomba nel trascendente sospinta dalla forza del pensiero e della mente, dalla vittoria dell’immaginazione sulla banalità della vita pratica. Davanti a quest’ottica di valutazione del tutto singolare, qualunque suo scritto, anche una virgola o una semplice parola, diviene ricco di “LUCE” e palpitante di idee, di emozioni, di poesia nel vero senso della parola. E’ impossibile insomma inquadrare Cisco in un contesto letterario ben specifico: E’ la sua anima che si frappone prepotentemente davanti ad ogni valutazione, scardinando ogni identità letteraria. La sua inconfondibile e grandiosamente patetica figura d’uomo è al centro di ogni possibile giudizio; per questo motivo mi sottraggo volontariamente dalle tematiche riguardanti l’opera in questione perchè essa, sia pure fondamentale e valida, passa quasi in secondo piano eclissata dalla potenza espressiva in genere del proprio autore. In conclusione, auguro con tutto il cuore al mio amico, prima di ogni cosa, e poeta Cisco di continuare il gratificante cammino letterario in perfetta simbiosi con questo suo “strano” vivere, per formare una comunione di emozioni uniche, vive e sempre nuove che dura da sempre rinnovandosi continuamente, arricchendo il lettore ma soprattutto egli stesso.

 

FRANCESCO RINALDI

 

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Conosco da poco tempo il modo di scrivere di Claudio Cisco. Lo apprezzo sia come scrittore, sia come poeta. Trovo in quello che scrive sincerità e sensibilità.

È uno scrittore libero che ha il coraggio di scrivere sempre quello che sente, infischiandosene delle censure e dei falsi moralismi. È dolce, tenero, romantico ma se vuole, sa essere chiaro, duro, inequivocabile. Scrittori così ne nascono uno su mille. Si avvale di una scrittura lirica, gustosa e scorrevole, accessibile a tutti, di alta letteratura, capace di creare poesia pur facendo prosa. Ho letto il suo libro “Come sono dentro”, poi un altro ancora “Colei che brevemente fu e che mai in vita conobbi”, due libri che reputo artisticamente validi. Il giudizio su un’opera letteraria è sempre soggettivo e variabile. Posso tuttavia dirvi in base alla mia esperienza di critico d’arte, che nessuno di questi due libri citati mette in completa evidenza il grande talento di questo scrittore. È in quest’opera “Il vecchio e la ragazza” che tutte le sue grandi potenzialità escono fuori rivelando eccellente capacità di analisi psicologica dei vari personaggi narrati e superlativa arte descrittiva nel configurare armonicamente la trama del racconto. Soltanto un grande scrittore è capace di penetrare così a fondo nel cuore e nella mente dei suoi protagonisti, può parlare di erotismo senza scadere mai nella volgarità e nel cattivo gusto ma trasformandolo in pura manifestazione artistica, catturando del tutto il lettore dalla prima all’ultima pagina del libro.

Con quest’opera Claudio Cisco dimostra, a chi ne avesse ancora il minimo dubbio, di essere uno scrittore bravo e capace. Questo libro è, a mio giudizio, un autentico capolavoro destinato ad un grande successo di vendita, se preso in considerazione con attenzione e come merita, in questo mondo editoriale di oggi, troppo spesso carico di immondizie letterarie. Qualunque altra parola sulla validità di quest’opera risulterebbe superflua, il libro parla da solo, basta leggerne le pagine per rendersene conto. Chi capisce minimamente di arte, non può smentirmi.

 

Antonio Cucinotta

 

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Scrittore e poeta. Animo sensibilissimo, dotato di un’ottima vena creativa e di una ricchezza di idee, raccoglie tutte le sue liriche scritte sin da bambino e le inserisce nel suo primo libro “COME SONO DENTRO”. Ma non fu un inizio facile per l’esordiente autore messinese. Apprezzato dal pubblico per l’accessibilità dei suoi veri, viene invece osteggiato dalla critica che non gradisce il suo modo di scrivere fuori da schemi letterari e i suoi testi che si barcamenano con troppa facilità nel trasformismo. Dalla poesia alla narrativa il passo è breve e l’autore crea in poco tempo due libri con storie e tematiche quasi opposte “COLEI CHE BREVEMENTE FU E CHE MAI IN VITA CONOBBI” e “IL VECCHIO E LA RAGAZZA”, rivelando una innata e naturale capacità narratoria unita ad un’attenta analisi psicologica di persone e fatti raccontati. Ma il suo primo amore, la poesia, non conosce declino nell’ispirazione dell’autore e, uno dopo l’altro, nascono tre altri libri “LA MIA ANIMA E’ NUDA, “Il SILENZIO NEL SILENZIO” e “SENSAZIONI” segno di uno scrittore che sa continuamente rinnovarsi proponendo opere sempre nuove ed attuali riuscendo a catturare e stupire sempre.

 

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Malinconico e meditativo per natura, rivela sin da piccolo in trasparenza una sensibilità profondissima

ed una straordinaria vocazione per lo scrivere. Sospinto da un innato talento e da un’incessante ispirazione artistica che si alimentano progressivamente col trascorrere del tempo e con le esperienze di vita, segue parallelamente sia la strada della poesia, sia quella della narrativa, restando fedele ad un genere che richiama allo stile romantico e triste talvolta ironico con notevoli slanci verso l’onirico e il misterioso, sempre attentissimo e portato verso introspezioni psicologiche.

 

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Spirito irrequieto ed artisticamente creativo. Scrive in prosa e versi spaziando attraverso varie tematiche: dal fantastico al surreale, dall’erotico al lugubre, dal mistico all’introspettivo.

 

 

DEDICHE E RINGRAZIAMENTI CONTENUTI NEI LIBRI:

 

“COME SONO DENTRO”

Come sono dentro è dedicato a mia madre che non ha mai smesso di volermi bene nonostante la mia vita sia stata un fallimento.

Ringrazio voi tutti che credete in me e nel mio libro.

Marietta per avermi ispirato ancora una volta

e infine me stesso per aver dato, nello scrivere e nella realizzazione di questo libro, tutto quello che avevo dentro.

 

 

“LA MIA ANIMA E’ NUDA”

La mia anima è nuda è dedicato al mio caro e grande amico Giovanni Pierantoni che mi ha sempre incoraggiato a proseguire il mio cammino lungo la mia strada di scrittore.

 

 

“PREGHERO’”

Pregherò è dedicato ai fratelli e alle sorelle della chiesa apostolica.

 

 

“SENSAZIONI”

Sensazioni è dedicato alla mia cara amica Giovanna Taranto che sta guidando i miei passi finalzzati all’incontro con Cristo.

 

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IL MIO CAMMINO SPIRITUALE

L’INCONTRO CON LA MADONNA:

TESTIMONIANZA DI FEDE

 

 

E’ bellissimo per me poter parlare della Madre celeste, scrivere con sincerità di pensiero quello che Lei rappresenta per me, il modo attraverso il quale trasmette gioia, dona pace, regala serenità; è sicuramente una testimonianza importante che può servire agli altri, anche a chi, per sola curiosità, si sta soffermando in questo momento nella lettura. Il mio cammino spirituale è stato molto tormentato e assai complesso, quasi impossibile da raccontare in poche righe perchè frutto di emozioni intime, uniche ed indimenticabili, invase dal male prima e consolate dal bene dopo, ma, nonostante tutto, vorrei provare ugualmente ad essere il più possibile conciso e sintetico, concentrando in poco spazio ciò che meriterebbe un libro intero per la grandezza dei sentimenti da narrare. Premetto che mi trovavo distante mille anni luce da Dio e dalla sua volontà, sconoscevo l’importanza della sua parola con i suoi insegnamenti; praticamente lontano dai sacramenti, non seguivo affatto una vita cristiana, collocandomi in una posizione di disinteresse verso la chiesa che per me era come se non esistesse. Ma il Signore è grande e misericordioso, sempre pronto a porgere una mano, a elargire aiuto a chi, disperato cade, specialmente quando l’infinita bontà di Dio percepisce nel cuore triste e malato, una fiammella di speranza alimentata da un sincero proposito di cambiamento. E così la provvidenza mi ha messo sulla strada un’amica quasi coetanea, Giovanna, una donna evangelica che, dopo parecchio tempo a causa della mia esitazione, è riuscita a trascinarmi con lei, per la prima volta, in una chiesa protestante pentecostale, di quelle caratterizzate da preghiere forti, carismatiche, di intensa spiritualità. Lì dentro, i miei occhi hanno osservato   cose mai viste: gente parlare in lingue sconosciute che alcuni interpretavano, preghiere e canti di lode e di adorazione recitate con pianti di gioia ed invocazioni urlate, profezie, imposizioni di mani sul corpo specie sulla fronte, persone cadere per terra svenute e rimanere a lungo in quello stato di riposo spirituale ed ancora preghiere di liberazione, a volte veri e propri esorcismi che avvenivano durante i culti stessi anche in presenza di bambini che sembravano abituati a quell’ambiente. Era insomma una chiesa molto diversa da quelle cattoliche tradizionali, eppure io ricordo di non aver mai pensato, neanche per un solo istante, di essere finito in un manicomio pieno di pazzi, ma anzi, al contrario, cominciavo a percepire dentro e fuori di noi esseri umani, sia pure in forma latente, l’esistenza di un mondo parallelo che mi si apriva davanti alla mia conoscenza, una realtà spirituale importantissima e vitale che mi portava a comprendere che dietro la sofferenza oscura e il male più cattivo, si nascondono demoni di grande intelligenza e diabolica astuzia che difficilmente possiamo vincere senza l’aiuto del Padre: sono loro infatti la causa principale delle rovine dell’animo umano, e sono sempre essi capaci di operare indisturbati nel quotidiano, perché sottovalutati o peggio ancora non creduti dalla maggioranza degli uomini. Lo capivo chiaramente vedendo i tormenti spirituali e fisici di chi combatteva col maligno, spesso il vomito era sintomo di liberazione. Per me erano tutte situazioni sconosciute e mai prese in considerazione prima di allora ma dentro il mio spirito sentivo di non trovarmi in quel posto, così apparentemente strano, per caso e che proprio da lì sarebbe potuta iniziare la mia rinascita spirituale dopo secoli di buio fitto e di solitudine totale. Pian piano e secondo i tempi di Dio, continuando a frequentare quella chiesa e iniziando a pregare anch’io timidamente come potevo e come vedevo fare, ho avuto la grande gioia di sentire e di capire che Gesù mi amava davvero e di un amore grande e sincero, così com’ero, con i miei evidenti limiti umani e le mie debolezze e che potevo fidarmi ciecamente di Lui. Fu per questo che accettai il Signore nella mia vita come personale Salvatore. Ma la gioia di sentirmi finalmente amato non mi ha risparmiato il dispiacere di comprendere che, radicato nella mia mente, vi era un demone d’impurità, forte, del quale io, fino a quel   momento sconoscevo completamente l’esistenza anche perché non si era mai manifestato prima, secondo la furbizia di questi esseri che fanno dell’anonimato la loro forza, e che era riuscito a fare nella mia vita, quello che voleva, facilitato da me che, sia pure inconsapevolmente, lo avevo sempre assecondato. Oggi posso dirvi con assoluta certezza e con molta esperienza sperimentata sulla mia pelle, che i demoni sono i principali artefici dei nostri errori e dei nostri peccati e che senza una vita di preghiera e di relazione costante con Dio, non c’è possibilità di salvezza per noi piccoli esseri mortali e che ogni forma di perversione sessuale e di vizio impuro, hanno come radice, la presenza di questi esseri diabolici che operano secondo le proprie caratteristiche, svolgendo il loro compito specifico, osservando rigide e determinate gerarchie; i diavoli legati alla sfera sessuale, che io ho conosciuto e a lungo combattuto, non spingono ad essere cattivi e non portano avversione al sacro, per questo motivo risultano difficili da identificare e togliere, ma non per questo possono essere considerati meno gravi, in virtù del fatto che con i peccati della carne sporcano il corpo prima e lo spirito dopo, creando inimicizia con Dio e aprendo un varco ampio verso l’inferno. E’ cominciata così, con l’aiuto del pastore e di fratelli e sorelle con doni carismatici di liberazione, la mia lotta contro il maligno che era uscito ormai allo scoperto, suo malgrado, perché Gesù l’aveva ormai smascherato rendendolo assolutamente incompatibile con la presenza stessa di Cristo, il quale stava ormai facendosi strada dentro il mio spirito. Non è stato per niente facile scontrarmi col nemico delle nostre anime e quello che ho passato non lo auguro a nessuno: altro che problemi psicologici o psicanalitici! Altro che camomille o farmaci ansiolitici! Io ho dovuto estirpare con preghiere forti e con la mia volontà di uscirne a tutti i costi, quello che di negativo vi era in me, quel tempio di Satana fatto di lussuria e concupiscenza carnale che il demone stesso con la mia inconsapevole volontà, aveva eretto nei miei pensieri e desideri e perfino nella mia casa: ricordo perfettamente gli attacchi che subivo la notte, specie verso le tre, questo poiché, durante il sonno, avviene che si assottiglia di molto il confine tra il mondo fisico e quello dello spirito e i due mondi paralleli, quello degli spiriti incarnati che siamo noi e quello degli spiriti disincarnati assieme ad altre realtà celesti che vivono in dimensioni superiori, a volte e in situazioni particolari, si sfiorano fin quasi a incrociarsi. La mia condizione, sia pure lentamente, migliorava progressivamente ma quando ero sul punto di convincermi di aver intrapreso la strada giusta, quella che mi avrebbe portato successivamente alla vittoria e mi stavo conseguentemente illudendo di assaporare un po’di pace interiore, ecco, improvvisamente e del tutto inaspettata, spuntare all’orizzonte una nuova nube minacciosa e per la prima volta in vita mia, si spalancarono per me le porte del carcere, per reati di natura sessuale ovviamente compatibili col demone che combattevo. In tutta onestà devo dirvi che non ho mai scaricato tutta la responsabilità dei miei errori sull’entità malvagia perché sono stato esclusivamente io a consentirgli di fare tutto ciò che ha voluto rendendolo forte e padrone della mia vita, e per questo ho invocato pentito il perdono di Dio, il mio più grave sbaglio è stato quello di non aver mai cercato una relazione col Creatore e di non aver mai permesso allo Spirito Santo di agire in me e nella mia vita. Ma ormai il Signore aveva piantato il suo seme in me che cominciava a crescere ogni giorno di più e non mi avrebbe mai più lasciato. Oggi mi rendo conto che il carcere è stato una specie di purgatorio terreno, necessario a farmi crescere scontando i miei peccati perchè le croci, le sofferenze, servono a farci maturare spiritualmente e possono trasformarsi, con la fede e la preghiera, in meravigliose opportunità di rinascita. Ed è stato proprio dentro il carcere che si è realizzato un altro miracolo nella mia tormentata vita terrena; l’incontro con la Madonna, un dono straordinario che mi ha fatto Dio, del quale forse non ne sono degno, ma che ha rappresentato una svolta nel mio cammino spirituale: io che ero chiuso in una cella, sporco nel corpo e nello spirito, ecco che incontro Colei che personifica la purezza e la libertà di essere figli di Dio e che è venuta lo stesso da me facendo ciò che avrebbe fatto Gesù: soccorrere un suo figliuolo che chiedeva aiuto. Non l’ho conosciuta in un luogo di apparizione mariana o durante un pellegrinaggio ma in un posto di espiazione e di emarginazione, segno della grandezza di Dio che sa leggere nel cuore dell’uomo prima ancora della sua condizione esistenziale. Io ho cercato con tutto me stesso, forse anche perché spinto dalla disperazione, la madre di Dio, ma l’ho cercata davvero, questo è stato importante, e l’ho fatto pur essendo protestante e persino contro il volere del pastore che mi aveva seguito fino ad allora e dei fratelli della chiesa alla quale appartenevo, che continuavano a pregare costantemente per me. Ma la presenza amorevole di Maria, la sua vicinanza, la sua premura, la sua infinita dolcezza mi hanno spinto a fidarmi di lei. I frutti si sono rivelati tutti positivi: sono uscito da quel posto l’11 febbraio, nella ricorrenza del giorno della prima apparizione della Madonna a Lourdes, e da quel momento, la Vergine mi ha portato sempre più vicino a Gesù e sempre più lontano dal maligno e forse è anche per questo che Dio l’ha messa sul mio cammino, proprio in virtù del fatto che contro i demoni d’impurità, era necessaria la presenza della infinita purezza di Maria per scacciarli, la vicinanza della madre di Cristo è infatti una potentissima arma dopo il sangue di   Gesù. Oggi il mio rapporto con la Madonna è splendido e commovente, sento la sua presenza materna, mi protegge e   mi guida, ora finalmente riposo tranquillo la notte con al collo la sua medaglietta miracolosa, comunica con me attraverso locuzioni di pensiero fin quasi a percepire anche la voce, non la vedo ma è come se fosse visibile con gli occhi dello spirito, so che in punto di morte lei ci sarà, come ha promesso a Fatima a tutti coloro che faranno il percorso dei 5 sabati, cammino che io ho già fatto con gioia e dedizione. Mi manda molti segni, soprattutto rose, cuoricini e coroncine di rosario che trovo per terra, sulla mia strada. Ogni anno per l’8 dicembre, ricorrenza dell’Immacolata Concezione, mi chiede di portarle una rosa e di deporla sotto i piedi della statua di Montalto che la raffigura, qui a Messina e che per per me è come una piccola Lourdes o Fatima o Medjugorje. Ho imparato a recitare tutti i giorni, la mattina, prima di alzarmi e dopo aver ringraziato il Signore per avermi donato un altro giorno di vita, il rosario e sempre tutti i giorni, puntualmente alle 3 del pomeriggio, dico la coroncina alla divina misericordia. Oggi sono un uomo completamente cambiato in positivo e vivo una vita di preghiera e di condivisione con i miei fratelli in Cristo e quello che, grazie alla fede è avvenuto in me, Dio è pronto a farlo con chiunque, anche col più incallito peccatore, non aspetta altro, gli basta perfino un piccolo segno, desidera essere cercato ed è sempre pronto a perdonare e a ridare una vita piena di significato e di amore. Se guardo indietro nel mio passato, mi rendo conto di quanta strada ho fatto grazie al Signore, che va ringraziato sempre. Non riconosco affatto quello che ero ieri prima di aver sperimentato la presenza di Cristo nella mia vita, era un’altra entità negativa che agiva al posto mio, dico sempre che ero io ma non ero io. Ovviamente sono rientrato nella chiesa cattolica perché sono troppo innamorato spiritualmente della Madonna e questa gioia che provo dentro non mi è stato possibile condividerla con i fratelli protestanti ai quali non potevo esternarla ma dico grazie ugualmente alla chiesa evangelica alla quale devo molto perché è lì che ho mosso i miei primi passi del mio cammino spirituale, lì ho trovato la mia prima vera àncora di salvezza, la prima luce tra le tenebre che mi avvolgevano ma col senno di poi penso che doveva andare così secondo il progetto che Dio aveva stabilito per la mia vita. Frequento il Rinnovamento nello Spirito, un movimento di preghiera di ispirazione cattolica che mi ricorda il modo di pregare degli evangelici, ho capito l’importanza della confessione per riconciliarsi con l’abbraccio del Padre e la bellezza dell’incontro con Gesù attraverso la santa messa e l’eucarestia. Ho un solo e unico rimpianto: quello di non aver incontrato prima Gesù, specie quando ero ancora adolescente, la mia vita sarebbe stata tutta diversa con la sua presenza in me. Per questo mi sento in dovere di dire ai giovani con tutto il mio cuore: cercate Cristo e dialogate con lui come con un amico sincero e non rimarrete delusi e con la stessa intensità di sentimento dico ai genitori: educate i vostri figli alla fede facendo da esempio perché Dio ve ne chiederà conto, spalancate le porte delle vostre case a Gesù e pregate ogni tanto riuniti in famiglia, preghiera che ha un valore immenso agli occhi di Dio. Auguro di cuore a tutti voi, specialmente a chi è lontano dalla fede, di cambiare la direzione della propria vita e di dirigere i propri passi verso Cristo, l’unico che può veramente cambiare il corso e lo scopo della nostra esistenza terrena, dando una gioia vera, profonda e duratura che non è di questo mondo, preludio dell’infinito amore che caratterizzerà la nostra vita immortale. Io sono convinto che l’unico vero dramma o lutto nel nostro più o meno breve transito su questa terra, sia l’assoluta mancanza di Dio nella nostra vita e sono certo che fin quando il Signore ci lascerà vivere quaggiù, fino all’ultimo soffio di vita, ci sarà sempre la possibilità di cercarlo e di rimediare alle nostre mancanze ma quando si chiuderanno definitivamente i nostri occhi terreni, non ci sarà più tempo per rimediare e per tornare indietro e sarà troppo tardi.

Dio mi benedica e benedica tutti coloro che leggeranno e faranno tesoro di questa mia testimonianza.

 

CLAUDIO CISCO

 

 

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                                           UNO STRANO INCONTRO

 

Mi successe quando ero ancora ragazzo. Mi trovavo sul treno che mi portava a Trento in visita da mia sorella. Per vincere la monotonia del viaggio, leggevo un libro di mie poesie quasi in atmosfera con quello scorrere sulle rotaie. Di colpo, senza chiedere permesso, entrò lei, 16 anni a prima vista, trascurata e con l’aria assente. I suoi lunghi capelli neri e sporchi, il trucco sfatto che le colava sul viso, i lineamenti straordinariamente delicati. Era bella quella ragazza, il ritratto d’un angelo col volto della sofferenza, il male nascosto in lei, non appariva in grado di deturpare quell’adolescenziale fascino innato che possedeva. Ma aveva la paura dentro quegli occhi ancora di bambina, come fosse vittima di qualcuno o qualcosa a cui non poteva o sapeva ribellarsi.

Mi prende di scatto il libro dalle mani, mi si siede accanto, lo sfoglia. La vedevo leggere attentamente:

“E’ bella questa poesia” mi dice di colpo “anzi bellissima, come la mia vita quando era tutto un bel sogno e molto di più”. In quell’istante, avrei voluto passarle la mano in mezzo ai capelli, accarezzarle il viso, stringerla forte a me per proteggerla, ma non dissi e feci nulla. Era assorta nella lettura di quei versi, non alzava minimamente lo sguardo, era bellissima, molto di più della poesia che leggeva. Arrivammo in fretta senza che me ne accorgessi ad una stazione, la ragazza si svegliò d’improvviso da quell’incantesimo e sempre col libro tenuto strettamente nella mano:

“Me lo regali, posso tenerlo con me?” mi chiese.

“E’ tuo, puoi prenderlo” fu l’unica cosa che seppi risponderle. La vidi sorridere per la prima volta, mi commossi, riuscii a stento a non piangere. Quel sorriso come un fiore germogliato inaspettatamente dalla terra arida, era spuntato per magia come un ruscelletto di gioia dal suo dolore. Mi disse infine: “Grazie” e se ne andò via di corsa. Dal finestrino, mentre il treno lentamente ripartiva, la vidi prendere del denaro da un tizio poco raccomandabile, poi sparì man mano che m’allontanavo sulle rotaie. Chi era quella ragazza? Il mio libro le è servito a qualcosa? Perchè il destino me l’ha fatta incontrare per un attimo? Tutte domande senza risposte. Da quel giorno e dopo quell’incontro, io non ho più avuto pace, per molto tempo ho pensato a lei, l’ho incitata nei miei pensieri ad avere cura di se’ stessa, ho pregato Dio notte e giorno per lei. Non so dove, non so come, non so quando ma sono sicuro che la rivedrò, sì, io la rivedrò.

Lei mi ha insegnato se non altro, a non consumarmi nella mia tristezza perchè al mondo c’è anche chi sta peggio di me, che forse, non sono poi così sfortunato.

 

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                                           IO E LA MORTE

E’ un paese morto. Strade malinconicamente deserte, aria pesante, spaventosamente tetra. Furtive ombre si sparpagliano e si riuniscono subito dopo, quasi per sentirsi meno sole. Silenzio assoluto interrotto soltanto da voli di pipistrelli, da rintocchi lugubri di campane. Porte chiuse, finestre sbarrate, occhi atterriti ed impotenti che, dagli usci delle case, spiano lei, signora e sovrana, padrona di tutti noi. Lungo mantello nero, teschio in faccia, bastone per reggersi, curva lei cammina zoppicando e lentamente, sola ed indisturbata. Nessun muro potrà fermare la sua falce. Ha in mano un taccuino verde speranza dove vi sono annotati i nomi e le ore di coloro i quali deve ancora chiamare ed uno nero morte con i nomi di chi ha già rapito con sè. Bambini, continuate il vostro girotondo e ridete di lei che vi sembra così buffa e troppo lontana. Ragazzi innamorati, stringetevi forte l’uno all’altra, tra sogni e amore, lei non si commuoverà e verrà a prendervi lo stesso.

Uomini e donne, accumulate glorie e tesori, lei non si farà comprare e alla sua venuta tutto dovrete lasciare. Vecchi, raccomandate le vostre anime a Dio, lei non avrà paura e sarà molto più vicina di quanto possiate pensare. Gente chiusa nelle vostre case, cos’è questo silenzio? Musica! e ridete forte, e scherzate forte, continuate il vostro ballo in maschera, recitate la commedia della vita, ma sul più bello tu sentirai bussare alla tua porta. Inutile ogni tentativo di fuga o di gridare aiuto, interromperai la danza, toglierai la maschera, abbandonerai la tua dama e le tue damigelle e andrai nostalgicamente deluso con lei, più non tornerai; un istante di silenzio in casa tua insufficiente anche per piangere e poi, immediatamente, lei rialzerà il sipario e riaccenderà le luci e la musica e la danza, imperterrite, ricominceranno senza più una maschera: la tua. Sì, lei porterà anche te in quel malinconico recinto di foglie morte ed alberi spogli e stecchiti

e il tuo corpo straccio, sdraiato si confonderà tra quelli che lì ci son già da tempo. Io, di colpo, evito le braccia di chi vuol fermarmi e scappo giù in strada da solo e le corro dietro: “Perchè?” le grido con disperazione, “perche devo morire? Che male ho fatto per non poter vivere per sempre? Dimmi che ho un’anima, un respiro che vivrà in eterno. Dimmi che il mio sangue non è il liquido d’un automa, che il mio cuore non è un motore, i miei nervi non sono fili sottili uniti tra di loro fatalmente,la mia mente non è un computer. Vedi io ti parlo, ti sento, sono felice, sono triste, ho paura, so scrivere una poesia. Ti prego signora sovrana, tu che sei l’unica che puoi, risparmiami, non farmi morire. Io amo un fiore, una coccinella, un bimbo, amo la vita”. Lei si ferma e mi guarda in faccia. E’ strano ma di colpo non ho più paura. E’ così naturale osservarla in volto, come se si trattasse di un incontro indispensabile, sembra quasi una figura viva, e pensare che la immaginavo diversa e cattiva. Lei mi risponde: “Va’ via ragazzo, tua madre t’aspetta a casa, e ricorda sempre, tu potrai anche essere come me per un solo istante morendo, ma io non potrò mai essere come te quando risusciterai in eterno“. Poi mi volta le spalle e girando l’angolo scompare. Io rimango confuso, triste e felice nello stesso istante e piangendo divertito, correndo, torno a casa.

 

 

                                         (Racconto tratto dal libro ANIMA SEPOLTA)

“ANIMA SEPOLTA”

Un’espressione poetica d’avanguardia, alternativa, dove fobie ossessive e fantasmi interiori, esternandosi, si tramutano con sepolcralità in energie negative lugubri e macabre, segni indelebili d’una morte interiore eternamente rassegnata nel misterioso mondo della follia e dell’inconscio. È la fine vitale d’un’anima sepolta. L’autore sente dentro di essere ormai un’ombra che ha paura perfino di rivedere la luce e come unico rimedio, non ha altra speranza che la morte.

 

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                                   PROSTITUTA SCONOSCIUTA

 

Ti vedo tutte le sere al solito posto sopra gli sterili binari d’un tram. Se hai freddo strofini le mani per scaldarti, se non passano macchine continui a guardarti intorno. Gli stivali neri di cuoio sempre gli stessi, la borsetta a volte rossa altre nera, la minigonna, il solito trucco vistoso: questa sera però mi sembri più bella! sexy più che mai. Chissà se sei sola nella vita

o se qualcuno ti ama! Chissà perchè lo fai! Forse avrai un romanzo dentro da raccontare, testimonianza di un’esistenza non bella come avrebbe dovuto essere. Vorrei poterti aiutare, amarti, stare un pò con te! per la prima volta ti vedo con occhi diversi, non mi interessa affatto il sesso. Non ho mai avuto il coraggio di avvicinarmi a te, mi blocco ogni volta che provo, mi sembri quasi irraggiungibile ma poi per dirti cosa? In fondo ho paura di fare tutto. Ti scongiuro, fuggi con me prostituta sconosciuta! Ricominciamo insieme una nuova vita, non consumarti più così! ti stai buttando via da sola! continui a farti del male. Ti desiderano tutti ma quando torni a casa, non ti rimane niente. Ma ora basta: devi cambiare la tua vita, è tempo di riscossa.

Non riesco nemmeno a terminare questi pensieri che ti vedo salire già su una macchina sportiva. Addio mia prostituta sconosciuta! sicuramente domani verrò ancora a vederti e a tenerti compagnia in segreto e a distanza, forse mi sono innamorato di te o forse abbiamo qualcosa in comune che ci unisce: siamo entrambi soli, che il Signore ci aiuti!

 

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                             IL VUOTO DI UN PAGLIACCIO

Ti aspettiamo e ora che entri in scena, indossa la tua maschera, con quel grosso sorriso stampato sul viso ed il trucco che ormai fa parte di te. Nella voce e nei gesti, un po’ mimo e un po’ attore, sai far tacere il tuo cuore, t’illudi di tornare bambino, dimentichi in quegl’istanti la tua tristezza. Cadi, rialzati, ubriacati, balla, grida, scherza e noi saremo lì, a guardarti, a ridere, ad applaudirti: sei un attore e come tale devi essere trattato. Nessuno di noi in platea si domanderà chi sei, proprio nessuno si preoccuperà delle tue sofferenze, per noi sei solo un pagliaccio, una maschera e nulla più! Ci interessi per come appari, non per quello che sei. Quando le luci del palco si spegneranno, tu ti troverai solo con te stesso, come sempre del resto. E l’immagine tua vera riflessa, non potrà più far ridere. Non sarai in grado di mentire, e quel grosso sorriso si trasformerà in lacrima, una lacrima amara che scenderà sul tuo viso fino a scioglierne il trucco. Ti auguro, caro pagliaccio, che la tua vita sia come la scena, felice e divertente, e che tolta quella maschera, non ci sia più il vuoto.

 


                                                              MARIONETTE

 

Cantavo il mio romantico sogno nella notte davanti al palcoscenico buio di un teatro dove piccole marionette allibite mi guardavano. Tutto intorno il vuoto più assoluto, non percepivo umana presenza all’infuori di quei ridicoli pupazzi colorati: “Solo noi possiamo comprenderti, sappiamo ascoltarti, abbandona gli umani e salta qui sul palco da noi” mi dissero in coro. Così feci e diventai burattino tra i burattini, rinunciai alla solitudine d’essere uomo, scelsi i colori, il teatro, le marionette, diventai uno di loro. Su quel palcoscenico recuperai la mia vera dimensione, mi ritrovai folle e disperato ma libero e felice.

 

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                                             I BURATTINI UMANI

 

Sono vivo o sono morto da secoli? Sono libero o qualcuno mi guida? La via che seguo l’ho scelta io o è stata già scritta? Questa mia storia buffa morirà con me o si perderà nell’enciclopedia del tempo? Mi hai acceso la corrente ed il mio sangue ha cominciato a scorrere. Mi hai caricato l’orologio e la mia pressione segna 80, 90,100. Mi hai dato la corda ed il pupazzo si sta muovendo ma la chiave che mi dice chi sono perché non me l’hai data mai? Ti faccio ridere lo so ma io non so chi sono. Allo specchio vedo la mia maschera. Mi guardo intorno ed ecco tanti burattini come me: chi è bello, chi è corto, chi ha gli occhi verdi, chi sta morendo e chi sta per nascere ma tutti con lo stesso sconosciuto destino. Mio Dio, quanto sono stupidi i burattini umani! hanno un’anima ma non lo sanno. Sono monotoni, tutti cronometrati: 99 centesimi di secondo ad un secondo e corrono in ufficio. Si sposano per avere figli che a loro volta faranno altri figli: che noia! che sciocchi mortali! che guadagno hanno a non lasciar estinguere la razza umana? Tutti si chiedono di capire ma nessuno di loro ha mai capito un bel niente. Tutti pronti ad insegnare ma insegnare cosa se neanche loro non sanno nulla? Ognuno dice la sua, ognuno crede che abbia ragione lui. E’ un teatro folle e buffo pieno di burattini colorati, un enorme carrozzone di maschere e coriandoli e anch’io, senza sapere come, mi ritrovo in mezzo senza averlo minimamente voluto. Se guardi attentamente fra tutti questi pupazzi che si muovono puoi vedere anche me: Vedi sono quello laggiù vestito d’Arlecchino con i capelli lunghi e che sta sempre da solo, anch’io come gli altri sto recitando la commedia della vita nel carnevale dell’incomprensibile esistenza umana. Ti prego riconoscimi se puoi, distinguimi da tutti questi burattini, dai un senso alla mia vita perché io non mi sento uno di loro, perché io non sono fatto di bottoni e tasti e non voglio fili che mi muovono. Vedi io piango e rido, so dare amore, sento di essere immortale e originale. Sin da piccolo mi hanno programmato come un computer contro la mia volontà. Mi hanno costretto a recitare in un palcoscenico che io ho sempre odiato e che non mi appartiene. Mi hanno fischiato e applaudito mentre in realtà io piangevo perduto tra tutti questi burattini in cerca d’allegria che compravano e vendevano questa pelle mia. Mi hanno dato un nome che non è quello mio. Mi hanno voluto per come io non sono: io angelo travestito da manichino. Ti prego portami via e salvami, dimmi chi sono, io non mi conosco. Per questo ora dico basta! non voglio più obbedire a regole e dogmi o a una falsa morale come gli altri burattini. Preferisco sentirmi libero all’inferno che schiavo in paradiso, padrone di niente, servo di nessuno. Meglio essere un uomo vero, solo ed incompreso che uno dei tanti burattini umani.

                          

                      (Racconto tratto dal libro APOCALISSE MENTALE)

 

“APOCALISSE MENTALE”

Monologo in prosa surrealista, cerebrale e filosofica. L’autore medita sul senso della propria esistenza e sul destino universale di tutti gli esseri viventi. Si rivolge alla natura affinché possa svelargli il mistero che circonda tutte le cose ma l’interrogazione risulterà dolorosamente vana, non rivelerà nessuna verità e porterà la sua mente sino al delirio. La natura continuerà ad apparirgli bella e spietata, fino al punto di trasformare in poesia e vita, proprio come la bellezza d’un tramonto, persino il doloroso momento d’un addio o della morte stessa. La vita vana e fugace, è allettante e ingannevole come il canto delle sirene, l’autore ne è consapevole ma, proprio per questo, sente di amarla ancora di più e di non potersi più staccare da essa.

Seguendo la strada della follia, si lascerà annientare in tutto il suo essere e in questa sua apocalisse, troverà conforto in un poetico abbandono.

 

 

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                               Fantasmi nella notte

 

Ascolta…. ragazza sperduta in quest’infinito.

E’ notte, ogni cosa intorno è spenta e tace. Nel silenzio, dolcissimo, altre sensazioni di un mondo totalmente sconosciuto ma intrinseco con i nostri giovani spiriti, vivono con suoni e colori in dimensioni parallele e niente è ciò che sembra. Attimo fugace, come un fiore che sbocciando muore, in questa notte t’amo per non amarti più.

Noi due siamo come fantasmi nella notte, anime vaganti in cerca d’amore, muovendoci insieme, in trasparenza, candidamente invisibili, ci avviciniamo piano per non aver paura nell’oscurità.

Noi due fantasmi nella notte, solitari astri dispersi nel grande firmamento lassù, senza tempo e senza storia, rapiti dall’oblio, misteriosamente avvolti dalle tenebre, angeli di questa giovinezza. Magicamente lontani dal flusso impetuoso della multanime esistenza, noi due non avvertiamo più il battito sconfinato dell’infinito come orrenda solitudine e mistero interminabile. La realtà ci appare come un susseguirsi di fantasmi vuoti e meccanici ed ogni residuo di tristezza si smarrisce del tutto o vibra remoto in un placamento soave.

Ragazza sconosciuta! sei bella tra le ombre, sei più bianca della luna, il tuo viso brilla come una candela..

Lascia questa mia mano che hai stretto così fugacemente questa notte.

Alle prime luci dell’alba le nostre strade si divideranno per non ritrovarsi mai più.

Abbiamo acceso un fuoco in noi che il vento della vita che fugge spegnerà presto. Non dimenticarmi ovunque sarai, io non ti dimenticherò ovunque sarò anche se resteremo per sempre fantasmi nella notte.

 

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                         STORIA D’UN VECCHIO EREMITA

 

Vivo quassù tra le montagne, rifugiandomi nel mio nido silenzioso, in un lungo e solitario esilio. Ho abbandonato il mondo con il suo grigiore per osservare felice i colori dell’arcobaleno ed ogni volta scoppio a piangere di gioia mentre la mia anima si purifica nella luce del sole.

Non ho incubi che mi svegliano di soprassalto, non vedo più quei mille volti della gente pronti a sommergermi, è lo sguardo magico della natura che m’incanta e mi protegge nel buio come una madre schiude le ali sul suo piccolo.

La scala dei miei giorni, di gradino in gradino, sta salendo sin lassù, per questo veglio paziente ogni alba che nasce, così giorno dopo giorno m’avvicino al cielo e non ho paura di volare via nell’ora del tramonto, so che rinascerò in primavera per non essere mai più solo.

La morte mi aprirà le porte alla vita eterna e gli occhi della natura, che sono stati la luce della mia terrena esistenza, diverranno gli occhi di Dio lassù. Attendo la pace della sera per addormentarmi in un lungo sonno, stelle d’argento e cori di uccelli, porteranno lontano oltre le montagne l’eco della mia solitudine ed i miei sogni fragili saranno foglie verdi d’un albero solitario che la collera del vento non potrà mai spazzare.

Un freddo e misterioso inverno, busserai alla mia porta frustata solo dal vento, e addentrandoti nel mio nido, troverai quel panno che mi asciugava il sudore, il bastone che aggrappava la mia fatica, una candela che non si consuma. E quando sarai al sicuro, rivivrai i ricordi di quello che sono stato, ammirerai la statua di quello che sono adesso.

In un angolo buio, impolverato da tele, scoprirai il mio diario segreto, frammenti d’una vita mai vissuta, povera fuori, ricca dentro: Non bruciarlo ma fanne tesoro. E’ la memoria che infrange i secoli e vince il silenzio dell’universo, il buio della morte.

 

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APRITI CON ME

 

Non puoi fuggire da te stessa, non devi nasconderti anche da me. Ormai io ti conosco sai, è come se leggessi dentro i tuoi pensieri. Nei tuoi occhi da troppo tempo spenti ma bellissimi e di straordinario colore, vedo riflessa chiaramente come per magia la tua anima. Il tuo sguardo avvilente, etereo, quasi lunare smaschera questo tuo essere creatura persa, come chi è presente solamente col corpo ed è lontana mille anni luce con la mente Ma io provo ad immaginare il fascino di quel tuo viso che sarebbe capace di ipnotizzare chiunque se solo potesse ritrovare la bellezza e la spensieratezza del suo sorriso. Ti prego: apriti con me! Non chiuderti tenendoti tutto dentro, forse non trovi le parole, non sai da dove cominciare. Parlami del malessere che ti opprime e dal quale credi di non poterti liberare. Ci sono segreti, esistono paure in te, lo sento. La tua vita è un mare in tempesta ed il tuo futuro lo vedi annebbiato, hai già pianto parecchio fino a prosciugare ogni lacrima ma dall’amarezza e lo sconforto di questo tuo dolore, ne uscirai fuori e per sempre, se lo vorrai veramente. La mente mia ora precipita in fondo alla tua, e in simbiosi con i tuoi stessi tormenti scopre un’ombra, intravede una solitudine profondissima, si perde nel labirinto del tuo mistero lasciandosi del tutto rapire dalla angoscia che ti possiede. Come fari abbaglianti nel buio, i tuoi pensieri negativi sparano su me ma non mi uccidono, mi danno più forza. Ti scongiuro: apriti con me! Io ti ascolterò con attenzione e pazienza senza giudicarti affatto ma cercando di comprenderti, calandomi al tuo posto. Ora dimmi perchè ti consumi così, cosa c’è che mi nascondi, c’è un pericolo che incombe o un demone alle tue spalle. Dimmi tutto ciò che vuoi, qualsiasi cosa o confidenza, fammi partecipe di ogni tua sensazione, io sono pronto a seguirti con cura, ovunque ed a qualunque costo, finchè mi permetterai di farlo, amica mia! Non odiarti in questo modo ma rendi il bene per il male, prova finalmente ad amarti un pò, scaccia via dalla tua vita la tristezza, i fantasmi della notte, distruggi definitivamente la disperazione. Sento che un sogno, una speranza sopravvivono ancora sepolti dentro il tuo io, ti chiedono luce, entusiasmo, poesia, invocano tenerezza. Ti supplicano soltanto di non arrenderti al male ma di lottare, di non perdere la fiducia in te stessa, sanno che se vuoi ce la fai, puoi riscattarti aprendo gli occhi che tieni bendati. Insegui quel sogno e quella speranza, fallo con volontà e coraggio, credendoci fino in fondo, ti accorgerai che sono più vicini e raggiungibili di quanto tu possa pensare. Fai piovere amore su di te, apri la porta del cuore, quanto c’è di puro, di meraviglioso tu l’avrai. Coltiva e lascia germogliare quegli amori trascurati ed abbandonati in fondo al tuo cuore, sai bene che ci sono ancora, ti stupirai piangendo di gioia nell’osservarli fiorire nella tua giovane vita. Credimi, ti prego ascolta queste mie parole: apriti con me! Io sono qui con te per aiutarti. Non c’è sbaglio o colpa alla quale non si possa rimediare, non esiste sconfitta in grado di annullarti e non è mai troppo tardi per riemergere. Adesso sei solo caduta ma ti giuro e sono certo che presto ti rialzerai e rinascerai con più forza e più amore di prima. Credici, credici, credici!

 

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                                                “RIFLESSIONI”

 

A dispetto del tempo che inesorabile scivola sui miei anni, son rimasto quel bambino sperduto di ieri con lo stesso terrore di crescere, solo ed incompreso tra mille paure. Ho ancora voglia di sognare, illudermi, fantasticare. Vorrei rifugiarmi in un mondo solo mio, ricco di colori e d’ingenuità, dove poter finalmente tornare bambino senza crescere più, allontanando le terribili ombre della solitudine, della vecchiaia, della morte stessa, ma è un mondo fragile spezzato crudelmente dalla nuda realtà. Così, ogni volta che provo a volare in alto, una forza sconosciuta ed impietosa, mi taglia le ali ed io precipito giù più triste che mai, come un gabbiano che non vola più, mentre le mie lacrime, quelle stesse che percorrevan lente il mio viso pulito di bambino, continuano a non sapere quel che loro stesse vogliono e a non trovare quel fazzoletto che le possa asciugare per sempre. In esse, vedo riflessi i miei sogni, li vedo morire uno dopo l’altro sciogliendosi come gocce di pioggia disposte in fila, sospese alla ringhiera.

Continuo ad osservare con occhi limpidi e stranieri, l’immenso mare della vita ma è sempre inutile sforzarsi nel tentativo d’immergersi. Vedo lontano quel veliero che da piccolo chiamavo col nome di speranza e che non è partito mai. Eppure m’accorgo che dentro e fuori di me, v’è ancora tutto da scoprire e da imparare. Sento in me una grande energia vitale, creativa ed artistica. C’è in me una sensibilità profondissima, spaventosamente grande a confronto del mio fragilissimo essere che più s’ingrandisce e più resta isolata, soffocata dentro come un vulcano che dorme. Vorrebbe esplodere e sommergermi come un fiume in piena ma non può farlo, come una bottiglia smossa dalla quale non è possibile togliere il tappo. Forse sono troppo diverso da tutti perché possa essere capito, o forse è solo colpa mia se non riesco a esternare quello che ho dentro. Comincio a credere di essere un folle, quasi un alieno, così almeno mi creo un alibi per giustificare questo mio giovane vivere, terribilmente e prematuramente invecchiato.

Ho un disperato bisogno di vita, di giovinezza, di entusiasmo, d’amore. Con chi potrò aprirmi manifestando come sono dentro? Chi potrà veramente capirmi? Vorrei trovarti e finalmente gridarti con tutto il fiato che ho: “Ispirami, sconvolgimi, amami”. E intanto cresce il terrore d’invecchiare e il desiderio di morire ancor prima di vedere il mio corpo mortificarsi con le prime rughe. Non potrei mai sopportare il tremendo contrasto tra l’immortalità del mio spirito che, nonostante tutto sembra che esista, e la debolezza del mio corpo in declino. Sono sicuro che dentro, resterò sempre un bambino mai cresciuto anche se avrò i capelli bianchi e conserverò intatta nelle pupille degli occhi, la stessa luce ch’emanavo da piccolo. Amo troppo la giovinezza e non posso fare a meno di sognare per potermene fare una ragione sulla vecchiaia che è uno stato del tutto naturale e, di conseguenza, accettarla con rassegnazione o addirittura giustificarla. Per me la vecchiaia resta il più grave e doloroso castigo che la natura scagli contro gli uomini. È più malvagia e terrificante persino della morte. Eppure devo ammettere che la mia solitudine e la mia tristezza, sono nate con me, le ho conosciute da giovane, almeno in questo, la vecchiaia non c’entra. Estraniato da sempre dalla vita, non avendo niente ed essendo di nessuno, ho scoperto man mano me stesso. La mia solitudine è simile ad un messaggio chiuso in una bottiglia e gettato in mare. Forse un giorno, quando non ci sarò più, leggendo queste mie accorate riflessioni, mi capirai e, scoprendo che valevo qualcosa, piangerai per me.

 

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                                              “SOLO NEL BUIO”

 

È notte fonda ed io sono ancora sveglio con lo sguardo assente nella mia camera silenziosa, unica mia compagna, testimone di tanta solitudine. Senza chiudere occhio, penso a tutto e a niente. I vecchi soliti dubbi mi si accavallano in mente: come posso dormirci sopra? Sì, lo so! Fermarsi qui a pensare non si può, farla finita neanche. È solo mia la tristezza, la fine. Non ho più la forza di lottare ormai. Un altro inverno è in me, non devo crollare proprio adesso buttandomi via, devo trovare il coraggio di andare avanti da solo: Dove siete amici miei che avevo? Anche tu mi hai detto infine addio voltandomi le spalle, non sono più niente per nessuno ormai. Mi guardo intorno e vedo solo il vuoto. Grida la voce del mio cuore, spenta dal dolore che nessuno ascolta più. Vorrei non essere mai nato, chiudere gli occhi e scomparire in un attimo. Non so che sarà di me, sono confuso, disorientato, mentre gli anni passano veloci. Fuori è buio ed io tremo, comincio ad aver paura. Mi rigiro nel letto, grido nel sonno, ho incubi, sto male, piango e non ce la faccio più. Ho vissuto una vita che non è mai stata vita.

Dove fuggire un’altra volta? Come placare questa mia ansia fortissima? Ormai le ho già provate tutte, ogni tipo d’evasione, non è servito a niente! Ora mi ritrovo solo, nel buio, con i fantasmi della notte che m’inseguono molto più di prima. Sono nato solo. E solo morirò.

 

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                                     “LA MIA ESISTENZA SOLITARIA”

 

La mia vita è una strana vita, solitaria, incomprensibile, senza senso. Continue rievocazioni della mia adolescenza, sogni irrealizzabili, emozioni intensissime, una impressionante anche per me creatività che mi spinge a scrivere sempre, e poi amori platonici ed immaginari verso ragazze giovanissime, forse per illudermi pateticamente di ringiovanire. Chimere di eternità le mie, che non hanno nessun riscontro pratico destinate a morire e a dissolversi nel nulla. Su tutto questo sfacelo regna sovrana la signora Solitudine, è sempre e solo lei a starmi accanto fedele, fino ad incitarmi a dialogare con me stesso, parlando naturalmente e tranquillamente da solo, io con me stesso e nessun altro, in fondo sto bene col mio io e mi amo, forse questo è anche un bene che mi permette di tirare avanti senza deprimermi. Non ho una compagna che mi ami e mi dia calore dormendo al mio fianco, non ho figli da educare e crescere, né soldi per campare, niente lavoro per realizzarmi e rendermi utile, nemmeno amici per scambiare quattro chiacchiere, niente di tutto questo: sono il chiaro esempio di come non si dovrebbe mai vivere. Sono anche ossessionato dal continuo timore d’invecchiare e di morire o di essere preda di malattie corporali e questa specie di nevrosi mi perseguita da sempre, giorno per giorno, ora per ora, attimo per attimo. Temo la vecchiaia e la morte perché paradossalmente amo fortemente la vita anche se nella maggior parte dei miei scritti, trasmetto tristezza. Possiedo però una grande virtù che non tutti hanno la fortuna di avere: sono tremendamente sincero nell’arte come nella vita. Le ragioni di questo mio non fare, sono da ricercarsi nel fatto che mi son convinto ormai da tempo che non vale la pena impegnarsi nella vita pratica di tutti i giorni perché la morte arriverà prima o poi per tutti e saremo costretti ad abbandonare ogni cosa di questa terra quindi non ha senso impegnarsi in nulla di materiale, e mi ritorna in mente a tal proposito la famosa frase “gli ultimi saranno i primi” ed io mi sento orientato proprio verso gli ultimi della scala sociale, mai verso coloro che osservano dall’alto. Lo so, davanti ai tuoi occhi, caro lettore che mi leggi in questo momento, sembrerò pazzo, tanto da aver bisogno di mille psicologi ma ti prego rifletti per un attimo prima di giudicarmi e almeno sforzati di comprendermi. Durante questa mia assurda e solitaria esistenza non ho costruito proprio nulla di pratico e nulla ho intenzione di creare per il mio futuro. Preferisco rimanere immerso fino al collo in questo personalissimo mare di inguaribile monotonia e piattezza con una sola ma importante novità: sto cercando Dio con tutto me stesso, forse per riempire quell’enorme vuoto che ho dentro, chiedendo a Lui e solo a Lui tutto quell’amore che ho sempre cercato e non ho mai avuto. Non so spiegare nemmeno a me stesso il perché debba vivere così, forse è stata una mia libera scelta in sintonia con la mia anima inquieta e tormentata, o forse i continui e micidiali attacchi d’ansia sempre presenti sin da piccolo in me, hanno inevitabilmente condizionato tutta la mia esistenza, rendendomi totalmente schiavo di paure ed inibizioni. Ma non ho alibi adesso e non cerco giustificazioni di nessun tipo, sono così e basta e forse, paradossalmente e consapevole di una lucida follia, sono anche felice e orgoglioso di esserlo. Io sono questo, sono fatto così ormai e non mi piango addosso ma, al contrario, mi accetto e mi amo per quello che sono. Ho però dentro di me quell’inquietudine, quell’eterna immotivata per certi versi insoddisfazione che sarebbe giusto chiamare angoscia, che mi rende scrittore, artista, creativo e senza la quale non potrei mai esserlo.
Non so se sono davvero un poeta nonostante abbia scritto un’infinità di versi ma non m’importa affatto di saperlo, lo sento dentro di me e non devo dimostrare a nessuno di esserlo. L’unica cosa che so di certo è che scrivere mi fa sentire veramente bene, mi trasporta in alto, liberandomi dall’ansia e dalla materialità di questo mondo. È difficile spiegare, anche per me che mi reputo uno scrittore, quello che provo nell’intimo tutte le volte che ho una penna in mano: è una sensazione di forza, potenza, libertà, eternità mischiate tutte insieme e mi lascio trascinare via dalle parole che scrivo e che mi sommergono come un fiume in piena, incontrollabile, inarrestabile che vuole straripare. Credo che solo quando scrivo riesco ad essere veramente realizzato: sono me stesso, libero! L’arte eleva l’uomo rendendolo immortale. Quando creo una storia arrivo a sentirmi addirittura Dio nel far vivere e morire a mio piacimento i personaggi che invento.

 

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L A I L A 

 

Un breve racconto

appassionato ed intenso

a tratti tenero e struggente.

Un ragazzino solitario ed introverso

una giovane donna disinibita e spigliata

mossi dallo stesso desiderio:

conoscersi a fondo e sperimentare nuove emozioni.

L’autore,

con umana comprensione

e senza mai scadere nella volgarità,

scruta, indaga, penetra l’animo umano

mette in luce sentimenti e debolezze

coglie e svela ogni pensiero

con finissima introspezione.

 

 

Dicono che le storie d’amore tra persone di età differente, siano destinate a fallire in breve tempo e si presume non abbiano prospettive future di alcun tipo ma io, della mia Laila molto più grande di me, conservo ancora il ricordo, ed è il ricordo più bello di tutta la mia vita.

Tutte le ragazze o donne che ho immaginato di possedere o che ho avuto realmente nel corso della mia esistenza, messe insieme, perderebbero nettamente il confronto con lei, Laila, il mio sogno proibito, il mio desiderio peccaminoso, il diavolo vestito d’innocenza, la malizia più sfrontata che si sposa con la tenerezza

più disarmante; colei che detiene il potere ancestrale di unire in simbiosi inferno e paradiso, angeli e demoni, fiamme e virtù.

Dicono inoltre che i rapporti intimi consumati o vissuti in età troppo immature, possano segnare negativamente e per sempre un essere umano; ma io, solo grazie alla vicinanza del corpo di Laila, son diventato poi un artista creativo, una specie di “alieno”, un sensitivo, profondissimo nella sensibilità e nello spirito. La sua carica erotica, la sua potenza ammaliatrice meravigliosamente devastante, mi hanno reso vivo nel corpo e ancor più nella mente. Dietro l’apparenza d’una opprimente angoscia e della mia inguaribile solitudine, emerge prepotente un flusso inarrestabile di energia vitale, indomabile e che non conosce limite.

Avevo compiuto da poco quattordici anni quando lei senza preavviso prese possesso della mia vita come una spada affilata conficcata dentro la mia tenera carne, fragile rivestimento d’un corpo ancora impubere.

In quel tempo lontano, ricordo adesso che ero sempre triste, a dispetto della mia giovanissima età. Tremendamente malinconico ed introverso, solo e senza amici, possedevo però già da allora in me, l’embrione di quello che sarei diventato dopo, crescendo, e quel che è accaduto con Laila, non ha fatto altro che rendermi consapevole della mia vera natura, quasi come se il destino me l’avesse mandata apposta per affrettare i tempi di questa mia consapevolezza e per incitarmi a non reprimerla facendomi del male, annullando me stesso.

Non avevo avuto una ragazza fino a quel momento, non conoscevo ancora l’intensa emozione del primo bacio, gli elettrizzanti brividi che scaturiscono dal contatto con un corpo diverso dal mio che già avevo imparato a conoscere bene attraverso le mie continue ed intime carezze solitarie.

Uno strano ragazzo ero io, e forse in parte lo sono ancora, e chissà se è stato esclusivamente per questo motivo che il destino, beffardo, a volte crudele, altre ironico, si è premurato di far accadere gli eventi al momento giusto ed usando la persona adatta affinchè i suoi disegni trovassero realizzazione, ennesimo copione di uno strano ed incomprensibile teatro che è la vita, con i suoi attori mascherati che si muovono come marionette appese a fili ingarbugliati, senza identità e senz’anima, nel crudele gioco della vita e della morte, tra cause ed effetti, credendo di operare secondo il proprio libero arbitrio ma in realtà resi intelligentemente schiavi da qualcosa o qualcuno che nessuno conosce ed è in grado di definire. La mia deliziosa ed accattivante Laila non era altro che la figlia di questo destino e come tale doveva obbedirgli.

Ero seduto su una panchina di “villa Dante”, uno spazio di verde molto grande situato nei pressi del centro di Messina, la mia città. Potevano essere circa le 2 o forse le 3 del pomeriggio, non ricordo bene con esattezza ma era un orario nel quale a me piaceva e piace ancora molto, uscire per camminare un pò per le strade. Ricordo anche che era un giorno di primavera inoltrata con una temperatura abbastanza mite ed un’aria fresca, gradevole da essere respirata. Vi era il sole, il cielo si mostrava azzurro ed anche il verde del parco, l’ombra degli alberi col sottofondo del cinguettio degli uccellini sul nido, in armonia con la serenità della natura, sembravano richiamare alla vita e forse all’amore.

Mi trovavo in uno stato di assoluta calma, quasi irreale, assorto in enigmatici pensieri, con la testa tenuta fra le mani e lo sguardo assente rivolto fisso in giù verso il terreno, cosparso di foglie. A prima vista, a chiunque fosse passato per caso di lì in quel momento, potevo benissimo dare l’impressione di un ragazzino perdutamente solo con i suoi pensieri ed in preda alla disperazione e allo sconforto più cupo ed oscuro senza nessuna possibilità di salvezza, privo di qualunque via d’uscita. Quell’atteggiamento però, paradossalmente, significava interiormente per me, un modo di sentirmi che era esattamente l’opposto di quel che appariva; era per la mia psiche, sinonimo di rilassatezza mentale e fisica, serviva a tranquillizzarmi dentro, mi induceva alla meditazione, alla libertà creativa dei pensieri.

Fu esattamente in quello stato e proprio in quella posizione che mi vide Laila per la prima volta.

Non so spiegarmi ancora adesso il perchè si sia avvicinata a me non conoscendomi affatto e quali vere intenzioni o motivazioni l’avessero spinta a farlo nè se oscuri e complicati pensieri guidassero la sua mente. So però con certezza che lo fece, purtroppo o per fortuna, e che da quel momento, tutta la mia vita cambiò radicalmente e niente fu come prima: ero segnato ormai! L’uomo bambino che era già in me, è stato partorito proprio in quell’attimo ed ha visto per la prima volta la luce, per poi diventare , nel corso degli anni, quell’uomo “strano” e “misterioso” che è adesso e che sono certo, rimarrà tale fino alla fine dei suoi giorni.

Sentii, mentre continuavo ad essere immobile e pensieroso a testa in giù, una mano dolce, carezzevole, vellutata, quasi serica accarezzarmi i capelli, avvertii la tenera ed infantile rimembranza di quando, piccolissimo, mi trovavo impaurito fra le braccia amorevoli di mia madre. Quella mano leggera e direi magica che giocava spettinando e ricomponendo con cura la frangetta dei miei capelli, quasi come fosse il tocco di un angelo, si accompagnava poi ad una voce suadente e persino fiabesca, a tratti misteriosa, che contribuiva alla creazione di quell’insolito incantesimo. Rimasi con gli occhi socchiusi per imprimere nella mia mente e nel mio cuore quelle vibranti e intense sensazioni, del tutto inaspettate e mai provate prima, senza la volontà di alzare minimamente lo sguardo nel tentativo di scoprire la fonte di quel benessere, era come se avessi paura di svegliarmi rovinando quel bellissimo sogno, un sogno che però poteva anche cominciare nell’esatto momento in cui mi sarei risvegliato e forse si sarebbe rivelato ancora più bello.

Fu lei e soltanto lei però che interruppe quella magia sussurrandomi all’orecchio:

“Cosa c’è che non va?”—”Perchè sei così triste?”—”Hai l’aria di chi ce l’ha col mondo intero, vuoi parlarne con me?”

A quel punto, d’istinto, alzai immediatamente gli occhi indirizzandoli su lei, cambiando repentinamente posizione ed atteggiamento: mi trasformai infatti in un ragazzino curioso ed attento assolutamente determinato a risolvere il suo complicatissimo rebus mentre il mio sguardo, prima timido ed impaurito, ora, incrociando il suo, si mostrava forte e penetrante come se fossi io l’adulto e non lei.

Siamo rimasti entrambi così: occhi negli occhi, sguardi che si scrutavano in silenzio, menti che cercavano in tutti i modi di capirsi non conoscendosi ancora. E fu proprio nell’incertezza e nell’incomprensione di quegli attimi, che io capii dentro di me chiaramente che, più o meno consapevolmente, mi sarei consegnato completamente a lei, alla sua forza seduttrice, al suo malizioso ed intrigante gioco; avrei dato a quella misteriosa e sconosciuta ragazza, il mio corpo e la mia anima, accettando tutte le possibili conseguenze di una simile ed incondizionata resa, pronto a raccogliere poi tutto ciò che di bello o di tenebroso sarebbe potuto accadermi.

Come un sesto senso chiaro ed inconfondibile, capii che quella ragazza, molto più grande della mia età, mi avrebbe trasportato con se’ in posti inesplorati, sconosciuti, indefiniti, non compatibili con la ragione o con la morale ma, proprio per questo, attraenti e ricchi di fascino dove la libertà dell’istinto e delle sensazioni più intime dell’animo umano, non conoscono limiti, non sanno e non vogliono fermarsi davanti a niente.

Quello che ricordo ancora con meraviglia e tenerezza, è l’amore che io sentii subito per lei sin dal primo sguardo, proprio come un ragazzino alla sua prima “cotta”, mi innamorai perdutamente di Laila, nonostante l’enorme differenza d’età, nonostante non sapessi nulla di lei; ma la magia, e insieme la purezza genuina ed originaria di quel sentimento, non possono essere razionalizzati e giudicati per nessun motivo al mondo, perchè in tutto ciò che sa di magia, non può entrarvi il reale o la logica.

Ero fermamente convinto che quella ragazza già donna potesse essere e diventare il mio primo amore e quindi, conseguentemente, avrei avuto la possibilità di sperimentare e gustare le emozioni uniche del primo bacio, delle prime intimità, dei primi piaceri fino ad allora solo immaginati. Tutte queste meravigliose ed avvincenti scoperte per un ragazzino ancora totalmente inesperto in quel campo quale ero io allora, sentivo dovevano essere interamente affidate e subordinate alla sua persona, adattissima e meritevole ai miei occhi del ruolo che avrebbe dovuto adempiere; era quella sua straordinaria ed esplosiva figura di giovane donna a darmi questa certezza, e ancora, il suo essere così splendidamente ambigua, un pò angelo e un pò diavolo, dolce e glaciale, comprensiva e sfuggente, vicina eppur mille anni luce lontana: amica, sorella maggiore, amante.

Non fui in grado di rispondere con la voce a quelle sue prime domande che la facevano assomigliare più a una poliziotta che a una fidanzata, la mia volontà nel farlo era annientata dalla sua folgorante bellezza, rapita e vittima del suo misterioso fascino. I suoi occhi, intriganti, indagatori, riuscivano ad emanare ugualmente luce. Il suo corpo mi dava l’impressione di una potentissima calamita capace di attirarmi col suo campo magnetico fortemente a sè a tal punto da dover resistere con tutte le mie forze per non venire risucchiato da lei.

Mi chiedevo con una certa insistenza senza per altro trovare risposte adeguate, il motivo per il quale una ragazza così bella si potesse interessare ad un moccioso come me che in fondo puzzava ancora di latte considerando il fatto che dimostravo circa dodici anni e non ero affatto sviluppato da uomo; ero infatti molto più simile ad un bambino, esile e con i caratteri sessuali non ancora delineati, e per di più un ragazzino fino ad allora sempre solo e dimenticato da tutti che poteva passare tranquillamente sotto le gambe degli adulti senza essere notato. Per tutti questi motivi, per un attimo mi balenò nella mente confusa e disorientata, predisposta sin da allora ad essere preda della fantasia, l’ipotesi che lei non appartenesse al mondo reale e che fosse addirittura un fantasma o facesse parte di un sogno, come una creatura immortale e senza tempo, figlia di pura immaginazione. Ma era troppo vera, troppo seducente, troppo carnale per essere stata inventata da me. Continuavo quindi ad osservarla con una certa insistenza e notavo che lei non ne provava affatto imbarazzo ma anzi, al contrario, si sentiva fiera di se’, si divertiva ad essere scrutata in quel modo da un ragazzino, era esibizionista assai più di un pavone che mostra le sue grazie. Guardavo con attenzione e curiosità tutto di lei: i capelli lunghi fino alle spalle, ben pettinati, di colore nero intenso come se fossero stati appena tinti ad arte dal parrucchiere per spiccare ancora di più con quegli occhi celesti dentro i quali ci si poteva perdere tra cielo e mare senza mai più ritrovarsi, in un contrasto di bellezza e fascino da lasciar chiunque la osservasse, senza fiato e senza parole. Anche il suo fisico era perfetto, tale da far invidia alla più sexy delle modelle, era alta, parecchio più di me, con le forme giuste in ogni parte del corpo come se fossero state scolpite appositamente per essere adattate a lei, dal più grande scultore di tutti i tempi. E poi il suo profumo o il suo odore naturale, non saprei, sembravano un tutt’uno: era così irresistibile che anche il più pudico e puro dei maschi esistenti sulla terra, non avrebbe potuto resisterle, credo che nessun uomo vivo potesse rinunciare a lei.

Indossava una camicetta bianchissima come la sua carnagione, una gonna di jeans non troppo corta ed un paio di scarpe da ginnastica anch’esse bianche.

Un look tipicamente da teenager che ai miei occhi e non solo, aumentava di molto il suo potere seduttivo che possedeva comunque anche nei gesti e nel modo di fare. Ma sarebbe stata attraente ugualmente in qualunque modo si fosse vestita, anche da zingara o da barbona

e specialmente nuda.

Vedendo che io non parlavo affatto e che non avevo ancora risposto alle sue domande iniziali, mi chiese educatamente il permesso di sedersi sulla panchina al mio fianco, ed osservando il mio segno di assenso manifestato mimicamente col semplice abbassamento del capo, lo fece immediatamente, in fondo era quel che voleva pur di entrare in un rapporto di confidenza e di dialogo con me. Mi si sedette accanto tirandosi i lunghi capelli indietro con le mani, portando il petto in avanti, accavallando le gambe ed infine emettendo un breve ma intenso sospiro.

Non so cosa mi prese nella mente e nel corpo in quell’attimo ma di certo fu qualcosa di veramente incontrollabile e insieme sconvolgente: mi ritrovai col cuore che batteva fortissimo all’impazzata, peggio di un tamburo, sembrava volesse scoppiarmi in petto da un momento all’altro, ricordo che pensai subito ad un possibile infarto. Ma era solo uno sconvolgimento naturale, generale però che coinvolgeva, propagandosi a vista d’occhio, ogni parte del mio corpo. Un’eccitazione di gran lunga superiore alla masturbazione o alla visione di giornaletti pornografici o films a luce rossa, tutte sensazioni che avevo già sperimentato in passato. Questa volta si trattava di molto più di una semplice eccitazione, l’adrenalina era a mille, devastante, inebriante, il sangue correva veloce e pareva bollire nelle vene, il respiro diveniva sempre più affannoso, sembrava mi mancasse l’aria, un malessere totale e diffuso ovunque che paradossalmente, aveva i connotati del piacere, non capivo più la differenza fra lo stesso piacere e la sofferenza perchè in fondo si trattava anche di sofferenza, non fosse altro perchè tutto il mio corpo nella sua totalità stava reclamando ad altissima voce uno sbocco immediato, come se si trattasse di una questione di vita o di morte, uno sbocco che io non potevo e non sapevo dargli. In quegli attimi così unici e particolari, ho compreso il dramma dei cosiddetti “maniaci sessuali” o delle donne “ninfomani” e che in fondo, maniaci a causa del sesso, lo siamo un pò tutti se analizzassimo più obiettivamente e senza falsi pudori la nostra situazione di esseri carnali. La cosa tragica e comica al tempo stesso di quel periodo, consisteva nel fatto che dovevo cercare di nascondere tutto il mio sconvolgimento interiore a Laila pur avendola vicinissima. Ho messo una gamba sull’altra illudendomi ingenuamente di coprire la mia erezione ma nulla potei fare per celare il rossore che appariva nitidamente dipinto sulla mia faccia. In quel momento, la differenza d’età fra me e lei non contava più nulla, era disintegrata, regnava soltanto il mio giovanissimo corpo d’adolescente, esplosivo nei sensi per l’età ma soprattutto per natura, specie la mia natura già così predisposta a simili sollecitazioni e a picchi di altissimo livello.

Cercai di girarmi dall’altro lato guardando in tutte le direzioni possibili ed immaginabili pur di non incontrare il suo sguardo, ero ridicolo, commovente, tenero, con la assurda presunzione di nascondere ad una donna che stava proprio al mio fianco e molto più esperta di me, quello che nel corpo e nei miei pensieri provavo. Non avevo l’esperienza e la maturità di comprendere che ad una donna se sei furbo e sai recitare, puoi nasconderle tutto, tranne la reazione fisica che hai nel desiderarla.

Non so cosa passasse nella testa di Laila in quei momenti di evidente imbarazzo ed eccitazione per me, non mi posi neanche il problema perchè ero troppo preso da quel veleno dolce e logorante che mi scorreva nel sangue. Sicuramente però, nemmeno lei doveva essere tranquilla, non poteva affatto esserlo a meno che quella situazione riusciva ad analizzarla con occhi comici e non di disperazione, quest’ottica le avrebbe assicurato una relativa calma e un certo controllo anche su lei stessa. Forse, può anche darsi, che l’idea di avere accanto a lei fisicamente, fin quasi a sfiorarla, un ragazzino alle prime esperienze e forse del tutto vergine, la stimolasse emotivamente e sessualmente, scuotendola, ed io capii per la prima volta in vita mia che l’incontro tra due persone mentalmente libere e oserei dire “perverse”, riesce sempre a provocare una miscela di adrenalina esplosiva, condannata senza appello dalla morale e dalla chiesa ma incoraggiata senza limite dall’istinto.

Ho compreso anche il micidiale potere che ha su di me “il fascino del proibito”, una scoperta che è diventata “legge” per il resto della mia vita e che ha creato una dipendenza da esso che non sono riuscito ancora a vincere nonostante abbia fatto ogni sforzo possibile e ogni sorta di preghiera, continui disperati tentativi sempre inutili ed incapaci di debellare questo mio invisibile amico-nemico, evidentemente è talmente radicato nella mia psiche da essere più forte persino della mia stessa volontà: è un dramma tutto umano e carnale quando il male, individuato come tale, ha ancora presa su di te perchè reso immune dalla tua inclinazione naturale, è come un nemico che per una vita intera ha convissuto con te ingannandoti mentre tu con fiducia lo reputavi amico e che poi improvvisamente e quando meno te lo aspetti, scopri essere il più cattivo dei mali e tu, pur allontanandolo, non sei in grado di odiarlo come dovresti proprio perchè senti che una parte di te, più o meno consistente, morirebbe con lui se provassi a bruciarlo, purificandoti.

Ma se dovessi analizzare oggettivamente e basandomi soltanto su come mi apparisse all’esterno Laila, forse un pò superficialmente, a prima vista, l’impressione che mi darebbe sarebbe quella che lei avesse dentro, una assoluta tranquillità. Ero io, al contrario suo, ad essere un vulcano di idee confuse che si accavallavano nella mente l’una sull’altra, miriadi di domande puntualmente senza risposte, un’infinità di iniziative che morivano sul nascere senza alcuna realizzazione pratica; qualunque psicanalista avrebbe trovato terreno fertile e materiale in abbondanza per favorire i suoi studi, Laila ma soprattutto io, eravamo cavie da laboratorio davvero perfette.

Restammo quindi entrambi in silenzio, ciascuno aspettava che fosse l’altro a parlare ma nessuno di noi due si decise a farlo. Non riesco a quantificare col tempo la durata di quel silenzio, so solo che per me è sembrato non aver mai fine, un’eternità ma il tempo è relativo quando ti trovi in uno stato di tensione emotiva o di stress mentale quale era il mio.

Fu lei, la mia Laila, che riprese in mano la situazione e a condurre quello strano gioco, e forse è stato giusto così perchè era la più grande.

“Posso presentarmi, vuoi?— Io mi chiamo Laila ed ho ventisei anni!— E tu, tu come ti chiami?— Quanti anni hai?— Che classe frequenti a scuola?”

Io, del tutto rassicurato da quei suoi gesti sempre dolci, convincenti, garbati che denotavano educazione, rispetto, una grande attitudine in genere verso la socializzazione, la sentii subito amica e complice, ricominciai a trovarmi a mio agio, avevo fiducia in lei ed anche l’eccitazione sembrava essersi placata come per miracolo, tanto che mi venne naturale risponderle:

“Piacere! Il mio nome è Claudio ed ho quattordici anni compiuti da poco.— Sono in primo superiore”.

Ricordo che fui colpito da quel suo nome che sembrava più adatto ad un personaggio dei cartoni animati che a una ragazza, lo trovai alquanto buffo e strano ma non le dissi nulla per delicatezza.

Così anche lei potè sentire per la prima volta la mia voce.

“Sembri più piccolo”— mi disse ancora lei sorridendo e facendomi intuire che la cosa non le dispiacesse affatto.

“Sì, lo so!— Me lo dicono tutti!— Ma ho tempo per crescere” —fu la mia risposta, semplice e simpatica.

Quindi restammo nuovamente in silenzio per un altro pò di tempo, a volte stare zitti ha più valore di mille parole, accresce il mistero, crea poesia, serve a riflettere per non commettere errori o passi falsi che potrebbero pregiudicare tutto quello che di buono è stato costruito fino a quel punto.

Fu di nuovo lei a riprendere l’iniziativa formulando altre intriganti domande:

“Hai la ragazza?”

“No!”— le risposi deciso io.

“Come mai ?”— mi chiese di nuovo lei ancora più incuriosita.

“Non lo so neanch’io, non ho mai avuto una ragazza in tutta la mia vita, spero di trovarne qualcuna che mi voglia prima di diventare vecchio!”— le dissi un pò sfiduciato ma con sincerità.

Il fatto di scoprire che non ero mai stato con una coetanea e conseguentemente neppure con una donna e che quindi ero assolutamente vergine come terra di conquista da esplorare, la colpì profondamente.

Lo avvertii dal suo sguardo che si accese di colpo, una luce attraverso la quale captavo una morbosa curiosità di approfondire questa nostra amicizia che già sul nascere non era normale. Riuscivo altresì a comprendere che lei provava pure un intenso desiderio di conoscermi meglio, desiderio che sarebbe stato sicuramente legittimo e giustificabile se io ero un ragazzo di un’età simile alla sua ma che risulterebbe apparentemente incomprensibile per chiunque l’avesse analizzato in quel contesto.

Non capivo ancora bene quale fosse il suo folle proposito nei miei riguardi oppure lo sapevo perfettamente perchè ero un ragazzino molto sveglio ed intelligente malgrado l’età, forse inconsciamente mi piaceva rimanere nel dubbio, lasciarmi del tutto rapire da quell’alone di mistero che copriva ormai entrambi, per essere vittima ed insieme attore principale di questo strano ed insolito film. Desideravo poter scoprire la verità un poco alla volta per gustare meglio gli eventi, soprattutto quando si trattava di situazioni così stuzzicanti e coinvolgenti, capaci di avere presa su persone di qualsiasi età e quindi anche su un ragazzino di quattordici anni che ne dimostrava a malapena dodici.

Laila continuò poi a farmi altre domande semplici e scontate sulla mia famiglia, sui miei amici, sui miei passatempi, i miei gusti musicali, sulla scuola ma senza mai entrare in argomenti inerenti alla mia sfera intima specie nel campo sessuale, io rispondevo a tutte le domande, sempre e con la massima sincerità.

Dopo essersi assicurata che potevo tranquillamente rimanere fuori da casa almeno fino alle otto di sera, come un fulmine a ciel sereno, mi chiese improvvisamente senza indugi, frantumando quell’atmosfera di normale, sereno dialogo e servendosi di una voce divenuta di colpo adulta, determinata, risoluta :

“Vuoi venire a casa mia?”— Mi fai compagnia?— Non abito lontano da qui—Ho la macchina posteggiata vicino alla villa, una panda rossa.— Abito da sola in un appartamentino piccolo con due stanze, col mio fidanzato ci siamo lasciati per sempre, ora sono libera, libera come l’aria, anzi come l’aquila, hai mai visto le aquile volare, libere?”.

Mentre mi diceva questo, avvertivo in lei una certa eccitazione che similmente era presente anche in me, cercava di mostrare il più possibile sicurezza, mi dava invece l’impressione di essere alquanto spaventata come se temesse di essersi spinta oltre il limite fino a sconfinare là dove sarebbe stato difficile poi controllarsi, faccia a faccia con il volto inquietante del rischio.

Ma il desiderio crescente di ricevere al più presto una mia risposta, positiva o negativa che fosse, le riede di nuovo forza e coraggio annullando quel germe di pentimento che si stava affacciando in lei per riportarla alla ragione, quella della logica, non della carne.

Io mi sentii venir meno e il mio cuore riprese nuovamente ad accelerare il suo ritmo senza sosta, anche a quattordici anni si può desiderare una donna e la passione che si accende non si può indirizzare verso un’età specifica, la legge dei sensi va dove vuole e tu hai solo da scegliere: o la reprimi o la segui! Ed io, in bilico, posto esattamente al centro o per meglio dire sospeso tra queste due soluzioni, in un primo tempo non sapevo proprio che fare, come comportarmi.

Cercai in quel brevissimo tempo che Laila mi concedeva per rispondere, per quanto mi era possibile in quella situazione di totale confusione e smarrimento mentale, di riordinare in qualche modo le idee per poterle dare una risposta il più possibile coerente con la mia volontà, ma non può esistere una scelta libera dove vi è il richiamo dei sensi e per di più a soli quattordici anni. Di certo riuscivo a comprendere che la desideravo o più semplicemente ne ero fortemente attratto come forse anche lei inspiegabilmente lo era verso di me. Mi piaceva tutto di lei, la differenza d’età, per me, non era affatto un problema. Pensavo che se si fosse trattato di una mia coetanea, sarebbe stato sicuramente tutto più facile, naturale e meno complicato ma mi rendevo conto al tempo stesso che il desiderio non sarebbe stato così forte ed intenso, il solito e sempre presente “fascino del proibito” si diverte ogni volta ad uscire alla scoperto nei miei pensieri rivendicando il suo incontrastato potere su di me sin dall’età di quattordici anni e ancor prima. Il desiderio di voler andare fino in fondo a quella storia, la curiosità in parte fanciullesca di conoscere il finale, di aprire quel cassetto che tutti ti dicono sin da piccolo di tenere chiuso senza spiegarti il perchè, il timore di avere poi rimpianti per aver perso un’occasione mai più ripetibile e altri motivi simili messi insieme, mi spinsero in maniera decisa ad accettare il suo invito, del resto a quell’età gli ormoni sono in tempesta, non li puoi controllare e dominare, basta un nonnulla per farli esplodere, reprimerli ti fa stare peggio; è un pò come avere una Ferrari e non sapere come guidarla e a chi ti offre la possibilità di farti da istruttore di guida, chiunque esso sia, tu non puoi dire di no. E questo è esattamente che quello che ho fatto io, prendendo in esame il dato che avevo trovato una istruttrice di guida che era una vera “bomba” e conosceva bene il suo mestiere. Certo ci poteva essere il rischio di correre troppo e di essere vittima di un incidente stradale più o meno grave ma è sempre meglio correre che star fermi, e poi non è affatto detto che si investa, basta usare prudenza ed avere fortuna, quella è necessaria sempre in ogni campo della vita. Così la mia voglia di sentirmi già grande ha trionfato contro l’idea di restare chiuso nella bambagia e dissi un sì convinto a Laila.

Scaricare comunque tutta la responsabilità di quella mia scelta soltanto a lei in quanto adulta, sarebbe troppo semplicistico e sbagliato. Io ero assolutamente consapevole di voler andarci, nessuna forma di costrizione se non la sola forza della seduzione da parte sua ma ero totalmente libero di rifiutare. Ho detto sì perchè era bella e mi piaceva, questa è la verità e basta, non esistevano altre verità nascoste o pressioni subdole. Avevo già ben piantato nel mio DNA quel germe che oggi, in età adulta, mi fa continuare ad essere quello che sono, reclamando la totale libertà dei sensi, sbagliata o giusta che sia, diabolica o naturale non saprei.

Laila si rivelò entusiasta nell’udire la mia risposta positiva, neanche lei si aspettava una determinazione così radicata in un ragazzino di quattordici anni ma, evidentemente, il destino scopre le carte e ha il potere di far incontrare fra loro persone giuste al momento giusto.

Spruzzava felicità da tutti i pori ed ero felice anch’io per aver contribuito nel mio piccolo a renderla gioiosa, ma eravamo più belli entrambi, merito della forza misteriosa, pericolosa, dissacrante dell’eros ma pur sempre una forza, diamo a Cesare quel che è di Cesare.

La mia Laila non perse un solo attimo di tempo, si alzò di scatto dalla panchina con una strana luce negli occhi che a me pareva persino fosforescente e mi afferrò la mano con la sua invitandomi ad alzarmi, stringendomela così forte da incutermi un improvviso brivido di paura, ma fu solo un lampo, un brevissimo lampo, come il flash d’una macchina fotografica.

Lei camminava in fretta avanti, io la seguivo un paio di metri distante da dietro, come quel padre geloso che segue la propria figlia di nascosto e senza farsene accorgere, mimetizzato sotto il cappello e coperto dall’impermeabile, magari persino col giornale in mano, facendo finta di leggerlo e guardandola da dietro gli occhiali scuri.

Vidi la sua panda color rosso fuoco tipo le fiamme dell’inferno, era posteggiata poco distante da quella villa proprio come mi aveva detto lei in precedenza. Era un’auto pulita, ben tenuta tanto da sembrarmi appena uscita da un’officina per il lavaggio. Per un attimo credetti che se le era fatta lavare in vista del nostro incontro ma poi pensai subito che non era affatto possibile, a meno che non aveva il dono di predire il futuro, ormai dopo quello che di strano mi stava accadendo quel giorno, non escludevo più nessuna ipotesi, anche la più inverosimile.

Laila aprì lo sportello, quello situato accanto al posto di guida e con estrema gentilezza mi fece segno di entrare e di sedermi, io lo feci subito senza lasciarmi minimamente pregare, chiuse in fretta lo sportello, aprì l’altro e si sedette al volante e via più veloci della luce, si fa per dire perchè a Messina c’è sempre traffico in ogni ora del giorno. L’odore suo inebriante, due gambe splendide che non potevo fare a meno di notare con la coda dell’occhio mentre guidava, e poi ancora il seno perfetto che s’intravedeva dalla camicetta e che sembrava sollecitare la mia attenzione ad ogni suo movimento, i capelli che ondeggiavano al vento man mano che l’auto prendeva velocità quasi come una puledra in libertà nei campi, insomma tutto di lei stava cominciando a procurarmi un’altra violenta ed incontrollabile eccitazione, nessuna ragazzina della mia età mi aveva mai stimolato così tanto. No! Non si trattava di un sogno o di una semplice fantasia erotica dove sarebbe bastato svegliarsi dandosi un pizzicotto per ritornare alla normalità, no! Lei era vera, straordinariamente vera, in carne e ossa, molta più carne che ossa. Ricordo che per un attimo, pur di liberarmi col pensiero da quel dolce tormento, provai persino con l’immaginazione a trasformarla in una vecchia racchia piena di lentiggini, brufoli e cellulite ma fu uno sforzo vano perchè appena aprivo nuovamente gli occhi e vedevo lei, lei e soltanto lei, nessun’altra immagine o figura creata da me per contrastarla, riusciva a prendere il sopravvento su lei, la mia Laila eclissava tutto e regnava sovrana, fuori e dentro di me.

Per un attimo credetti persino di raggiungere l’orgasmo, lì sulla macchina, senza nessun contatto fisico con lei ma semplicemente avendola vicino; per non sporcarmi e rovinare tutto ancor prima di cominciare, cercai di distrarmi in tutti i modi possibili ma tutti i miei pensieri ormai si affollavano su lei.

D’un tratto, mentre guidava, mise la mano nella sua borsetta, tirò fuori un pacchetto di sigarette e mi pregò di prenderne una e metterla nella sua bocca visto che lei era impegnata nella guida. Cercai nella borsa l’accendino che doveva pur esserci da qualche parte, lo trovai finalmente, e appoggiai la sigaretta in quelle sue sue labbra morbide da baciare ma senza l’ombra di un rossetto, quel giorno era completamente senza trucco, acqua e sapone e forse fu meglio per me perche non avrei potuto resisterle se fosse stata truccata magari come una vamp o una prostituta o un’attrice di film porno. Immaginai per un attimo come potesse essere bella ed attraente se fosse stata truccata e fui colto da un altro ennesimo brivido di eccitazione, fortunatamente, questa volta di breve durata. Con le mani tremanti portai l’accendino vicino alle sue labbra e lei accese la sigaretta spostando leggermente la faccia in avanti e sorridendomi con un sorriso complice, come chi prometteva al più presto una ricompensa, riprese quindi a guardare la strada. Avrei voluto chiederle il motivo per il quale in quel giorno non fosse truccata e se amava farlo di solito ma poi un altro pensiero mi convinse a stare zitto, non capivo neanch’io il perchè.

Arrivammo finalmente a destinazione, avevamo impiegato circa una ventina di minuti. Abitava nella parte sud della città, nella zona di San Filippo dove vi sono gli impianti sportivi e lo stadio da poco costruito del Messina calcio.

Era un complesso con una serie di case poste a schiera con un ampio posteggio numerato per lasciare le auto ciascuna nel posto assegnato. Entrò con la macchina nello spazio a lei consentito e scese per prima dalla vettura, prese la borsa e chiuse a chiave lo sportello di guida. Io rimasi come paralizzato ad osservare il complesso di case, i posti auto, l’ambiente circostante, una strana sensazione di confusione mi si stava affacciando nella mente, troppo provata dai rapidi cambiamenti di quel giorno e quindi non più tanto lucida.

“Sveglia “—mi disse scuotendomi da quell’inaspettato torpore e mi fece cenno di scendere dall’auto, chiuse a chiave anche l’altro sportello e si incamminò senza troppa fretta verso casa, io come un automa o meglio ancora come un barboncino fedele, la seguivo poco distante da lei. Laila appariva calma, serena, per nulla turbata da quel che poteva avvenire tra di noi nell’intimità di casa sua e a tutte le possibili incontrollabili conseguenze che sarebbero potute derivarne, vista soprattutto la mia giovanissima età. Era come se ormai avesse la certezza di tenere tutto sotto controllo e mi avesse tranquillamente in pugno, del resto era la verità, qualunque cosa avesse voluto da me, l’avrebbe ottenuta con estrema facilità, io gliel’avrei concessa, docilmente e senza condizione alcuna; era un divertimento anche per me, non solo per lei, non v’era l’ombra del sacrificio, eravamo responsabili e complici allo stesso livello malgrado una fosse maggiorenne e l’altro minorenne, ero ragazzino lo so, ma non ero affatto stupido nè handicappato ed anche se non l’avevo mai fatto e probabilmente non sapevo neanche come si facesse, sapevo benissimo quello che sarebbe potuto accadere e a cosa sarei eventualmente andato incontro. Fino ad allora l’avevo visto fare solo nei film hard ma una cosa è vederlo, un’altra è essere tu il protagonista assoluto, provare direttamente sulla tua pelle e con una donna a fianco quelle emozioni. Non solo, ma non avevo mai visto fino a quel giorno una donna vera nuda, neanche col binocolo.

In quel momento sentivo che era giusto quello che stavo per fare perchè nel mio cuore credevo d’amarla davvero e quindi mi sembrava un rapporto vero d’amore e non solo una relazione di sesso occasionale. Questa convinzione non mi faceva vedere nulla di sporco in tutto ciò ma anzi mi sembrava del tutto legittimo e naturale farlo con la persona che amavo. Oggi sono fermamente convinto che anche quando tra due individui ci sia apparentemente un rapporto di solo sesso, credo che esista sempre all’interno di esso, in profondità, un meccanismo, un’affinità, una sintonia mentale, un’attrazione reciproca che a mio giudizio non può prescindere dall’amore vero e proprio e che è necessariamente riconducibile ad esso, varia soltanto la forma d’espressione e l’intensità di questo sentimento. Spesso non si ha il coraggio di ammetterlo neanche a se stessi perchè è molto più comodo reprimerlo in nome di una libertà che in realtà non esiste affatto ma è solo illusoria.

Erano, quelle case che stavo osservando, tutte dello stesso colore, di uguale forma e della stessa altezza, tre piani, fra l’altro Messina è un città ad alto rischio sismico per cui la legge impone categoricamente di non superare i sei piani d’altezza. Penso comunque che all’interno di esse, quelle abitazioni si diversificassero fra loro per il numero di stanze. Laila, mi informò che abitava al secondo piano e che avremmo risparmiato le scale prendendo l’ascensore che trovammo già pronto per noi, come fosse nostro complice e non volesse farci perdere del tempo prezioso.

Entrammo in esso e in quei secondi che passammo lì dentro, io mi convincevo sempre di più di amarla. L’amore che credevo di sentire per Laila in quel momento e dentro quell’ascensore, era per me molto più importante di un possibile rapporto sessuale fine a se stesso, io quella ragazza ero desideroso di sposarla quando sarei diventato maggiorenne.

Arrivammo al secondo piano, mi spiegò che la casa era in affitto e che il cognome che vedevo nella targhetta della porta non era il suo ma della padrona di casa. Sapevo che si era lasciata da poco col suo fidanzato e che non l’amava più, l’averlo sentito direttamente dalla sua bocca quando eravamo seduti in quella villa, mi ha reso felice, non avevo più nessun rivale in amore, niente sofferenze per gelosia, lei poteva essere mia e soltanto mia. Avrei voluto chiederle informazioni circa la sua famiglia, se avesse ancora un padre o una madre o li avesse persi entrambi, se avesse fratelli o sorelle o fosse figlia unica, se lavorasse ed eventualmente dove ed altre notizie di questo genere ma preferii tacere per non sembrare invadente, comportandomi nell’identico modo di come avevo agito in macchina e cioè non chiedendole se amasse truccarsi. Mi bastava sapere che era una donna libera, senza figli e senza essere sposata e per di più con una casa tutta sua, sia pure in affitto, tutto l’opposto rispetto a me che vivevo ancora alle dipendenze dei miei genitori, sotto il loro tetto e che dovevo rientrare a casa ad un certa ora pena severe punizioni fatte a fin di bene, si fa per dire.

A prima vista, aprendo la porta, la casa appariva piccola ma ben tenuta, pulita, curata, ordinata, persino profumata, sembrava un vero gioiellino, si notava subito la mano esperta di una donna, l’ideale alcova d’amore per due piccioncini, io e lei in questo caso.

Si recò in cucina, io dietro come la sua ombra, il suo fantasma assecondandola in tutto ciò che faceva, la fiducia verso lei aveva raggiunto punte altissime, mi fidavo ormai ciecamente, la conoscevo solo da qualche ora ma mi sembrava di conoscerla da sempre. La consideravo ormai un’amica vera, una ragazza assolutamente normale, non scorgevo più nessun mistero nella sua personalità, nessuna forma di timore verso di lei, soltanto quel suo nome Laila, lo reputavo ancora alquanto curioso e particolare come quando me lo disse nella villa; ma di nomi strani, specie stranieri, ve ne erano in giro a dosi elevate quindi il suo non mi sorprendeva poi così tanto, e poi una persona originale come lei era giusto che portasse un nome non comune, mi convinsi di questo.

Laila aprì il frigo, prese una bottiglia d’acqua gelata, la versò in un bicchiere e la bevve tutta d’un fiato, evidentemente doveva avere un gran sete malgrado non ci fosse un caldo insopportabile ma forse era un altro tipo di sete la sua, chissà! Avrei voluto sconsigliarle di bere acqua gelata perchè avrebbe potuto farle male allo stomaco, io stesso non bevevo mai acqua dal frigo, ma ancora una volta preferii rimanere con la bocca chiusa per non contrariarla. Mi chiese se anch’io avessi sete e al mio “no grazie” non insistette più di tanto.

Poi tornò indietro e chiuse a chiave la porta d’ingresso che aveva lasciato aperta prima, forse perchè vinta dalla troppa sete. Fu quello il segnale della mia completa arresa a lei e alle sue voglie, accettai senza esitazioni e senza proferire parola alcuna, la sua ormai imminente seduzione.

Andò quindi decisa nella camera da letto spalancando la relativa porta che prima appariva socchiusa. Ricordo ancora adesso con un’emozione fortissima e con un brivido sulla pelle, quello che provai nel vedere per la prima volta quella stanza. Mi sembra di riviverlo oggi allo stesso modo di allora, con la stessa identica intensità! Certe sensazioni, nella vita, non si potranno mai dimenticare. Se avessi deciso di non seguire quella ragazza e di rimanere seduto da solo su quella panchina in quella villa, non avrei potuto rivivere quelle splendide emozioni e soprattutto non mi sarebbe stato possibile scrivere questa storia, che, ci crediate o no, è assolutamente reale.

Bellissima, appariva agli occhi miei, quella camera con quel lettino tenero e grazioso, il cuscino morbido che sembrava quello di una principessa, alcuni pupazzetti come fosse rimasta nel suo io ancora bambina. Tutto lì dentro sapeva di favola, di magia, suggestivi i colori, particolare l’arredamento, ogni cosa denotava fantasia e buon gusto, l’atmosfera era accomodante, idonea per qualsiasi rapporto intimo d’affetto o altro. Ma la parte più importante di ciò che mi ruotava intorno, era lei e soltanto lei, l’attrice principale, la mia sirenetta e forse regina, la donna del grande amore, per la quale vivere e morire, il concentrato di tutti i miei sogni e desideri, quelli più veri ed autentici ma anche anche i più segreti ed inconfessabili. Quella sua camera da letto, piccola e tutta raccolta in se’ stessa, era il palcoscenico ideale affinchè un ragazzino di quattordici anni potesse finalmente giocare a fare l’eroe. Forse qualunque altro uomo, indipendentemente dal condizionamento sociale o dalla propria morale, avrebbe pagato qualsiasi prezzo pur di trovarsi lì al posto mio, da solo con quella bellissima ragazza ma l’assurdo ed incomprensibile destino, forse per un colpo di fortuna o chissà per quale altro arcano mistero, ha voluto che ci fossi io, la persona forse meno indicata per coglierne il fascino, la poesia e l’intensità di quell’attimo. Può darsi invece che la tenerezza disarmante dei miei giovani anni, fosse l’ideale per conferire a quella particolare situazione una carica emozionale incommensurabile ed irripetibile.

La mia Laila, contrariamente ad ogni mia previsione, non si spogliò subito ma rimase completamente vestità ne’ tentò in alcun modo di denudare me. Ai miei occhi ragazzini però, appariva seducente e bellissima ugualmente, forse anche di più di come avrebbe potuto sembrarmi se fosse stata nuda, ricordo bene che non rimasi affatto deluso da quella sua decisione, io mi ero innamorato di lei nella sua interezza, nuda o vestita per me avrebbe avuto lo stesso significato. Il solo fatto di trovarmi lì nella sua camera da letto solo con lei, era per il mio cuore motivo di gioia ed insieme di latente e prematuro orgoglio di maschio.

Poi, improvvisamente, si sdraiò di colpo e a pancia in su, a peso morto sul letto, tenendo le braccia allargate e protese da ambedue i lati come in atto di chi è stata appena crocifissa, con la sola bocca leggermente aperta, lasciando intravedere una lingua bellissima e pulsante di vita come fosse un piccolo serpentello e lei stessa la mia Eva nell’Eden.

Mi fece cenno dolcemente di sdraiarmi sopra di lei, lo chiese con grazia, attraverso un gesto di totale rassicurazione ed insieme di conturbante complicità.

Dopo un attimo iniziale di smarrimento da parte mia, sentendomi gratificato dall’interessamento di una così bella donna verso di me che in fondo ero solo un ragazzino insignificante e privo di esperienza, capii che era mio dovere non deluderla e non darle un dispiacere e agii seguendo quello che mi aveva invitato a fare, lo feci con estrema naturalezza e senza per nulla sforzarmi.

Mi distesi quindi su lei e provai subito una situazione d’imbarazzo ed insieme di eccitazione, mai infatti nel corso della mia breve vita, neanche con la sola immaginazione, avevo preso in considerazione l’ipotesi di trovarmi realmente in una posizione simile, col mio corpo schiacciato sopra quello di una donna. Fu un’emozione intensissima per coinvolgimento emotivo e sconvolgimento dei sensi, intuii la capacità della potenza erotica che è in grado di sprigionarsi nel momento in cui si ha sotto il proprio corpo di maschio, quello di una donna. Anche se ci si sforza di cogliere principalmente il lato spirituale e sentimentale del rapporto che indubbiamente esiste anche, è la carnalità selvaggia ed animalesca che prepotente esce fuori e ne prende inevitabilmente il sopravvento e questo accade a qualunque età anche e in special modo a quattordici anni. Si dirà, forse per luogo comune, che in quel contesto una donna stava soggiogando e persino violentando un ragazzino incapace di comprendere e di difendersi ma io giuro che non mi sentivo affatto violentato o indifeso anzi, al contrario, la violenza l’avrei subita realmente se avessero tentato con forza di allontanarmi da lei e da quel posto, sarebbe come se provassero a svegliarmi di colpo interrompendo bruscamente un bellissimo sogno, facendomi ritornare tristemente nella mia solita, monotona e senza senso, realtà di ragazzino. Allora sì che sarei potuto rimanere segnato in negativo per tutto il resto della mia vita.

Ci guardammo per un bel pò di tempo fissi negli occhi sempre restando fermi in quella posizione e senza parlare. Mi sorpresi per la naturalezza mediante la quale riuscivo tranquillamente a sostenere il suo sguardo pur essendo così vicino a lei con i miei occhi che quasi toccavano i suoi. Lo trovai alquanto strano perchè la mia innata timidezza mi impediva spesso di fissare a lungo negli occhi qualunque interlocutore, specie una ragazza ma evidentemente con lei tutto era diverso, Laila era la donna della mia vita e con la sua presenza crollava ogni mia timidezza, era abbattuto l’incrollabile muro del tabù e delle inibizioni, mi sentivo perfettamente a mio agio. Non posso far altro che riconoscere con la mente adulta e più matura, si fa per dire, di adesso che il merito di quel mio stare bene è sicuramente da attribuire a lei. Quella ragazza era riuscita, secondo me senza trappole o schemi preordinati, ad acquistare la mia fiducia, e lo ha fatto con estrema naturalezza e spontaneità, semplicemente mostrandosi per quello che era, esprimendo liberamente ciò che voleva senza maschere di ipocrisia o doppi fini di convenienza. Lei mi ha dato una grande lezione di vita con stile e garbo, in questa società di oggi dove tutto è affare, convenienza od opportunismo e nessuno fa niente per niente.

Poi Laila mi sussurrò all’orecchio continuando a guardarmi dentro gli occhi:

“Fa’ di me quello che vuoi! Tutto quello che ti senti di fare, liberamente, lasciati andare ma non fare nulla di ciò che non vuoi, se preferisci puoi spogliarmi, accarezzarmi dove e come vuoi tu!”

E fu così che io, timido ed introverso ragazzino, da una condizione di schiavo di quella situazione come lo ero fino a pochi istanti prima, mi trasformai improvvisamente in assoluto padrone ed arbitro della situazione medesima.

Io che non avevo mai avuto nessun contatto fisico con l’altro sesso sino ad allora, ecco che mi ritrovavo tra le mani e tutto in una volta, il massimo che un ragazzino potesse avere e desiderare, scherzi del destino? Non lo sapevo neanch’io nè mi ponevo il problema, impegnato e preso com’ero da quei momenti indimenticabili che capitano una sola volta nella vita e mai più.

Come un bambino che trova in regalo dinanzi a se’ un’infinità di giocattoli uno più bello dell’altro e felice ed emozionato non sa quale usare per primo nei suoi giochi, così mi sentivo io che volevo ma non sapevo come fare per iniziare e con quale mossa cominciare.

Lei, sicuramente molto più esperta di me, sorprendentemente non prese la benchè minima iniziativa, restando del tutto passiva, attendendo ma non osando, pur desiderandomi almeno quanto io desideravo lei, se non di più.

Forse la mia età troppo giovane la induceva ad avere prudenza e a comportarsi in quel modo o forse era solo questione di rispetto, di educazione, di altruismo, tutte doti che possedeva innati in lei, a farla reagire in quel modo.

Finalmente il mio istinto si lasciò guidare dal cuore e decise di compiere il gesto più dolce, tenero e commovente che esista al mondo, meraviglioso preludio di ogni rapporto d’amore: il bacio. L’amore autentico che credevo di sentire nei suoi confronti, la voglia di vincere a tutti i costi la paura di non sapere come baciare, il desiderio e la curiosità di provare a farlo per la prima volta e con la persona giusta che comprenda e non giudichi possibili miei immaturi sbagli nel compierlo, mi spinsero ad avvicinare le mie labbra alle sue.

Capii in quel momento che dovevo tirare fuori la lingua e strofinarla alla sua, proprio come avevo visto fare tante volte nei films d’amore e non solo, era indispensabile per sentire più vicina la persona che ami. Anche in questo caso trovo straordinario il fatto che Laila continuò a recitare il ruolo passivo di chi cercava solo di assecondare i miei desideri senza mai avere la pretesa di essere e fare la mia insegnante nonostante avesse tutte le qualità e le capacità per farlo, evidentemente il rispetto verso di me era incredibilmente illimitato.

Anche nel contatto delle lingue notavo che lei si limitava, anche se con moltissima passione e trasporto, a seguire i movimenti della mia lingua contro la sua, senza metterci nulla della sua arte amatoria che doveva avere, eccome! Sembrava una ragazzina, come se stesse provando anche lei la magia del primo bacio.

Oggi, ripensando a tutto questo, non posso che confermare la grande ammirazione che conservo sempre nel cuore per lei, una ragazza bella, libera, disinibita, educata, pulita, intelligente e con mille e mille altre qualità che avrebbero bisogno di parecchi fogli di carta per poterle elencare. Mi son chiesto spesso se con un uomo della sua età, si sarebbe comportata allo stesso modo, una domanda assillante alla quale non potrò mai dare una esatta risposta.

Quel mio primo bacio si rivelò lungo e appassionato come non mai, regalandomi sensazioni troppo intense per poterle anche solo descrivere a parole, non le si darebbe infatti giustizia, certe emozioni vanno vissute realmente in prima persona e basta, solo allora ci si può rendere conto della loro straordinaria intensità. Quello che più mi sorprese di quell’atto fu la capacità che esso possedeva nel coinvolgere in maniera totale ed elettrizzante ogni minuscola parte del mio corpo senza escluderne nessuna, ogni particella, ogni molecola, ogni atomo di me vibrava, partecipava a quell’iniziazione, a quel rito d’amore come il coro di un orchestra che cantava note di armonico piacere. E pensare che qualcuno chiama ancora “fornicazione” quell’attimo di intenso piacere che il nostro corpo attraverso la creazione della natura madre, ci vuol offrire; c’è tanto, troppo odio e sofferenza nel mondo, mi chiedo perchè condannare anche un atto d’amore o di sesso, è pur sempre un’emozione, dove sta il male? Perchè lo si deve trovare per forza e ovunque anche nell’unico posto dove non c’è.

La cosa curiosa e comica, consisteva nel fatto che il semplice baciarsi sia pur appassionato, alla “francese” come si definisce di solito, per me equivaleva ad un rapporto sessuale vero e proprio, era talmente intensa e dolcemente violenta l’emozione che provavo in tutto il mio essere che non potevo assolutamente concepire un’emozione ancora più forte tipo quella che scaturirebbe inevitabilmente da un rapporto sessuale completo. La mia mente infatti non era in grado di formulare, accettare o concepire anche la sola idea, il solo pensiero che potesse esistere un piacere più intenso di quello che stavo provando nel baciare Laila.

Sentivo il cuore esplodermi in petto, tutto il mio sangue rimescolarsi nelle vene, una tempesta erotica di gran lunga superiore al piacere provato in tutte le mie masturbazioni solitarie fatte in precedenza e messe tutte insieme. Dovevo esplodere, proprio come una bottiglia di spumante smossa furiosamente, non feci più alcuna resistenza nel tentativo di oppormi, non ero nelle capacità di poterlo fare pur volendolo, e raggiunsi, sempre baciandola, un orgasmo intensissimo e lunghissimo che sembrava non finire mai malgrado la mia giovane età, ma era davvero troppa la tensione accumulata in quel giorno. Lo raggiunsi accompagnandolo con un dolce lamento a metà tra un urlo e un sospiro e mi sentii subito bagnato nelle mie parti intime ma senza viverlo come un dramma o con sensi di colpa ma come una conseguensa del tutto naturale ed indispensabile.

Lei ovviamente si rese conto di tutto quel che mi stava capitando da subito e contribuiva con l’intensità del bacio ad indirizzare il mio dolce e vibrante cammino verso l’orgasmo, ruotando la sua lingua più velocemente in prossimità di esso, in perfetta sintonia con i movimenti della mia, staccando la sua bocca dalla mia bocca solo dopo che io, dopo aver raggiunto l’orgasmo e volontariamente, avevo smesso di baciarla.

Venni in questo modo, del tutto originale e prematuro ma non per questo meno bello e coinvolgente. Godetti senza nemmeno averla spogliata, senza neanche aver sfiorato il suo corpo con un solo dito e senza che mi facesse la benchè minima carezza, sembra tutto così finto ed incredibile analizzato con gli occhi di adesso!

Dopo aver raggiunto quell’estasi, istintivamente sentii forte il bisogno di restare sdraiato su di lei, con il capo chinato da un lato appoggiato tra i suoi seni e gli occhi chiusi, sentivo il bisogno di dormire, di rimanere più a lungo possibile in quel modo assaporando la quiete di quegli istanti successivi all’eccitazione. Anche questa volta, e non poteva essere altrimenti, lei pazientemente e con amore assecondò in pieno questo mio desiderio, facendo prevalere la mia volontà rispetto alla sua voglia erotica che era rimasta inappagata. Fino all’ultimo istante Laila mi dimostrò la sua grandezza interiore, la sua comprensione, la sua dolcezza.

Prima di chiudere gli occhi e di addormentarmi sul suo corpo inerme, trovai la forza per dirle soltanto queste semplici parole ma dettate dal profondo del mio cuore:

“Ti amo Laila! Vuoi sposarmi?”

Lei sorrise e dopo mi rispose:

“Sì, quando sarai più grande”.

Chiusi gli occhi felice e mi addormentai con la sua mano fra i capelli.


in foto: l’autore Claudio Cisco

 

 

“Colei che brevemente fu e che mai in vita conobbi” (Claudio Cisco)

 

“Colei che brevemente fu

   e che mai in vita conobbi”

 

 

QUANDO L’IMMAGINAZIONE ECLISSA LA REALTA’.

L’INCREDIBILE E MISTERIOSA AVVENTURA

VISSUTA DA UN RAGAZZO

OLTRE I CONFINI DELLA VITA

 

 

LA TRAMA DELLA STORIA

 

La narrazione è ambientata a Messina, nella parte più alta ed antica del cimitero, dove è tuttora sepolta la protagonista del racconto.

Manuel, un ragazzo diciannovenne messinese strano e solitario, rincorre ossessionatamene l’ombra di una ragazza vissuta nella stessa città per quasi diciassette anni nel secolo dell’Ottocento, figlia di nobili dell’epoca, Marietta Cianciolo.

Si lascia talmente coinvolgere da quest’incantesimo, da effettuare minuziose ricerche sull’identità e sulla vita passata di lei. Arriverà a rasentare la follia non riuscendo più a distinguere il confine che divide il reale dall’immaginario. Farà rinascere dalla morte la ragazza grazie alla forza dell’immaginazione e alla sua fervida fantasia, fino a instaurare con lei un rapporto di profonda amicizia fatta di confidenziali dialoghi di alto spessore umano e spirituale, colmi di semplicità e tenerezza.

Il romanzo racchiude citazioni sulla storia di Messina antica con particolare riferimento alle origini del Cimitero Monumentale e alla genealogia di qualche famiglia nobile messinese dell’Ottocento.

 

 

 

INTRODUZIONE

 

Vi giuro che non so neanch’io il perché abbia scritto questa storia inverosimile, chissà perché l’ho fatto! chissà chi mi ha ispirato! certo non io stesso, di questo almeno ne sono sicuro. Quando si è troppo soli o ci si sente del tutto incompresi, si può arrivare a inventare un’amica immaginaria alla quale poter confidare i propri sogni, le proprie emozioni, le paure e le speranze di chi sa di poter dare molto agli altri ma di non essere messo in condizione di poterlo fare. È un po’ come quando uno parla da solo, e magari arriva al punto perfino di confondersi, oppure si guarda allo specchio invecchiato di fuori e, riflesso, si vede bambino di dentro, come se il tempo della giovinezza non fosse mai trascorso e restasse eterno in sintonia e simbiosi con la propria anima. Alla cosiddetta “maturità” d’un uomo che è già vecchio senza rendersene conto, che nel suo cuore ha già sostituito il mondo delle favole con quello dei soldi e della posizione sociale, io oppongo la meraviglia e lo stupore dei miei occhi rimasti ancora di bambino, capaci di vedere il mondo come un nuovo gioco, un magico Natale pieno di luci e palline colorate, di ricreare con la fantasia l’innocenza e la tenerezza di chi bacia per la prima volta. Se solo potessi, attraverso le mie poesie o i miei libri, far capire a tutti che è nella semplicità, nella purezza incontaminata dei sogni, nel far rivivere il bambino presente in ognuno di noi, che si può trovare la vera felicità, la serenità, quella luce che ci fa sentire più vicino a Dio in una vita piena di significato e d’amore. Se solo riuscissi a farmi ascoltare tramite questo libro arrivando dritto al cuore del lettore, prestandogli i miei occhi, gli farei ammirare quanta poesia vi è in un fiore che sboccia, in un bimbo che ride, in un raggio di sole, nel volo di un airone e in mille e mille altre piccole cose quotidiane della vita che sono state create per noi, affinché ogni uomo possa rinascere ogni volta, sentendosi in armonia con l’universo, parte di esso, ritrovando la propria dimensione. Se solo l’uomo riuscisse a guardarsi dentro e ad aprirsi all’infinito che lo circonda, scoprirebbe quanto sia bello il mondo, quanto sia favolosa la natura.

La bellezza, la felicità è tutta intorno a noi, nei nostri sensi, nell’aria che respiriamo, in ogni minuscola particella vivente che pullula di vita e d’amore. Ogni essere umano, anche il più povero che possa esistere sulla faccia della terra, è ricco e non sa di esserlo.

Per tutto questo, ho deciso di scrivere questo libro. Nella figura di una creatura immaginaria, io proietto tutto me stesso, i miei sogni e le mie speranze, vedo riflesso Dio, l’azzurro del cielo, il bacio della ragazza che amo, un bambino che non è mai cresciuto. Questo racconto è per tutti voi che credete ancora alla magia dei sogni ma soprattutto per chi non crede affinché possa provare a farlo. È anche per tutti coloro che amano quella meravigliosa e fiabesca avventura che è la vita che, anche se apparentemente può sembrare triste e difficile, in realtà è splendida e degna di essere vissuta sempre e in ogni caso.

In Marietta, la protagonista del mio romanzo, io proietto ancora tutto il mio sincero amore verso una vita traboccante di emozioni e di speranze.

Forse è solo un sogno, lo so, ma non posseggo null’altro, è tutto quello che ho.

Il romanzo è narrato quasi per intero in prima persona e mi vede protagonista.

Tuttavia ho preferito usare lo pseudonimo di Manuel. Tutti i nomi e i fatti citati nel racconto corrispondono a persone realmente vissute e a fatti realmente accaduti.

 

L’Autore

 

 

 

 

 

 

 

COM’ERO. IL MIO STATO D’ANIMO

Avevo 19 anni, sì, solo 19 anni, l’età più bella, sentivo dire dagli altri; l’età che tutti desidererebbero avere e magari mantenerla per sempre, a dispetto del tempo. Ma io, io non ero felice. Era come se quella bellissima età non mi appartenesse, o meglio non fosse stata mai mia. Se dovessi giudicarmi per com’ero allora, con gli occhi obiettivi e più maturi di adesso, probabilmente mi verrebbe facile dedurre che ero completamente immaturo, vittimista, strano e aggiungerei anche un po’ folle, anzi del tutto folle, ma d’una follia che rasenta la creatività, una follia sinonimo di stranezza, tipica di quelle anime elette, fragili, eternamente insoddisfatte che identificano nei sogni la loro voglia d’evasione, il desiderio, anzi il bisogno, di protendersi verso l’agognata libertà assoluta, unica àncora di salvezza contro gli abissi del dolore. Continuando a guardarmi con gli occhi di adesso, devo ammettere che oltre ad essere o voler sembrare folle, avevo radicata in me sin dalla nascita, una sorta di tristezza senza guarigione, desolata e abbandonata, senza una motivazione plausibile che la giustificasse. Una strana tristezza che io, un po’ ingenuamente, ritenevo potesse essere prerogativa dei geni incompresi e che contribuiva negativamente a farmi isolare sempre più dai miei coetanei, dai miei genitori, dal mondo che mi circondava e che appariva ai miei occhi tutto sbagliato. Era una tristezza che non trovava assolutamente sbocchi perché alimentata sempre e solo dal mio io, chiusa in un lacerante e ingiustificato pessimismo. Già, devo chiamarlo proprio così “ingiustificato pessimismo” perché in verità non vi era stato proprio nulla di così rilevante da poter giustificare un simile stato d’animo. Nulla la vita mi aveva riservato di così triste e crudele, ad altri, sicuramente, molto di più. Penso, ad esempio, agli handicappati, ai tanti malati che scoprono il dolore giorno dopo giorno nelle corsie degli ospedali, agli emarginati di ogni genere, agli orfani, ai poveri, ai vecchi soli al mondo abbandonati al loro destino, a chiunque insomma possa aver sperimentato realmente tutto il male che io pensavo fosse destinato solo a me e a nessun altro. La cosa che oggi mi sembra più assurda, consisteva nel fatto che io mi ero proprio crogiolato nella mia stessa tristezza, mi ero quasi chiuso in una specie di urna di cristallo dove proteggermi dalle insidie del mondo e da tutto ciò che rappresentava la vita all’esterno e che mi ruotava intorno. Fuggivo dal mondo e, quel che era peggio, da me stesso. La tristezza era per me diventata quasi un alibi, un approdo sicuro, un modo di essere nel quale trovare la mia dimensione più congeniale. Tristezza uguale incomprensione degli altri verso di me, questo era il mio assurdo binomio che serviva solo per alimentare maggiormente la mia solitudine. A dire il vero, ho sempre cercato in quel periodo e in special modo adesso che ho una capacità di analisi migliore, di scavare nella mia infanzia con la speranza di trovare una risposta a quel mio inusuale modo di essere e di rapportarmi agli altri, modo che, sia pure in minuscola parte, mi porto ancora adesso, nonostante i miei 40 anni superati. Ma, nonostante mi sforzi minuziosamente a trovare qualche indizio utile alla causa, qualunque giusta e valida prova, non riesco a riscontrare nulla di realmente importante. Sento dire che ogni essere umano sia il prodotto di un insieme di fattori ereditari che s’intersecano tra loro, di una infinità di condizionamenti ambientali, probabilmente questo è anche vero, ma io non riesco a scorgere proprio nessuno dal quale possa aver ereditato un carattere così particolare. Forse l’esser venuto al mondo dopo ben 16 anni dalla nascita di mia sorella e da una madre non più giovanissima particolarmente attaccata a me e troppo apprensiva nei miei confronti, può forse aver generato nella mia psiche, una certa insicurezza scaturita proprio dal troppo affetto materno. Una iperprotettività che mi ha impedito di crescere, di spiccare il volo verso nuovi orizzonti che apparivano ai miei occhi, sconosciuti e temuti.

Siamo sempre però nel campo delle ipotesi perché io, in realtà, testardo e un po’ narcisista oltre che esibizionista, facevo sempre di testa mia, non prendendo troppo in considerazione i consigli e gli insegnamenti di mia madre, come quelli, del resto, di chiunque altro. Tutto questo però non lo facevo per ribellione o per il semplice e banale gusto di trasgredire, ma perché ritenevo, e ne sono convinto anche adesso, che sia giusto fare ognuno le proprie esperienze, magari sbagliando per poi correggersi da soli senza commettere mai più, possibilmente, gli stessi errori. Solo così si può crescere e maturare, imparando sulla propria pelle, a proprie spese. Ho sempre pensato che nella vita bisogna appoggiarsi soprattutto a se stessi e alle proprie forze perché non esiste nessuno al mondo all’infuori di noi stessi, capace di capirci e volerci bene più di quanto possiamo volercene noi. Non bisogna ovviamente cadere nell’eccesso, ossia cedere all’egoismo, ma dosare il tutto con intelligenza ed equilibrio. Solo chi ama veramente se stesso, può poi trasferire parte di questo amore al prossimo. Questa è un po’ una mia legge, un mio modo di pensare che non pretende assolutamente di essere condiviso o di valere per tutti.

Anche il mio rapporto con la religione e con la fede, era un po’ vacillante in quel periodo, non solido come avrebbe dovuto essere. Sì, credevo in linea teorica all’esistenza di un Dio, anche perché cresciuto in una famiglia di forte ispirazione cattolica.

Conoscevo per averli sentiti nell’aria, anche inconsapevolmente, gli insegnamenti del Vangelo, i dogmi ai quali prestare solenne fedeltà. Ma, al momento estremo del bisogno, più che alla provvidenza divina, mi rivolgevo alle mie stesse forze, alla mia volontà, alla voglia di reagire, di non lasciarmi andare. Tuttavia possedevo dentro, una innata bontà che mi impediva persino di uccidere uno scarafaggio, per non provare poi il rimorso di aver distrutto una vita che, anche se apparentemente insignificante, rappresentava lo stesso una vita e come tale esigeva il massimo rispetto. Incapace di fare del male a chiunque anche verso chi ne faceva a me, non porgevo l’altra guancia, ma non reagivo, allontanandomi da lui senza meditare vendette o provare rancore di nessun tipo. Avevo pochi amici a causa del mio carattere schivo e solitario ma non ho mai avuto nemici. Mi facevo voler bene ed ero sempre pronto ad ascoltare chiunque senza pregiudizi di nessun tipo. Non riuscivo proprio a dar dispiaceri a nessuno se non a me stesso. Non trovavo giusto fare agli altri quello che non avrei voluto fosse fatto a me. Il mio era un ragionamento logico, elementare, non scaturito o influenzato dall’insegnamento cristiano, anche se poi, in pratica, coincideva perfettamente. La cosa più curiosa di allora, consisteva nel fatto di essere arrivato addirittura a mitizzare la sofferenza e, di conseguenza, anche la mia tristezza.

Pensavo fosse quasi un dono divino che sarebbe servito all’uomo, ma non per redimerlo scontando i peccati terreni in prospettiva d’una redenzione futura, ma bensì per esternare la propria sensibilità artistica. Già, avevo creato un altro assurdo binomio che consideravo allora inscindibile e che tuttora sono convinto che possa esistere, sofferenza uguale arte. Soltanto soffrendo, pensavo, è possibile diventare sensibili e di conseguenza artisti. Più si soffre e maggiormente si matura, si alimenta l’ispirazione artistica.

Non è un caso che le mie poesie più belle, o almeno quelle alle quali sono più legato, le più vere, le più sincere siano nate da una sorgente che esprimeva la tristezza d’un momento. Non so perché, ma ancor oggi, non riesco a scrivere nulla nell’istante in cui sento di essere felice o sereno per meglio dire, perché “felicità” è una parola troppo grande. Un artista, in genere, compone quando sente dentro il bisogno di comunicare qualcosa agli altri, una propria intima emozione, che è tanto più forte ed intensa, quanto più ombra ha nel cuore. Un uomo cerca l’acqua solo quando ha tanta sete. Non so perché ma è così.

Confesso però che mi sarebbe piaciuto e che mi piacerebbe ancora, poter scrivere in un momento di gioia, proprio per sentirmi altruista e aiutare così il mio prossimo, trasferendogli tramite l’arte, un po’ della mia letizia. Purché lo voglia chiunque, non solo artista, nella vita di tutti i giorni, può regalare un sorriso a chi ne ha veramente bisogno che, per quanto piccolo possa sembrare agli occhi di chi lo offre, è sempre meravigliosamente grande e importante per chi lo riceve.

Ritornando a guardarmi all’età di 19 anni, continuo a non capire ancora il motivo per il quale preferissi la solitudine dei cimiteri, alle compagnie e ai divertimenti giovani.

Non mi rendo conto del perché di tutte le fobie d’allora, delle mie ansie implacabili, delle mie paure ossessive, della mia in un certo senso depressione, tutti problemi che, fortunatamente, ho risolto in età adulta tranne qualche minuscolo residuo facilmente domabile, ma che allora, sembravano per me inguaribili, autentici drammi. È strano però il fatto che io, cantore follemente innamorato della bellezza dell’adolescenza e più in generale della giovinezza, debba trovare un po’ di equilibrio e di serenità, soltanto oggi che ho 40 anni, trovo tutto questo così paradossale e non mi oriento più. Se solo avessi avuto, in quel periodo, lo stesso coraggio che ho adesso di prendere di petto tutti i miei problemi, di affrontarli con coraggio, faccia a faccia, senza partire battuto ma con la consapevolezza di poterli vincere, di poter dire loro: “Non mi fate più paura, io sono più forte di voi!”

Se solo avessi avuto allora l’intelligenza, la maturità, la saggezza che mi ritrovo oggi e soprattutto la forza di credere nella mia volontà, tutto sarebbe stato diverso e forse non avrei avuto nemmeno l’ispirazione per scrivere la storia che sto per raccontarvi. Ma, nella vita, nulla accade per caso, anche se in apparenza può sembrare senza spiegazione. Sarei stato un ragazzo praticamente normale come tanti altri, anche se, in ogni caso, la normalità è sempre relativa e riduttiva se per normalità si vuole intendere massificazione, fare cioè quello che tutti fanno, che gli altri vorrebbero che tu facessi. Bisognerebbe sempre, in tutti i modi possibili, battersi per difendere il proprio modo di esprimersi e di essere, senza assurde e incomprensibili maschere imposte da una società troppo   spesso stereotipata e insensibile alle esigenze del singolo. E pensare che ogni essere umano è un esperimento di vita, unico e irripetibile e che ha quindi tutto il diritto di essere uno spirito libero, al di fuori di schemi preconfezionati, tradizioni o condizionamenti di nessun tipo, felice di manifestare la propria identità che si diversifica da quella degli altri ma, allo stesso tempo, si integra con l’altrui libertà, rendendo la vita ancora più bella perché varia, tollerante, colorata. Uno strano ragazzo, sicuramente, molto particolare, fuori dal comune, ero io. Magro, con i capelli lunghi, vestito in maniera trasandata, senza seguire nessuna moda in voga in quel periodo. Un look schizofrenico, nel senso di liberissimo, contraddittorio, fuori da ogni regola o criterio di abbigliamento, senza il minimo abbinamento di colori che potesse dare un certo gusto estetico all’occhio. Alternavo assurdi pantaloni a quadretti tipici da clown, a strane e lunghe giacche rosa. A volte vestivo completamente di nero con dei spettrali occhiali scuri, accentuando così la mia magrezza che era per me una specie di complesso, a tal punto da impedirmi di mettermi in costume da bagno pur adorando il mare. Portavo sempre dei fazzoletti intorno al collo, di vario colore che mi procuravano, e ne ero molto orgoglioso, un’aria misteriosa e un po’ tenebrosa ma, al tempo stesso, potevo dare l’impressione di un bambino diventato adolescente troppo in fretta che suscitava immediata tenerezza e un istinto quasi materno di protezione. Non ero certamente brutto, anzi tutt’altro. Ero forse simpatico e persino carino ma non facevo nulla per evidenziare queste mie qualità, anzi, facevo del tutto per tenerle nascoste. Il colore chiaro dei miei occhi, ad esempio, che spiccava con la mia carnagione abbronzata e col castano dei miei capelli, veniva quasi sempre nascosto da occhiali scuri, come già detto, e il vestiario poteva sembrare più da zingaro anziché quello di un ragazzo che vuol farsi ammirare in armonia con la propria giovane età. Facevo insomma, forse in parte anche involontariamente, di tutto per sembrare più inguardabile di quanto in realtà non lo fossi, presentandomi agli altri come mai e poi mai avrei dovuto apparire. La dolcezza quasi infantile del mio viso, i miei lineamenti oserei dire quasi efebici, erano continuamente mortificati e messi in discussione da un’espressione che io, ad arte, facevo diventare da duro oppure di chi sembrava perso nel vuoto che contrastava nettamente con la mia disarmante sensibilità e soprattutto con l’età che dimostravo. Avevo infatti la grande fortuna che ho anche adesso, di sembrare un paio d’anni più piccolo rispetto alla mia vera età. Potevo dimostrare sì e no 14 o al massimo 15 anni. Guardandomi per ore allo specchio, a volte mi piacevo, altre invece mi detestavo trovandomi tutti i difetti possibili, fino al punto di rompere gli specchi. Era innata in me una certa timidezza che ancora un po’ conservo e che si manifestava nella mia quasi impossibilità di fissare a lungo negli occhi qualunque interlocutore, specie se si trattasse di una ragazza. I miei occhi un po’ impauriti, spesso si abbassavano di colpo, come per cercare un nascondiglio nel quale potersi rifugiare. Già, le ragazze. Con loro il mio è stato sempre un rapporto particolare. Anche in questo campo, il mio grande amore per il sogno veniva a galla. trasformando la realtà in immaginazione. Vivevo infatti amori immaginari e platonici. Le ragazze che solo io sapevo di amare, esistevano davvero, se non altro, e non come la protagonista defunta di questo libro, ma non sapevano mai nulla del mio segreto amore nei loro confronti. Io, fra l’altro, sia per timidezza, sia per la paura di guastare il sogno, non avrei mai avuto il coraggio di confessarlo. Questo mio infantile e patologico modo di concepire l’amore, in piccola parte mi è rimasto ancora oggi nella mia personalità di adulto. Infatti forse ora non cerco una ragazza o una donna specifica in quanto tale, ma amo l’idea dell’amore, della compagna che non si trova, che non esiste, quasi sublimata in angelo, segno d’una chiara mancanza di predisposizione e di adattamento alla vita reale. Sensibilissimo com’ero, lo sono ancora adesso, consapevole di essere diverso dai miei coetanei ma mai reputandomi superiore a loro, cercavo di attirare la mia attenzione presso le ragazze, adottando un comportamento inusuale, a dir poco strano se non folle, ma ottenevo sempre inevitabilmente l’effetto contrario e diventavo ridicolo ai loro occhi. Non avevo la maturità e la furbizia necessarie per capire che, per avere successo con l’altro sesso, per essere apprezzati, bisogna semplicemente essere se stessi. Andava a finire così che mi sentissi sempre più solo, giudicando tutte le ragazze, nessuna esclusa, vuote, superficiali e materialiste, prede di facili ideologie alla moda e incapaci di comprendere la mia interiorità. Non capivo che l’unico che non funzionava in quel contesto, ero proprio io, io e soltanto io. Ricordo che spesso dedicavo loro poesie, già le poesie. La mia passione per lo scrivere   ha radici lontanissime nel tempo, risale agli albori della mia vita, fa parte di me. A volte mi viene il dubbio che scrivessi già dalla pancia di mia madre. Ero e sono comunque veramente contento di questa mia inclinazione, guai se non ci fosse. Mi ha aiutato moltissimo in quel periodo e mi è molto utile anche adesso. È l’unica cosa che so fare, una valvola di sfogo, un modo per canalizzare le mie energie, quasi una confessione, un aprirmi con me stesso e verso gli altri. È un bene quando le mie frustrazioni, le mie nevrosi, anziché uscire sotto forma di malattie, vengon fuori tradotte in espressioni artistiche. Guai se non scrivessi più, sarebbe come ammettere di essere morto. Credo di avere delle qualità, del talento. È un vero peccato che non se ne sia accorto proprio nessuno, che non mi abbiano mai dato fiducia credendo in me. Continuando a viaggiare sulla mia ipotetica macchina del tempo e tornando a ritroso con la memoria, mi vedo davvero stupido all’età di 19 anni, troppo immaturo e troppo bambino. 19 anni che potevano benissimo essere 30, 40, 50, 80 in base alla mia sensibilità artistica ma che, allo stesso tempo, potevano sembrare 12, 10, 8 per il mio modo di porgermi verso me stesso e verso gli altri. Non capivo la cosa più importante ed elementare di tutte le conoscenze in genere e cioè che la vera felicità, la si può trovare nelle piccole cose quotidiane della vita e che sgorga spontanea dentro di noi. Ma non ero l’unico a non aver capito questa semplice verità. Quanta gente importante nel corso della storia non l’ha compresa! Dottori, scienziati, filosofi, poeti, insegnanti sono magari in grado di recitare la Divina Commedia a memoria o tutti i classici della letteratura, ma poi non sono capaci di distinguere il ramo da una foglia. Quando si è troppo impegnati a pensare in grande, ci si dimentica completamente delle piccole cose della vita che sono le più importanti, le più vere, che fanno parte di noi, che vivono con noi e intorno a noi come piccole sorelle non viste dalla nostra cecità assoluta, non percepite dalla nostra attenzione e dal nostro cuore tutto assorbito dal marasma d’una vita materiale. A volte, confesso che vorrei che ogni uomo facesse un piccolo salto nell’aldilà per scoprire la bellezza della propria spiritualità, per poi ridiscendere in carne e ossa su questa terra. Solo allora si renderebbe conto di aver vissuto male, anteponendo la legge della materia a quella dell’anima, smarrendo del tutto la propria identità, la vera essenza della vita. Ho ritenuto giusto, cari lettori, fare questa abbondante premessa su com’ero all’età di 19 anni, non con l’intenzione di annoiarvi anzi qualora questo fosse avvenuto me ne scuso sentitamente, ma poiché credo sia necessaria per inquadrare meglio la mia personalità al tempo in cui si svolsero i fatti che sto per narrarvi, proprio in virtù dell’originalità e della stranezza di tali fatti.

La verità sta proprio nella considerazione che solo uno strano ragazzo quale io ero all’età di 19 anni, poteva trovare l’ispirazione per scrivere una storia così assurda ma anche così coinvolgente.

 

 

MESSINA, INVERNO 1984

Non ricordo con esattezza il giorno preciso del mese in cui cominciò questa strana storia.

So che tutto ebbe inizio così, semplicemente, come quelle storie che nascono senza un perché, con quel famoso detto “C’era una volta” così caro a bambini che lo ascoltavano in dormiveglia, dalle care voci delle nonne o delle mamme, all’inizio di qualsiasi fiaba. Com’è lontano quel magico tempo! Le fate sono diventate giochi elettronici. Oggi tutto è maledettamente cambiato e appare glaciale, freddamente scontato, terribilmente calcolato. Siamo entrati in un tunnel senza uscita e senza ritorno, proiettati dal falso progresso verso un mondo futurista, dove persino il nostro destino risulta scritto in fondo alla memoria d’un computer.

Mass media che dilatano e condizionano le nostre coscienze, satelliti artificiali sulle nostre teste che ci spiano minacciando la nostra privacy e ancora pubblicità senza fine che ci rende tutti visionari martellando il nostro cervello. Nonostante tutto questo, io sono ancora qui a scrivere seguendo con costanza e coerenza le mie idee di sempre, annullando, fin quando mi sarà possibile e ne avrò la forza, il nulla che mi circonda con la forza della mia fantasia, con la bellezza della mia immaginazione, con la gioia di vedere i miei sogni realizzarsi spontaneamente, come una magia, senza falsità ed inganni.

Dicevo, quindi, di non ricordare il giorno esatto, ma posso dirvi con assoluta certezza, che da pochi giorni era entrato l’anno 1984 e ci trovavamo ovviamente nel mese di gennaio. Ricordo anche che era una fredda e malinconica mattinata dal clima autunnale. E tornando a guidare la famosa e già citata macchina del tempo, posso ancora vedermi così com’ero realmente, mentre camminavo per strada per recarmi, come tutte le mattine, a scuola.

Potevano essere circa le 8, considerando che alle 8,30 sarebbe suonata la campanella per entrare in classe. Non ero vestito troppo male vista la maniera con la quale uscivo in quel periodo, anche perché, a scuola, dovevo necessariamente presentarmi con un look adeguato, forse troppo, tale da creare così l’eccesso contrario, cioè quello di essere perfettamente intonati col vestiario, al luogo nel quale si opera. Nonostante ciò, avevo sempre nel mio sguardo, quel solito alone di mistero, quel non so che di velata ed indefinibile malinconia. Avevo piuttosto da portare, oltre al mio sempre presente fardello di tristezza, un peso materiale altrettanto consistente, quello dei miei libri che dovevo necessariamente caricarmi sulle spalle e che servivano più a farmi diventare curvo (alla Leopardi per intenderci) che per impartirmi una sottocultura nozionistica, una specie di ignoranza colta. Ho sempre pensato che la vera scuola, te la dà la vita, la strada dove le cose, giorno per giorno, ti insegnano da sole il loro nome.

Si usava nella mia classe ma penso anche in molte altre, per ragioni di convenienza tra compagni di banco, dividere il numero dei libri esattamente a metà per distribuire in parti uguali gli immani sforzi. Il mio compagno di banco, Piero, veniva però da un piccolo paese del messinese, a metà tra la collina e la montagna, Massa San Giorgio, e quindi, per un atto di dovuta cortesia nei suoi riguardi, è andata a finire che i libri praticamente li portavo quasi tutti io, abitando peraltro in centro, non molto lontano dalla scuola. Già, la scuola. Una scuola per ragionieri, l’Istituto Tecnico Commerciale “Antonio Maria Jaci”. Mi trovavo ormai a frequentare l’ultimo anno ma mi chiedevo ancora cosa ci facessi io, quasi un genio dell’italiano, fortemente appassionato alla letteratura e alla filosofia che sognava ancora ad occhi aperti di diventare professore di Lettere, in una scuola di ragionieri. Uno dei miei tanti errori nella vita. Mai, mai una volta in tempo ci si accorge di aver sbagliato, sempre troppo tardi. E così, alternando voti altissimi nelle materie letterarie, a quelli altrettanto bassi nelle materie tecniche, senza essere mai stato rimandato o peggio ancora bocciato, continuavo ad andare avanti lo stesso, tanto ormai si trattava soltanto dell’ultimo anno, dell’ultimo sacrificio.

In fondo a me piaceva studiare ma solo quelle materie che più mi prendevano e affascinavano e non certamente quelle di tecnica o di ragioneria. Del resto, se ognuno sceglie liberamente nello studio di seguire la strada per la quale si sente più portato, ci sarà sicuramente un motivo. Io non ho avuto fortuna neanche in questo, o forse non sono stato abbastanza lungimirante, non ho saputo scegliere. Tutto si svolgeva a Messina, la mia cara città, una città alla quale ho sempre voluto bene, non perché mi abbia dato qualcosa di particolare ma perché vi ero nato, era un po’ come se fosse casa mia, se rappresentasse la mia infanzia, alla quale ciascuno di noi resta sempre, nel corso della vita, particolarmente legato. Forse sentivo di volerla bene, anche perché, paranoicamente, in solitudine, la percorrevo sempre in lungo e largo, camminando senza meta, solo con i miei pensieri e di conseguenza scattava verso di essa, quasi un affetto particolare che definirei, in un certo senso, familiare, quasi come se stessi girando o parlando da solo nella mia stanzetta. La sentivo, insomma, appartenermi, essere mia, trovare posto tra le mie cose più care e intime del cuore, come quei ricordi più belli a cui si è particolarmente legati e che si custodiscono gelosamente. Eppure quel giorno Messina, la mia Messina, aveva un aspetto spettrale, malinconico, quasi come un inspiegabile presagio di quanto sarebbe poi accaduto. Un’atmosfera che si conciliava perfettamente col mese invernale di gennaio ma non certamente con la solarità della città che, il più delle volte, splendeva al sole. Non so dire con esattezza cosa sia accaduto in me quella mattina, anche perché mai prima d’allora mi era balenata in mente l’idea di marinare la scuola, per non avere poi rimorsi nei confronti dei miei genitori e soprattutto di me stesso. Ma quella mattina tutto sembrava diverso, strano, insolito, incredibilmente nuovo. Dentro di me, qualcosa o qualcuno che non sapevo chi o cosa fosse, mi stava incitando, fino a proibirmelo categoricamente, di non recarmi a scuola. Era come se avessi un appuntamento sconosciuto ma importante, al quale non potevo assolutamente mancare o rinunciare.

Non avevo più nessun tipo di rimorso, dubbio o ripensamento nel prendere quella decisione, dovevo non entrare e basta. Così, cambiai subito direzione e anziché andare verso la scuola, mi indirizzai alla zona opposta, verso sud. Era come se fossi guidato a distanza da un comando che non potevo vedere ma che sentivo mi stesse catturando, muovendo i pulsanti, orientandomi verso di esso. Ero praticamente un automa che camminava spinto da una forza misteriosa e invisibile, come si trattasse di una calamita. Persino i miei libri non mi pesavano, erano diventati, di colpo, leggeri, sembrava non ci fossero più. Camminai così, come un’ombra senza identità, per circa mezz’ora, con un passo svelto ma che nulla aveva a che fare con la corsa. Quel mio strano camminare, s’interruppe esattamente davanti alla porta centrale del Gran Camposanto della mia città. Proprio lì, una voce intima che neanch’io riuscivo a decifrare e a capire da dove provenisse e cosa volesse da me, mi obbligò a fermarmi di colpo e, introducendosi nei labirinti della mia mente, prendendo il totale controllo sulla mia volontà, mi fece varcare la soglia, spingendomi ad entrarvi dentro.

 

 

 

 

DENTRO IL GRAN CAMPOSANTO

Mai prima d’allora avevo avvertito il bisogno di esplorare la bellezza, se di bellezza si può parlare trattandosi di un luogo di preghiera che richiama pur sempre alla morte, di un cimitero che risulta essere il secondo d’Italia come grandezza, e classificabile tra i più belli in assoluto per la ricchezza di statue, monumenti, sculture e opere d’arte funeraria che contiene, alcune delle quali antichissime. Soltanto il giorno dell’anniversario della commemorazione dei defunti, avevo l’abitudine di visitarlo, come tutti del resto.

Pur essendo, per natura, fortemente attratto da tutto ciò che è sepolcrale, sempre catturato dalle epigrafi e dalle foto dei defunti, non avevo mai sentito il bisogno o la necessità di andarci in altre occasioni. Ma quella mattina, tutto cambiava, ciò che mai sarebbe potuto succedere, ora accadeva con naturalezza come fosse già scritto, stabilito. Ciò che prima d’allora poteva considerarsi impossibile, diventava assolutamente lecito, tangibile.

Fortunatamente non v’era nessun accompagnamento funebre all’entrata, ma solo una carrozza con un cavallo e un ragazzo handicappato di circa 30 anni che si divertiva a prendere le ghirlande dalla stanza dove vigilava il custode del cimitero e a portarle su quel carro. Poi le riprendeva dal carro e le riportava nuovamente nella stanza del custode, con un ritmo ripetitivo e monotono, minimale, come un uomo disperatamente solo che, vittima delle proprie paranoie, non riesce a liberarsene mai, neppure quando dorme la notte. Il viso dell’handicappato era allegro, spensierato, assolutamente privo di ogni espressione logica. Eppure io, in quel momento, ero arrivato al punto di invidiarlo per quella sua strana e inconsapevole contentezza che aveva dipinta sul viso, completamente all’opposto del mio che non rideva quasi mai. Mi sembrava quasi un bambino, inconsapevole dei pericoli della vita, ignaro di cosa lo attende.

Alla guida del carro, vi era un uomo sulla cinquantina d’anni. Aveva un paio di baffi folti e pittoreschi che si notavano immediatamente, tipici di certi personaggi siciliani adatti ad essere ritratti in quei quadretti venduti ai turisti come ricordo. I baffi erano bianchi, lo stesso colore argento dei capelli, in realtà pochissimi, vi traspariva infatti un capo quasi calvo. Era intento a fumare una sigaretta più per noia che per piacere. Di tanto in tanto, con ritmi monotoni e lenti, alzava la bocca verso il cielo creando anelli di fumo. Non aveva un’espressione triste, sembrava abituato a quel luogo, piuttosto dava l’impressione di annoiarsi come colui che aspetta che succeda qualcosa da un momento all’altro, che possa spezzare di colpo l’opprimente monotonia, anche l’arrivo della morte, sarebbe già qualcosa di nuovo, di diverso. Il cavallo, invece, al contrario dell’uomo, mostrava un’espressione profondamente triste, sommessa, rassegnata. Quasi come capisse e partecipasse all’atmosfera del luogo, muoveva uno zoccolo, poi l’altro, quindi rimaneva immobile come in attesa e poi riprendeva nuovamente a muoversi con ritmi lenti ma perfettamente intonati, come il direttore d’orchestra d’una litania funebre. Gli occhi dell’animale, coperti e bassi, sembravano impenetrabili, persi nel vuoto. Il guidatore del carro, ogni tanto volgeva lo sguardo sul quel povero ragazzo handicappato e in quei momenti pareva più umano, meno assente. Ci fu un attimo, ma fu solo un momento, in cui i nostri occhi s’incontrarono. Tuttavia fu un tempo sufficiente per farci apparire strani l’uno agli occhi dell’altro. Lui si stava chiedendo sicuramente cosa ci facesse un ragazzo con i libri di scuola al cimitero di mattina ed io, a mia volta, mi domandavo come facesse un uomo maturo a rimanere così calmo, così tranquillo in un luogo che infondeva tristezza. In quei momenti, pur nella banalità di quelle considerazioni, paradossalmente, la vita mi sembrò più bella, proprio perché piena di situazioni strane ed imprevedibili, degna di essere vissuta fino in fondo. Era avvenuto l’incontro occasionale di due età così diverse l’una dall’altra, di due modi di essere e di pensare così difformi, almeno in apparenza, era la vita stessa che ai miei occhi si faceva apprezzare con la sua varietà, capace di apparire triste e ironica nello stesso frangente. Il guidatore del carro, il ragazzo handicappato, io stesso che mi trovavo lì anziché a scuola, il cavallo più umano dell’uomo, tutto pareva diventare di colpo favola e noi eravamo trasformati in attori, inconsapevoli protagonisti di una recita strana, ma affascinante, piccoli pezzi di un immenso e bellissimo mosaico che è l’umanità intera con le sue sofferenze, le sue eterne contraddizioni, le sue stranezze, ricca del suo scibile umano, fotografia di un mondo grigio ma che per magia può diventare a colori. Furono tutte considerazioni che contribuirono a regalarmi un pizzico di gioia in quel luogo triste, ma fu solo effimera e di breve durata, come una goccia d’acqua tiepida che, cadendo per sbaglio dentro un bicchiere d’acqua gelida, dà solo l’illusione di riscaldarla, non riuscendo a mitigare il ghiaccio che v’è dentro. Ben presto, infatti, ritornai in sintonia con l’atmosfera di quel luogo e, d’indole malinconica e facilmente orientato alla tristezza quale io sono, mi venne subito in mente l’idea di fare un confronto, quasi un parallelismo, tra l’angoscia del mio animo e l’aria di morte che si respirava lì dentro, aria che avvolgeva ogni cosa di quel luogo anche quell’esile farfalla che sperduta v’entra dentro, così per caso, perde i suoi colori rubati all’arcobaleno e in breve muore, riposandosi, non uscendone più.

Dovevo però riconoscere e ammettere che quel posto era anche particolarmente adatto a suscitarmi pensieri profondi, a sviluppare in me una introspettiva meditazione, specie sulla caducità della vita terrena, era capace persino a ispirarmi su tematiche consone al mio stato d’animo. In particolare, la mia attenzione fu richiamata come un flash da una scritta posta subito dopo l’entrata, quasi di fronte alla stanza del custode. Erano parole di color nero vistoso incise su un marmo bianco, virgolettate che dicevano: “Fummo come voi, sarete come noi”. Anche questa lettura contribuì a farmi meditare ulteriormente. La reputai subito significativa, perfettamente corrispondente al destino dell’uomo, rivelava una cruda e amara verità per chi non avesse il dono della fede. Se l’uomo ponesse al centro dei propri pensieri l’idea della morte così come ho sempre fatto io sin da bambino, non riuscirebbe più a vivere tranquillo conoscerebbe la paura, ma sarebbe sicuramente meno materialista e meno egoista. Se poi dovesse non credere in Dio, allora sarebbe proprio un dramma senza consolazione e vana risulterebbe la parola alla catastrofe dell’anima. Sarebbe la morte, il nulla eterno, l’annientamento totale, definitivo. L’uomo messo completamente a nudo, spogliato da ogni sciocca vanità, si troverebbe con le spalle al muro e la parola fine davanti, sull’orlo del baratro e si estinguerebbe così, nel riposante approdo d’un obitorio. Era quella mattina una giornata non festiva ed io notavo che al cimitero vi era pochissima gente. Questo fatto però non toglieva la mestizia a quel luogo, ma anzi lo rendeva ancora più solitario e abbandonato.

Questo scenario di morte che lì dentro si ripeteva ogni giorno, ogni ora, forse anche ogni minuto, era qualcosa che infondeva nell’animo un non so che di profondamente sommesso che riconduceva inequivocabilmente alla pace, al silenzio. Quella paura iniziale che avevo avvertito non appena entrato al cimitero, più per il fatto insolito di trovarmi lì che per un vero e proprio timore, di colpo, svanì ed io, come se fossi ormai preparato al peggio, mi sentivo come quel bambino che, osservando l’acqua gelida del mare, decide di tuffarsi improvvisamente, per non sentire più freddo poi, quando l’onda lo può travolgere e lui meno se lo aspetta.

A questo punto, cari lettori, per esprimervi meglio le mie sensazioni, ho inserito nel libro una mia poesia scritta proprio in quel momento. Se il lettore riuscirà a cogliere e a provare le stesse emozioni avvertite dal poeta, il compito di chi scrive si è realizzato e l’autore può ritenersi sodisfatto. Io mi auguro che ciò si verifichi attraverso la lettura di questi miei versi.

 

 

MORTE SOLITARIA IN UN CIMITERO DESERTO

 

 

Odore di morte, ricordi segnati da croci,

 

paura angosciosa, solitudine senza fine,

 

tristezza cupa, silenzio assopito,

 

pianti accorati, rosario di dolore.

 

Lumicini ardono, crisantemi ornano le tombe,

 

fotografie di gente che non è più,

 

ombre vaghe di cipressi,

 

aria che trema di fiamme e di preghiere,

 

io che diverrò cenere, sarò ombra di nulla,

 

niente rimarrà di me:

 

e quale conforto potrò avere,

 

perduto tra volti sbiaditi di fotografie d’epoca,

 

dagli occhi tristi dei posteri?

 

Una bimba inginocchiata su una tomba,

 

col cuoricino infranto e gli occhi che s’apron a stento,

 

unisce le sue labbra e per due volte le dischiude

 

supplica e singhiozza un nome santo,

 

il nome della sua mamma.

 

Un angelo sceso dal cielo

 

su lei schiude le ali,

 

e non visto,

 

nelle mani raccoglie quelle stille viventi per il suo Signore.

 

Io, smarrito, da solo,

 

come un uccellino spaurito,

 

vado per le vie di un cimitero deserto.

 

Con la mente nel buio

 

cerco la mia tomba.

 

Quì dentro tutti mi somigliano

 

loro morti davvero, io defunto dentro,

 

con i morti ci so stare.

 

Io muoio pian piano così

 

nel triste rosario delle cose che non han ritorno

 

ma tutto rimarrà com’era,

 

la mia vita è inutile,

 

nessuno mi ricorderà,

 

nessuno s’accorgerà che sono andato via.

 

Io solo nella vita,

 

io solo con la morte addosso.

 

Tomba abbandonata in un angolo oscuro,

 

faccia sbiadita dal pianto,

 

occhi già ciechi nel buio,

 

rughe sul mio viso ancora giovane.

 

Anima mia stanca, ricordi che non avuto mai,

 

sogni svaniti nel nulla, speranza affievolita dal tempo,

 

amore che non mi riscalda più, giovinezza che non è più mia,

 

morte che mi viaggia accanto.

 

Questo son io, altre parole non servono.

 

Eppure la voglia di gridare,

 

di ridere forte, di spaventare la morte,

 

c’è ancora dentro me.

 

Eppure sono figlio della luce, brillo sotto il sole,

 

ho ali per volare, un cuore per amare,

 

una mano tesa ancora c’è,

 

ma il mio sangue è fragile per vivere, troppo fragile!

 

getto via l’acqua pur assetato di vita

 

e chissà, forse qualcuno mi capirà,

 

mi darà il suo sorriso, mi salverà.

 

No, il buio, no!

 

Ma poi torno in grembo all’eterno destino.

 

Il tempo è crudele con me,

 

mi strappa via dalle cose che sentivo più mie.

 

La vita è una corsa inarrestabile,

 

gli anni scivoleranno su me ed io non potrò più fermarli,

 

so bene che soffrirò, invecchierò,

 

piangerò tanto, morirò.

 

Aspetterò in silenzio,

 

questo tempo nemico della bellezza sciuperà il mio corpo,

 

trascinerà via la mia ultima fiamma,

 

disperderà ogni mia speranza,

 

qualcun altro la raccoglierà.

 

Tutto fugge e va via veloce portando via anche me

 

ed io mi accorgo che non mi resta niente,

 

forse solo una lacrima perduta

 

in fondo al mio cuore,

 

forse solo il bene che ho dentro

 

che mi fa amare di più.

 

Ed io sto male

 

e piango in silenzio nel buio della notte,

 

nascondo nel pianto la mia poesia.

 

Signore,

 

ho un vuoto dentro

 

e in questo vuoto non ci sei tu,

 

dammi la forza di supplicarti ancora,

 

di chiederti amore.

 

Non desidero successi e ricchezze terrene, solo la tua presenza in me.

 

Le mie parole in una preghiera,

 

volano in cielo

 

e fanno piangere Dio.

 

Signore, ma come faccio ad essere così cieco

 

tu sei davanti a me

 

ed io continuo a dirti “non ti vedo”.

 

Ho perso tutto ma posso ricominciare con te ritrovando me stesso.

 

 

LUNGO LE VIE DEL CIMITERO

Con questi pensieri, completamente assorto nel silenzio e nella meditazione, percorrevo le vie del cimitero. D’un tratto, uno scossone intimo, simile a quello che mi aveva spinto a recarmi fin lì, mi elettrizzò nuovamente e più forte di prima, salendo sin dal profondo del mio io.

Quella solita voce vaga ed indefinita, tornò a farsi sentire in me e a dirigere i miei passi che poco prima erano incerti e senza una direzione ben precisa. Camminai parecchio, senza mai fermarmi e sempre salendo, attraverso curve, strade larghe e strette che si alternavano tra loro, che giravano e poi salivano ancora, sembrava un labirinto, una salita senza fine. Man mano che la strada procedeva verso l’alto, il tempo si mostrava sempre più brutto, minacciava la pioggia. Il vento che nella mia città non manca quasi mai, ora sibilava tra le tombe, sembrava il flebile lamento delle anime dei defunti. Soffiava spingendo le foglie cadute per terra dagli alberi che ondeggiavano qua e là, leggere come piume, era la danza della malinconia, la poesia delle solitudini, dell’inane, del nulla. S’insinuava prepotente fra i cipressi, alberi silenziosi più dei morti. Il vento lo sentivo dappertutto, echeggiava fin dentro le mie ossa, regnava nelle mie vene mischiandosi con il mio sangue, unendosi col mio respiro. Lo percepivo in ogni alito di vita, in ogni particella d’aria, perfino sulle mie labbra, fredde e gelide come se baciassi la bocca d’un cadavere. Ogni tanto si udiva dall’alto il canto di qualche uccello sparuto, il rumore d’un paio d’ali, ma si interrompevano di colpo in un silenzio tombale, assoluto, come per una forma di insolito rispetto a quel clima che non era rivolto al canto ma all’elegia più sommessa, più cheta. Le nuvole dalle forme più bizzarre ed inquietanti, giravano sopra la mia testa, il cielo diventava sempre più scuro, pauroso ma non sembrava avesse la forza né la voglia di piangere le sue lacrime di pioggia. Ma anche se l’avesse fatto, io avrei continuato imperterrito il mio cammino, avrei portato a termine la mia missione. La pioggia non mi avrebbe bagnato, non mi avrebbe fermato. Com’era lontana la mia Messina solare! Le giornate estive, le spiagge, i primi raggi del mattino. Tutto riconduceva al nero, alla malinconia, al mistero. Non avevo più neanche la possibilità di riflettere sul motivo per il quale un ragazzo di 19 anni si trovasse lì, e non davanti alla cattedra, in mezzo ai suoi compagni di classe, per fare quello che era giusto e logico fare. Ero intento, quasi in trance, a seguire la voce che mi esortava a proseguire il mio strano viaggio, spingendomi oltre il limite, oltre quella barriera che divide quello che noi esseri terreni poveri fantocci di creta chiamiamo reale, dall’irrazionale, dal soprannaturale, da ciò che vive da sempre intorno a noi, nei nostri sensi, ma che non percepiamo. Un mondo totalmente sconosciuto che per adesso, rinchiusi in questa limitata e circoscritta dimensione, noi non possiamo vedere ma che esiste, è soltanto invisibile ai nostri occhi, come qualcosa che non si fa mai toccare ma che c’è e ci sarà sempre. Man mano che salivo, la città appariva sempre più lontana e irraggiungibile, mentre chi mi stava aspettando da tempo, sembrava sempre più vicina. Mi staccavo dal mondo dei vivi per avvicinarmi a quello dei morti, conseguenza assolutamente indispensabile, abbandonare l’umano per essere tutt’uno col soprannaturale. Il mare e la costa calabra che prima s’intravedevano di rado, ora sparivano del tutto, eclissati interamente dai cipressi che parevano fantasmi danzanti, mostri giganteschi. Mi trovavo in una dimensione senza età, il mio orologio con le sue lancette ferme, statiche, pareva disegnato, per niente reale. Non conoscevo più lo scorrere del tempo.

La giovinezza era vecchiaia e la vecchiaia tornava ad essere giovinezza. Regnava l’armonia del silenzio come un Dio della quiete, disturbato solo dai battiti del mio cuore che acceleravano via via che mi avvicinavo alla meta ma era bello ed emozionante anche in quel modo, era magico, era folle. E pensare che laggiù, coperta dagli alberi, doveva pur esserci ancora Messina, caotica e frenetica come tutte le mattine, con i suoi mercati, i suoi negozi, la sua gente che si riversava per le strade, ma tutto questo a me sembrava inconsistente, insignificante, totalmente estraneo, superfluo. Era mattina ma poteva essere benissimo sera, notte. Era inverno ma poteva essere primavera per la speranzosa attesa d’un’avventura indimenticabile che stavo per vivere in prima persona e da solo. In fondo ero solo un ragazzo strano e solitario, ma in quel momento ero immortale, senza età, quasi prescelto da una forza misteriosa e sconosciuta ad essere l’attore principale d’un film senza finale, d’un gioco senza spiegazione, d’un incontro senza precedenti, di una storia alla quale, anche se avessi provato a raccontare, nessuno avrebbe mai creduto. Ma ecco che ora, cominciavano a crollare dal cielo le prime goccioline d’acqua che restavano tali senza mai divenire temporale. Avevano il solo compito di rendere l’atmosfera ancora più coinvolgente,magica, inquietante, celestiale. Erano sorelline gemelle, piccoli angioletti che cadevano dal cielo giù verso la terra come finissime particelle di polvere di stelle. Piccoli angeli sotto forma di acqua che cantavano con le loro voci di bambine la loro sinfonia, per me e soltanto per me,mandate apposta da chi mi stava aspettando in segno di festa, per creare una dolce accoglienza. Mi accarezzavano i capelli, il viso, le mani, dappertutto. Continuavano a cadere dal cielo senza pausa, danzavano, sperimentavano la terra. Ma fra la terra e il cielo, era più bello il cielo, e così preferivano tornare indietro, lassù, da dove erano partite pochi istanti prima, proprio come quei bambini piccolissimi che nascono su questa terra e muoiono subito dopo, magari anche perché una madre non li vuol far nascere qui e a loro non resta che tornare in cielo, ritornando ad essere angeli, sostituendo il bacio non dato dalla mamma con un altro paradiso, molto più bello, vero, eterno. Tutto questo accadeva solo a me e non so spiegarmi tuttora il perché. Proprio a me che non avevo nulla di speciale rispetto agli altri ragazzi della mia età. Anzi, a pensarci bene, qualcosa in più l’avevo da sempre. Come ho fatto a non pensarci prima?

Avevo qualcosa di grande, di estremamente importante e vitale, di immenso. Qualcosa capace di far volare anche chi non ha mai avuto ali, capace di rendere ricchi pur avendo solo una capanna. Qualcosa che Dio ha creato per gli uomini ma che nessuno di loro prende più in considerazione, schiavo della materia e dei problemi pratici quotidiani della vita. Quel qualcosa che avevo in più e che ancor oggi sento di possedere, è la grande voglia di sognare che invade la realtà e la fa scoppiare da tutte le parti. Ma soprattutto la volontà e il desiderio di credere ai miei sogni. Soltanto io, infatti, potevo credere alla storia che vi sto raccontando. Ma sono sicuro che esistono ancora su questa terra, esseri simili a me. E chi sono? Sono loro: gli artisti, gli ubriachi, i bambini,gli acrobati, i saltimbanchi, i protagonisti delle fiabe principesse ed animali parlanti, tutti angeli incompresi caduti su questa terra per sbaglio o per fortuna, capaci di cogliere il vero senso della vita, l’essenza dell’anima. È l’umanità a colori, la vita che ridiventa sogno, l’uomo che dà la mano a Dio, è la luce che non si spegne più.

 

 

VERSO IL CONVENTINO

Non so per quanto camminai avendo perso completamente la cognizione del tempo né dove arrivai non avendo neanche quella dello spazio, era come se fossi in zona zero, in terra di nessuno. La mia attenzione però divenne improvvisamente vigile non appena mi trovai a percorrere una strada totalmente diversa da quelle che avevo attraversato in precedenza. L’asfalto, infatti, cessò di colpo e la strada si restrinse notevolmente sino a divenire una stradina dal fondo di roccia e fatta di sassi ma continuava ad essere percorribile lo stesso, capace di far entrare sì e no 4 o 5 persone disposte a fianco l’una dell’altra. Contemporaneamente anche le tombe apparivano del tutto diverse, tutte di un altro stile. Le fotografie diventano via via volti e statue intere di marmo. Erano autentici capolavori di scultura raffiguranti gente lontanissima dai giorni attuali, chiaramente di un’altra epoca, di inequivocabile fisionomia ottocentesca. Anche l’atmosfera che si respirava era totalmente nuova, anche se paradossalmente antica, inevitabilmente trasformata da ciò che oggettivamente si vedeva. Era come se di colpo il tempo avesse deciso di fermarsi e tornare indietro di oltre cento anni. Non vi era più nulla ormai del tempo attuale, tutto parlava del passato, dell’Ottocento.

Io non avvertivo più niente intorno a me né il vento né la pioggia né il freddo. Vivevo immerso in una condizione più spirituale che fisica, magica più che mai, completamente estraniato, corpo ed anima, dal mondo reale, ormai del tutto rapito da quello circostante. Mi trovavo in un luogo sconosciuto, quasi mistico, che sembrava creato per i poeti e per la contemplazione. Il mondo moderno, quello che era stato fino a poco tempo fa il mio mondo, era ormai lontanissimo, sparito del tutto ed io non lo percepivo e ricordavo più. L’effetto che quel luogo aveva su di me, valeva assai di più di quella che era stata la mia vita di sempre, ormai lunghe distanze mi separavano da essa. Sognavo ad occhi aperti mille avventure, mi arrivava l’eco di mille sirene, ero l’eroe di mille favole. Il cuore non mi chiedeva di tornare alla mia base ma mi esortava a restare lì.

Ero ormai altissimo, quasi in cima, nella parte più alta ed antica del cimitero di Messina. La salita era quasi terminata. Ai lati della stradina, altissime, maestose e sublimi per bellezza e suggestione, si protendevan fiere le tombe dell’Ottocento. Erano statue di uomini, donne, vecchi, bambini. Tombe del mio tempo, ormai non ve ne erano più. Ero completamente circondato da antiche lapidi. La prima immagine che rapisce la vista di chi si trova a salire lassù, è quella della statua di un bambino di quell’epoca, di circa otto anni, seduto su una roccia, vestito come un piccolo marinaretto che par ti guardi e ti dica: “Salve, benvenuti nel regno dell’Ottocento”. Fa quasi da prologo ad una serie infinita di monumenti, uno più bello dell’altro, che da quel punto in poi, inondano quella zona del cimitero, in ogni direzione e da qualunque parte. Immagini di uomini nobili e donne vestite all’antica si vedono ovunque.

Colpiscono i loro baffi folti e pittoreschi, la loro strana pettinatura, l’abbigliamento così diverso da quello del mio tempo. Tutto riportava ad un’altra epoca. Le sensazioni che provavo erano a dir poco indescrivibili, mi sentivo proiettato indietro nel tempo pur avendo la mentalità moderna. Di statua in statua, di emozione in emozione, arrivai in un punto in cui, finalmente, la salita era finita. La salita ma non certamente il viaggio.

Dovevo ancora conoscere l’entità più importante e misteriosa, colei che mi aveva trascinato in quel posto contro la mia volontà, forse avevo visto fin ora solo una minima parte di quanto avrei dovuto vedere o addirittura non avevo veduto ancora nulla. La salita finiva proprio davanti all’entrata di una chiesa bellissima e altissima, tutta stile ottocentesco che io prima di allora non avevo mai vista pur trovandosi nella mia città. Non mi rimase altro che restare a bocca aperta e quasi senza fiato la contemplai. Ero arrivato ormai dove sarei dovuto arrivare. Mi trovavo in quella parte altissima del Cimitero di Messina che oggi si chiama “Cimitero degli Inglesi” ma che in quel periodo si chiamava semplicemente “Conventino” dove erano e sono tuttora sepolti, i nobili messinesi vissuti nel secolo dell’Ottocento. E’ un luogo calmo, silenzioso che ispira timore ma contemporaneamente pace e meditazione: c’è d’averne paura ma lo si va a cercare.

Ed ora, cari amici lettori, come quel ciclista che dopo una faticosissima salita, decide di fermarsi un momento per bere un sorso d’acqua e riprendere fiato, prima di ripartire nuovamente, è necessario che anch’io mi fermi un momento per darvi delle doverose notizie storiche che reputo interessanti circa l’origine di questa favolosa chiesa che è situata nella parte più alta del cimitero della città dello stretto.

A tal proposito, ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato nelle ricerche fornendomi notizie storiche utili al racconto. In particolare tutti i custodi e gli addetti alla vigilanza e al servizio di biblioteche, annali storici ed archivi storici.

 

 

 

STORIA DELLA PARTE PIÙ ALTA ED ANTICA DEL CIMITERO DI MESSINA

Nella seconda metà del secolo dell’Ottocento, numerose epidemie contagiosissime, infestavano la città di Messina come tutto il meridione. Tisi, colera, germi di tutti i tipi erano a quel tempo tutte malattie incurabili. Il contagio si diffondeva vertiginosamente, specie nei bambini la mortalità era elevatissima. Il tasso di vita era spaventosamente basso, infatti oscillava tra i 40 e i 45 anni di età.

A questo si aggiungano la miseria, la guerra, le scarse condizioni igieniche. Quindi per giustificate esigenze sanitarie, si sentiva il bisogno e subentrava anche la necessità di appartare in luoghi, i più solitari possibili, gli infelici malati. Così gli ospedali si riempirono ma non bastavano e si dovettero creare posti isolati, tra i quali il Lazzaretto costruito nella zona del porto, là dove attualmente vi è la Difesa, che raccoglieva tanti bambini colpiti soprattutto da tisi. Lo spettacolo era pietoso. Grida, urla, pianti, sputi, dolori. Lì morì, colpita da quella che a quel tempo era una terribile e incurabile malattia cioè la tisi, la protagonista del mio romanzo. Il posto più isolato però fu costruito nella parte più alta ed antica del cimitero, l’attuale Conventino. Lì venne fatta una chiesetta stile ottocentesco, particolarmente alta. Venivano portati i malati contagiosi come fosse un mini ospedale. Il posto era alto e difficilmente accessibile, quindi dava una discreta garanzia contro il contagio. Ma i morti crescevano e quelli che erano ancora vivi, a contatto con essi, decedevano anche.

Così quella chiesetta si trasformò da sfortunato ricovero, in luogo dove venivano sepolti i morenti. Poi col tempo e col cessare delle epidemie, il posto fu abbellito grazie all’impegno e alla bravura di alcuni scultori messinesi e in particolare di Antonio Saccà che costruì numerose tombe fra le quali anche quella della protagonista del romanzo, dando così al luogo un aspetto profondamente artistico. Vi erano sepolti i nobili messinesi per lasciare ai posteri un glorioso ricordo delle loro memorabili gesta contro l’oppressione borbonica. Difficilmente, anzi direi assolutamente, è possibile trovare sepolta gente comune essendo troppo oneroso poter pagare lapidi davvero imponenti.

Nonostante la terribile catastrofe del 1908, il cosiddetto Conventino resistette, poi il resto del cimitero si dovette rifare. Quindi oggi il Conventino si presenta come la parte più antica del cimitero, la più alta e bella che il tempo non è riuscito a falciare con la sua potentissima forza distruttiva ed è per noi messinesi, fonte di orgoglio e di tradizioni veramente superbe e meritevoli, oltre che un saggio di arte e scultura non indifferenti come vanto per la città. Infatti è bene ricordare che il Cimitero di Messina risulta essere il secondo d’Italia per grandezza e trova posto tra i più belli in assoluto, non solo in Italia. Ed è proprio da quella parte, cioè dal Conventino, che nacque il Cimitero di Messina. E il Conventino oggi vive imperterrito ma totalmente nell’abbandono e senza anima viva.

È un luogo altissimo, calmo, silenzioso che ispira timore ma contemporaneamente pace e meditazione. C’è d’averne paura ma lo si va a cercare. Molti sono i nomi illustri che vi sono sepolti ma, per ragioni di tempo, mi limito a non enunciarli per motivi di non particolarità, essendo tutti degni d’essere menzionati.

 

Ed adesso, cari lettori, dopo avervi fornito queste notizie storiche che sono servite a farvi gustare meglio il racconto, scopriamo insieme la struttura architettonica della chiesa, in maniera molto sommaria per non distrarvi troppo dalla trama e dalle vicende del racconto stesso.

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DINANZI E DIETRO LA CHIESA

Dinanzi la chiesa l’atmosfera è magica, celestiale, mistica, rapisce e trasporta. È difficile descrivere così tanta bellezza. Ma è mio dovere provare almeno a farlo. Proprio all’entrata, la prima impressione che si ha, è quella di essere aspettati da tempo con un’attesa quasi bramosa. Sembra esserci una festa pronta ad esplodere quando vi si entra dentro. La chiesa è stupenda, pittoresca, neanch’io so spiegarmi come abbia fatto a resistere al forte terremoto del 1908 pur essendo così alta, un sisma devastante che ha raso al suolo l’intera città dello stretto. Tutta in stile ottocentesco, la chiesa ha una porta color rosso porpora, poi s’erge maestosa ed invincibile con due colonne laterali imbattibili che sembrano sfiorare il cielo. Al centro, la chiesa sale sempre più su progressivamente, restringendosi via via che s’avvicina alla cima. A circa metà della sua altezza, vi è una finestra senza più vetri e un balcone arrugginito sempre attorniati da colombi ed altri uccelli melodici.

Il vento apre e chiude dolcemente la finestra, il sole riflette su di essa e agli occhi di qualunque osservatore, sembra di vedere affacciata una dolce ragazza ottocentesca vestita di bianco che guarda, saluta, ride, scompare e riappare e poi scende giù di corsa per le scale, apre la porta della chiesa e gli corre incontro con i capelli al vento.

 

Dietro la chiesa si avverte un fascino tutto particolare e suggestivo. Vista di spalle sembra quasi magica, finta, appartenere a un mondo irreale, fiabesco ed è ancora più bella. S’affaccian piccole finestrelle come tanti oblò che a un certo punto spariscono, finché s’erge una cupola che inizia grossa e s’invola fine, fino a confondersi con l’azzurro del cielo.

 

 

 

ALL’INTERNO DELLA CHIESA

Ed io mi trovavo lì per la prima volta davanti alla chiesa e stavo per varcare la soglia.

Quella porta color rosso porpora sempre chiusa, l’unico giorno che desideravo ardentemente entrarvi, stranamente la trovai socchiusa in atto di chi invita a farlo. Cautamente, portando avanti il piede sinistro, poi il destro, tastando con la mano, aiutandomi con un pezzo di legno trovato lì per difendermi da possibili spiacevoli incontri, un po’ come quel cieco che cammina aiutandosi col tatto sconoscendo ciò a cui va incontro, io pian piano, in questo modo entrai. La prima vista varcando la soglia, fu quella di una stanza polverosa, vuota, abbandonata da tanti anni ormai. Il silenzio veniva interrotto a squarci da strani rumori che ora vi entravano, ora vi uscivano dalla finestra, perché quella stanza aveva una finestra sbarrata, arrugginita che sporgeva dietro la chiesa verso altre tombe. Ai lati del tetto v’erano appesi due quadri che portavano foto raffiguranti due Madonne quasi sbiadite. I due quadri erano piccoli e le due Madonne però erano diverse l’una dall’altra. Una aveva l’espressione triste, compianta, l’altra sembrava un po’ più rassegnata certa di trovare ristoro nella carità cristiana, nell’aiuto di Dio. Nel guardare quei quadretti che spiccavano in mezzo al muro bianco, in parte smangiato, mi vennero in mente tutti coloro che dovevano essere ricoverati lassù in tempi passati, confortati dall’aiuto della Madonna ed io immaginavo i dolori, i pianti, le preghiere, le invocazioni che ora tornavano come un’eco nella stanza che sembrava pacata, addormentata, serena, straordinariamente elevata al cielo. In cima al tetto, v’era appeso un lampadario a forma di cerchio che teneva strette delle lampadine spente, alcune delle quali consumate dal tempo, come quelle candele che vengon meno affievolendosi dinanzi all’altare. Da quella stanza, vi si entrava in un’altra tramite un’apertura uguale alla prima però senza più porta. Entrando, per terra, vi erano pezzi, schegge di legno penso della porta stessa. In quell’altra stanza di dimensioni e di atmosfera simili alla prima, io vedevo la cosa più bella: un crocifisso intatto, vivente, a grandezza d’uomo, con uno sguardo fisso che sembrava dire: “Venite a me voi tutti che siete afflitti ed io vi consolerò”, e chissà quanti moribondi del passato così han fatto. Intorno alla stanza, v’erano delle sedie, almeno una ventina, alcune delle quali rotte. Penso servissero per ascoltare la messa, lo capivo infatti osservando un vecchio incensiere abbandonato per terra come un barbone addormentato, e lì vicino, boccette di vetro, calici e roba simile che riconducevano facilmente alla comunione e all’estrema unzione, sacramenti che accompagnavano e insieme infondevano speranza in quel luogo di sofferenza e disperazione. Sopra quel crocifisso carismatico che io continuavo ad ammirare del tutto rapito, v’era una chiesetta in miniatura uguale a quella dove io mi trovavo. Credo che sia stata posta sopra l’immagine del Cristo, per simboleggiare l’elevazione divina dei perseguitati dalle malattie verso Dio stesso, tramite suo figlio Gesù. La terza ed ultima stanza nel bassopiano della chiesa, era anch’essa come le altre, anch’essa conteneva delle sedie, una decina circa, sparse sparpagliatamente. Per terra, v’era un escremento umano che mi fece intuire che qualcuno prima di me, doveva essere salito fin lassù, mi domandavo chi, visto che la porta la trovavo sempre chiusa.

Nell’angolo più nascosto della stanza, come un cane orfano del padrone singhiozza e s’accovaccia per terra, silenziosamente, così v’era posto un organo con una tastiera unica e scordata, da tempo mai più suonato.

Io, d’istinto, mi avvicinai e provai a schiacciare quei tasti polverosi e molli ma non vi usciva suono, solo silenzio, eppure io avvertivo, nel tastare quell’organo, una celestiale melodia che sembrava trascinarmi in paradiso.

E pensavo che tutti coloro ch’eran morti lì, e furono davvero tantissimi, ora dovevano essere felici per l’eternità. E così la mia pietosa compassione divenne certezza, come il chiarore d’una luce lontana che si scorge alla fine di un tunnel, in mezzo a tanto buio. Non so dirvi cari lettori, se quelle strane sensazioni che avvertivo lì dentro, erano dovute a fenomeni paranormali o a suggestioni naturali, certo è che sia l’una, sia l’altra ipotesi eran perfettamente valide visto la misteriosità di quel posto.

Poi, di colpo, restai senza fiato ed immobile e cominciai subito dopo con passi certi e misurati, a dirigermi verso un sottoscala dove saliva una scala pericolante a chiocciola. Lentamente provai a salire cercando di arrivare in quella finestra misteriosa per affacciarmi anch’io da dove sembrava ci fosse il fantasma d’una dolce ragazza vestita di bianco con i capelli al vento, ma più salivo e più mi accorgevo che il rischio aumentava. La scala infatti cominciava a cigolare, era fatta di uno strano tipo di legno.

Io, ormai del tutto rapito da quell’incantesimo, ero lì deciso a salire sino in cima come se quella scala simboleggiasse il mistero ma, ad un certo punto, la vidi spezzata, non ho mai saputo il perché né se poi più su sarebbe ritornata sana, ma l’impressione che ebbi in quel momento, fu quella che qualcuno o qualcosa inspiegabile, non volesse farmi arrivare nemmeno ad un quarto dell’altezza di quella chiesa. Così, deluso, ritornai indietro, chiusi la porta, e ormai coraggioso e forte, mi avviai al di fuori per scoprire fra le antiche tombe, quella che ormai sembrava fortemente vicina, sembrava fortemente chiamarmi.

 

TRA LE ANTICHE TOMBE

Non appena uscii dalla chiesa, mi trovai perso tra le tombe antiche dell’Ottocento, ma nello stesso tempo ero felice perché sentivo che quell’entità che mi stava chiamando, era vicina anche se molto probabilmente perduta fra tutte quelle che mi circondavano. Mi trovavo in un vialetto, una specie di villa tutta stile ottocentesco. Al centro, come una passerella, vi era una strada lunga e stretta che finiva proprio davanti alla porta della chiesa. Ai lati di questa specie di passerella, tra l’erba altissima, si protendean fiere le tombe dell’Ottocento.

Erano tantissime, una accanto all’altra, una più insigne dell’altra. Da lontano mille statue, mille volti, sembravano uno solo che mi guardasse, che mi spiasse, sì mi spiasse, perché l’impressione che chiunque salisse lassù proverebbe, sarebbe quella di essere attentamente spiato, osservato con un occhio meticoloso e scrupoloso, come se tanta gente sconosciuta ed invisibile, vivesse con lui e intorno a lui, in altre dimensioni. Tutto ciò a me non suscitava paura. Io mi sentivo come uno straniero che dopo un lungo e faticosissimo viaggio, scampato fortunatamente ad un grave pericolo, superstite e sopravvissuto insieme, si trovasse involontariamente in un luogo prima d’allora sconosciuto, in mezzo a gente strana ma ospitale e cordiale che gli fa tanta festa, proprio perché mai nessuno da tempo veniva a trovarli. Così, con questa impressione, sentendomi ben accetto e perfettamente a mio agio, io camminavo scrutando le tombe una per una, leggendo e rivivendo la storia gloriosa d’ognuno di loro, osservando i loro volti, le loro espressioni, i loro baffi lunghissimi, i loro vestiti così strani per i giorni nostri, ma così nobili, così perfettamente intonati. Vi erano anche i bambini di quel secolo, vestiti come tanti marinaretti, in particolare mi colpì uno di loro di circa nove anni che io volli chiamare col nome di Beniamino. Cari lettori, non posso descrivervi come vorrei, una per una, quelle numerosissime tombe, sarebbero davvero troppe e non sarebbe giusto nominarne alcune e altre no, quindi essendo tutte interessanti, mi limito a dirvi che vorrei prestarvi per un attimo i miei occhi che le han viste già, per farvi capire quanto in realtà erano belle e pittoresche.

Completamente assorto in un mistico silenzio, ad un certo punto, sentii dentro di me, una voce fortissima che mi chiamava da una direzione ben specifica e mi trovai, inconsciamente sospinto, di fronte ad una strana tomba antica, anch’essa dell’Ottocento. Restai ancora più silenzioso e assorto. Vedevo questa tomba. Provavo a darle un’immagine, una sagoma, una figura visto che non v’era un volto. Cercavo di immergermi nella sua lontana vita. Mi domandavo chi fosse, perché mi stesse chiamando, che cosa volesse da me, dove si trovasse la sua anima adesso, se mi vedesse, se mi sentisse, se fosse magari vicino a me. Come il contrapposto del mare che in profondità è pieno di vita, di alghe che nascono e muoiono, di pesci che mangiano altri pesci, di continue lotte per sopravvivere, e in superficie appare immobile e tranquillo, così erano i miei mille interrogativi che all’esterno non trasparivano perché io ero apparentemente calmo. Quella pietra era per me come una dolce ninnananna che cullava e portava a riposare tutti i miei incessanti pensieri. Il suo silenzio profondissimo era la sola ed unica risposta. In quella tomba senza un volto, v’era scritto semplicemente: “A Marietta Cianciolo, di Domenico Cianciolo e di Enrichetta Stagno d’Alcontres” e poi sotto: “D’animo e di modi soavissima, ebbe celestiali virtù, serena bellezza, e non compié 17 anni. O amore nostro, come faremo infelici senza di te?”. Chi era questa strana ragazza protagonista del racconto? Com’era la famiglia dalla quale proveniva?

A questo punto, cari lettori, è necessario che io interrompa un attimo il corso degli eventi narrati, per soffermarmi sull’identità di questa strana ragazza, vissuta per quasi 17 anni, protagonista del romanzo. Devo quindi parlarvi indirettamente della famiglia Cianciolo di cui la ragazza portava il cognome, tralasciando di fornirvi informazioni sulla famiglia Stagno D’Alcontres che riguarda invece la madre di lei.

Vorrei aggiungere soltanto che in quel periodo nascevano molti matrimoni tra persone che appartenevano a famiglie nobili e quindi dello stesso alto ceto sociale proprio in virtù delle amicizie che intercorrevano tra le famiglie medesime. Da uno di questi matrimoni, nacque Marietta, la protagonista del mio romanzo. Essendo quindi figlia di nobili, era stata sepolta in quel posto.

 

 

 

NOTIZIE STORICO-BIOGRAFICHE SULLA FAMIGLIA CIANCIOLO

 

I Cianciolo vissero agli inizi dell’Ottocento un po’ a Termini Imerese, un po’ a Santo Stefano di Camastra, allo stato di nobili in decadenza, di origine nobiliare antichissima.

Nella metà dello stesso secolo, le guerre e le continue epidemie che colpirono la Sicilia specie la zona di Palermo, dovettero farli emigrare a Messina, più relativamente tranquilla. In poco tempo i Cianciolo presero in mano la città a causa di numerose cariche politiche che erano state a loro attribuite. Dalla conoscenza di altre famiglie altolocate messinesi, crebbe in particolare l’amicizia che poi si tramutò in parentela grazie a parecchi matrimoni, con la famiglia dei Principi Stagno d’Alcontres che ancora oggi fa sentire la propria autorità sulla città, sia pure in forma minore essendo ormai in via d’estinzione il ceppo di famiglie nobili. Per ragioni di non esclusivo rapporto col racconto, ricordo ancora una volta, di non voler dare accurate informazioni sui Principi d’Alcontres, e di volermi invece soffermare sulla stirpe nobiliare, ormai estinta, dei Cianciolo, prendendo ora in esame le caratteristiche nobiliari di suddetta famiglia.

 

 

 

CARATTERISTICHE NOBILIARI DEI CIANCIOLO

L’arma cioè lo stendardo dei Cianciolo, era di colore azzurro, al braccio destro di carnagione alias armato al naturale impugnante una mazza di nero circondata da tre stelle d’argento.

Il nonno di Marietta, barone Vincenzo Cianciolo, patrizio messinese, tenente colonnello di fanteria, cavaliere mauriziano e della Corona d’Italia, decorato della medaglia d’argento al valor militare, figlio del barone Giuseppe e del fu barone Vincenzo e della prima moglie Girolama Aidone degli antichi Principi d’Alcontres e della fu Lucrezia Giano.

Il fratello di Marietta, Ernesto, assessore municipale, cavaliere della Corona d’Italia, due volte sindaco di Messina.

Il padre di Marietta, Domenico, già senatore di Messina, figlio del fu barone Vincenzo e della seconda moglie Maria Balsamo dei Principi dei Castellacci, marito di Enrichetta Stagno d’Alcontres dei Principi d’Alcontres.

Mentre la famiglia Stagno d’Alcontres continua ad esercitare un certo potere anche oggi sulla città, in forma minore, così non lo è per la famiglia Cianciolo che è decaduta a livello di nobiltà. Infatti, dopo accurate ed approfondite indagini, sono venuto a conoscenza che i pochi ceppi della famiglia suddetta esistenti attualmente, non sono neppure a conoscenza della loro antica nobiltà, neanche per sentito dire. Comunque oggi nella città di Messina, è rimasta solo una via che richiama a questa gloriosa famiglia ed è stata intitolata a Vincenzo Cianciolo, che era il nonno di Marietta, come precedentemente accennato.

Lasciamo da parte, cari lettori, le notizie storiche sulla famiglia Cianciolo e andiamo invece a descrivere quella che è la tomba di   Marietta.

 

 

 

DESCRIZIONE DELLA TOMBA DI MARIETTA

Situata proprio alle spalle della chiesa a una decina di metri circa, era visibile anche da molto più lontano. Portava in alto un marmo di circa 3 metri, rettangolare, firmato dallo scultore Antonio Saccà che era uno dei più illustri scultori messinesi dell’Ottocento. In cima al marmo completamente bianco con qualche disegno artistico dello stesso colore ma un po’ più ricalcato, vi era un cerchio dove sicuramente doveva esservi stato il volto di Marietta che stranamente, era sparito, forse solo da quella tomba, poiché i volti delle altre statue erano ancora tutti al loro posto. La mancanza di esso, la deducevo dai segni che erano ancora visibili all’interno di quella specie di cerchio creato apposta per inserirvi il volto stesso. Alla base, la tomba era completamente nuda senza l’ombra d’un fiore, come del resto ogni tomba di lassù, era davvero troppo il tempo passato dalla sua morte. Circondata da erba alta non curata e da trifogli, aveva intorno una catena arrugginita che avvolgeva completamente la sua lapide e quella del padre che era sepolto, accanto alla figlia, dentro la stessa catena. La tomba di lui però, anche se uguale per struttura e dimensione a quella di Marietta, aveva il volto infisso sul marmo. Era un uomo anziano, Domenico Cianciolo, un volto pallido, sereno, occhi incavati ma dolcissimi che mostravano una bontà delicata, velata, un’educazione composta, si vedeva dallo sguardo che era un nobile. La tomba più vicina a quella di lui e della figlia, era posta alla immediata destra, un paio di metri distante. Apparteneva ad una neonata vissuta appena 10 giorni dal 7 al 17 aprile del 1872. La bimba, dal nome non italiano, si chiamava Aline Wolf. Era una tomba a forma di bara di dimensioni uguali alla piccolissima bambina morta.

Il coperchio era addirittura mezzo scoperto, e lì sopra mi sedetti io a contemplare la pietra di Marietta, fra due tombe, una di una bambina di 10 giorni, l’altra di una ragazza di 16 anni che mi ricordarono ciò che io da sempre sapevo, che la morte non ha età. Ad esser sincero, non è che la tomba di Marietta avesse qualcosa, dal punto di vista estetico, di superiore rispetto alle altre, anzi ve ne erano di molto più belle anche di ragazze della sua stessa età, ma quella tomba era straordinariamente diversa da tutte le altre, sembrava vivere, parlare, gridare, pareva avesse un disperato bisogno di comunicare con me. Cominciarono così le mie illusioni sulla sua tomba mentre mi addentravo sempre più in questa storia che ha veramente dell’insolito, dell’incredibile.

 

 

ILLUSIONI SULLA TOMBA DI LEI

E così, quasi tutte le mattine, io salivo lì illudendomi di farle compagnia, di parlare con lei e di essere ascoltato. Nonostante fossi arrivato all’ultimo anno delle scuole superiori e quindi prossimo agli esami di maturità, avevo quasi smesso di studiare. La mattina, anziché andare a scuola, mi recavo al cimitero. Il pomeriggio, invece di studiare, frequentavo biblioteche e archivi storici per avere notizie sulla vita passata di lei. Ero diventato proprio un folle o forse lo ero anche prima, ma Marietta mi diede il famoso colpo di grazia. Ero perso, irrecuperabile. Di questa storia non ne parlai mai con nessuno né con amici né con i miei genitori. Volevo restasse un segreto ed ero consapevole che, anche se l’avessi detto a qualcuno, nessuno mi avrebbe capito e creduto, nessuno avrebbe potuto giustificare il mio comportamento. Ma ero felice così, non volevo coinvolgere nessuno, solo io e lei e nessun altro. Non mi importava più di nulla ormai né degli amici né della scuola, avevo trovato il mio vero motivo per vivere. Non esisteva pioggia o temporale capace di fermarmi, io ero lassù, ai piedi della sua pietra, col freddo e col caldo, col sole o con i fulmini. Le portavo rose sempre fresche, le compravo nuovi portafiori, curavo la sua tomba nei minimi particolari, guai se v’era un insetto fuori posto, io la rimettevo subito come doveva essere. In poco tempo, nonostante fosse una tomba antica, era diventata la più bella e curata dell’intero cimitero grazie a me. Vivevo immerso in queste magiche illusioni senza che lei mi avesse dato, in quei giorni, alcun segno di gradire le mie attenzioni. Io, nell’ingenuità della mia giovane età, mi ero quasi convinto che ormai lei fosse la mia ragazza. Ma la cosa più bella che ho fatto in quel periodo è stata quella di scriverle, proprio come un innamorato, tre poesie che ora sottoporrò alla vostra attenzione, cari lettori, inserendole nel racconto in sequenza, una dopo l’altra, spezzando forse un po’ la trama del racconto, ma dando allo stesso, almeno mi auguro, una certa inclinazine poetica.

 

A TE MARIETTA (1855-1872)

A te Marietta!

che se sei stata la gioia, l’amore di qualcuno.

A te Marietta!

che non ti ho vista mai.

A te che t’immagino come un fiore

che sboccia, fiorisce e muore senza dolore:

chi potrà mai piangere o lodare

la tua cruda e gelida pietra

che forte ed imperterrita

sembra sfidare la collera del tempo?

A te Marietta!

che ti penso sempre

come una dolce ragazza vestita di bianco

che con il bruno dei tuoi capelli

formi un vistoso e sublime color di primavera

a te che guardando la tua tomba

mi s’incenerisce il cuore.

A te Marietta!

che nessuno un volto ti sa dare

e che con insistenza la tua immagine m’immerge

nel lontano passato della tua vita.

Non so chi tu sia stata

né saprò mai il motivo della morte che presto ti colpì

ma so con certezza che questa è la tua pietra

e che in essa il tuo corpo giace.

A te Marietta!

scrivo queste righe

per aggrapparmi all’illusione di un lontano ricordo

che mai ci fu.

Dedicata a colei che brevemente fu

e che mai in vita conobbi

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L’IMMAGINE

Un bagliore improvviso

squarcia la mia mente assente

e dall’ignoto all’ignoto

ora fugge ora torna, ora torna ora fugge.

Pallida e soave

di dolcezza inebriata

m’appar dinanzi

ancor e sempre.

Nitida sagoma,

a tratti t’avvicini

di colpo, opaca t’allontani.

Le sciolte tue trecce

dal terreno mondo sembran distaccarmi

trascinandomi in sconosciute dimensioni

dove neanch’io so chi ero, chi sarò.

Fulgidi gli occhi tuoi

m’abbaglian forte

ed io ti sento in me

o sconosciuta immagine

di profondo mistero velata.

Non un volto, non una realtà

solo negletti ed esili fiori

ed un’antica tomba assopita accanto

per trattenere forte

l’enigma della tua sorte.

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DESCRIZIONE D’UN RITRATTO FUNEBRE

 

Da lassù, in uno strano sogno, Marietta mi narrò del giorno in cui morì.

Quel suo lontano ricordo del 28 settembre 1872.

 

“Ancor limpido era il sole della mia giovinezza

anche se lì fuori con pioggia e vento

battea la morte alla mia porta

e con voce certa ma affannata forte mi gridava:

«Vieni Marietta, presto vieni».

Ricordo lontanamente che in un primo momento

un brivido di paura m’assalia fino a farmi tremar

ma poi aprendo nuovamente gli occhi

il composto sguardo di mio padre il mio coraggio mi ridiede

e mentre un prete mi donava l’estrema unzione,

io sentivo di dover andare fra le secrete cose.

Scendean dalle scale le mie cugine

tristi apparentemente ma contente e fredde nell’animo,

mi facean pena vederle illudersi ancor

di quella lor vana ricerca della terrena bellezza

che come un fiore dal petalo si strappa

e appassendo muore.

Suonava l’organo un bimbo mai in vita conosciuto

ma che allora sembraa d’averlo visto da sempre

e in quella dolce musica

stancamente mi si chiudean gli occhi

mai rinnegando quella serena bellezza

che sempre in vita m’avea contraddistinta.

L’ultimo mio sguardo nel pallore della morte

era rivolto verso mia madre

che addolorata ma mai rassegnata

l’ultimo bacio mi donava.

Ed ora dopo che il tempo tante orme ha cancellato

i miei pensieri son tanti ieri che nell’ignoto fuggon lontano

ed il mio oggi così come domani è armoniosa luce”.

 

E fu così

che dal sogno mi destai

completamente assente.

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APPARIZIONE D’UNA FIGURA SOGNANTE

I giorni passavano in fretta, ne erano trascorsi una ventina circa dal giorno in cui vidi per la prima volta la tomba di Marietta, ed eravamo quasi alla fine del mese di gennaio. Io mi addentravo sempre più in questa insolita storia, lasciandomi ormai del tutto rapire dalla forza dei miei sogni, della mia fantasia, della mia immaginazione. Non riuscivo più a distinguere il limite oltre il quale il sogno svanisce per far subentrare la realtà. Sogno e realtà erano diventati per me un tutt’uno. Vivevo la mia illusione con gioia, entusiasmo, voglia di avvicinarmi sempre di più finché, proprio verso la fine di gennaio dell’anno 1984, quello che da sempre sognavo, stava per trasformarsi in realtà e avvenne così quello che più ci penso e più mi accorgo che ha dello straordinario, dell’incredibile. Finalmente ora, io potevo vedere Marietta.

Dolcemente chinata, quasi curva su quella che era la sua tomba, di abiti ottocenteschi vestita, illuminata da un raggio di luce come un tremulo brillio rapito così fugacemente dall’infinita luce divina, la vidi mentre coglieva quei fiori che io stesso le avevo portato sulla sua pietra. Li coglieva uno dopo l’altro fino a formarne un mazzo, poi si slegò una treccia dal bruno dei suoi capelli, e legò insieme quei fiori dai colori misti che profumavano di primavera. Io la osservavo attentamente, meravigliato e confuso, ma senza aver paura, una figura così sublime non poteva infondere timore ma solo tenerezza e profonda commozione. L’unica cosa che riuscivo a connettere nella magia di quell’istante, era che quella ragazza che stavo osservando, aveva un aspetto identico a come io stesso l’avevo immaginata.

Poi lei alzò il capo dolcemente, mi guardò e mi sorrise mostrandomi lo splendore d’un volto angelico pallido e soave, contornato da un alone di mistica bellezza, puntando i suoi occhi scuri penetranti, dritti e fissi sui miei, ed io, non potendo pur volendolo spostare i miei occhi in nessun’altra direzione, sostenni come ipnotizzato il suo sguardo.

E fu così che in quella mattina di gennaio, nobile nel portamento e aggraziata nei gesti, misteriosamente affascinante lei mi apparve.

Ha avuto inizio così il primo dialogo con lei. Abbandono, ma solo per la parte relativa ai dialoghi, la narrazione in prima persona, per darvi una lettura più oggettiva dell’avvenimento.

 

 

IL PRIMO INCONTRO

Manuel: Ma tu chi sei?

Marietta: Io sono Marietta, la ragazza che tu stai cercando.

Manuel: Ma non è possibile, è assurdo, non può essere, io sto sognando, ho un’allucinazione. Tu sei morta, non puoi essere viva.

Marietta: Sì Manuel, io sono morta ma posso rinascere grazie ai tuoi sogni, alla tua fantasia, alla tua immaginazione. Tu sei un ragazzo capace di trasformare in sogno e poesia la realtà ed è per questo che io ho voluto premiarti.

Manuel: No, non può essere, tu sei solo il frutto della mia immaginazione, la proiezione dei miei sogni, non puoi essere quella ragazza morta nel 1872.

Marietta: Sì Manuel, sono proprio io invece, la ragazza morta tanto tempo fa. Io ti conosco ormai, so chi sei, ti seguo da sempre, sono molto più vicina di quanto tu possa pensare. Io sono viva, viva, viva.

Manuel: Troppo forte! Ma allora è meraviglioso. Ma tu ci pensi? Ti rendi conto? Tu eri morta per modo di dire ed io sono ancora vivo ma nonostante questo io ti vedo, ti parlo, ti sento come se il tempo non fosse mai passato. Mio Dio, è troppo bello! è meraviglioso.

Marietta: Sì Manuel, e questo è avvenuto grazie alla forza creativa dei tuoi sogni.

 

 

 

 

COME LA VEDEVO

La sua voce era dolce e comune a quella di tante altre ragazze della mia città. Aveva infatti quel tipico accento messinese che si percepisce subito, specie per chi viene da fuori, pur parlando in perfetto italiano. Quella sua voce fina, contrastava un po’ con quel suo aspetto angelico, non perché non fosse gradevole all’orecchio, ma perché non possedeva quell’alone di mistero che era invece riscontrabile nella sua figura. La voce insomma sembrava più reale e umana del suo aspetto. Man mano che mi parlava e le nostre conversazioni diventavano più intime, anche la sua immagine si faceva via via sempre più normale, fino ad abbandonare del tutto quel non so che di inquietante e misterioso che aveva in lei quando mi apparve per la prima volta. Ad un certo punto, la sua fisionomia divenne talmente reale da sembrare assolutamente umana, tanto da poter essere scambiata tranquillamente per qualunque altra ragazza. L’unico indizio che mi riconducesse alla sua vera natura, mi era fornito dal suo abbigliamento che era del tutto ottocentesco e quindi la rendeva inevitabilmente diversa. Tutto questo però non sottraeva nulla al suo fascino ma la faceva apparire straordinariamente viva e reale, appartenente appieno alla mia dimensione, facendomi sentire perfettamente a mio agio con lei. Indossava un lungo vestito bianco che le donava molto e che le arrivava fin quasi ai piedi, con dei ricami fantasiosi dello stesso colore ma che si notavano perché d’un bianco più intenso. Era un vestito leggero e primaverile anche se a maniche lunghe in forte contrasto col periodo invernale di allora. Mi appariva vestita sempre allo stesso modo. Le scarpe erano nere, senza tacchi, anch’esse primaverili ma mi sembravano uguali a quelle usate ai giorni nostri.

Sicuramente dovevano essere per forza ottocentesche ma io, forse perché da sempre ignorante in fatto di moda, non lo capivo. A me davano quasi l’impressione di essere le scarpe di Cenerentola ed io mi sentivo il famoso principe azzurro. Il suo fisico era snello, non grasso e non magro, perfettamente giusto, adatto a indossare qualsiasi tipo di vestito. Le sue forme delicate non apparivano troppo evidenziate né particolarmente seducenti. Era alta quasi quanto me, 1,70 circa. La sua carnagione chiara era più da ragazza nordica che da siciliana ma serviva a farle aumentare il fascino perché spiccava col bruno dei suoi capelli e col nero degli occhi, quegli occhi sempre puntati sui miei quando mi parlava, quasi non riuscisse mai a distrarsi tanto da procurarmi un certo imbarazzo, una sottile pudica timidezza.

Il suo volto aveva perso quel pallore angelico, diventando d’un colore normale, persino solare. Le sue ciglia, il suo naso, i denti, la bocca, tutto di lei mi appariva perfetto senza nessun difetto. Era il suo un viso acqua e sapone, senza trucco, dai lineamenti delicati, che dimostrava esattamente la sua età, quasi 17 anni. Era sicuramente carina, direi bella ma non bellissima, non era dotata di un fascino eccelso. Mi sembrava umana, terribilmente umana.

Non faceva smorfie di nessun tipo né cambiava spesso d’umore ma aveva un bel carattere, sempre allegro, disponibile al dialogo, socievole. Dolce nei gesti, aveva però un qualcosa di alterato nel portamento, involontario, forse perché era nobile. I suoi capelli erano bellissimi, lunghi ma non troppo, ondulati, le arrivavano fino alle spalle. Erano bruni, del colore che a me piaceva di più in una ragazza, si era completamente tolta le trecce. Era, in conclusione, una ragazza normalissima, tranne un piccolissimo e irrilevante particolare, era morta più di cento anni fa.

Da questo momento in poi, il racconto assume le vesti del dialogo che io ho voluto chiamare “Dialogo della semplicità”, per mettere in evidenza come nella semplicità, e quindi nella purezza incontaminata dei sogni, si possono vivere esperienze ed emozioni trascinanti, uniche, di altre dimensioni.

 

 

DIALOGO DELLA SEMPLICITA’

Marietta: Grazie Manuel per essere venuto a trovarmi.

Manuel: Figurati, lo faccio con piacere. Parliamo un po’ di te, vuoi?

Marietta: Certo.

Manuel: Come passavi il tuo tempo libero?

Marietta: La mattina uscivo con mia madre oppure con mia cugina o qualche amica, questo quando non c’era la scuola, specie nelle vacanze.

Manuel: Ma tu eri brava a scuola?

Marietta: Moltissimo, ero la prima della classe. Pensa che quando sono morta, i miei compagni, le mie compagne, i miei professori erano tutti al mio funerale. Molti di loro piangevano. Alla fine mi hanno fatto un applauso lunghissimo.

Manuel: Fino a che classe sei arrivata?

Marietta: Fino quasi alla fine cioè alla terza media. Ai miei tempi chi aveva la licenza media era come un laureato dei tempi tuoi. Io perché ero nobile ero istruita, ma quasi tutti gli altri ragazzi lavoravano o facevano solo la scuola elementare.

Manuel: Con tuo padre andavi in giro a fare passeggiate?

Marietta: Sì, ma poche volte, era sempre impegnato con la politica, era senatore. Ricordo che mi portava al teatro. Sai, era un padre affettuosissimo e premuroso, nel senso che la politica restava fuori dalla famiglia. Ogni Natale mi portava i regali più belli. Avevo un albero favoloso, ricco di colori e sorprese.

Manuel: E che volevi di più dalla vita?

Marietta: Tutto ancora, ma mi è stata tolta e forse è stato meglio così. Non rimpiango proprio nulla di ciò che avevo sulla terra. Dio mi ha fatto dei doni molto più belli ed eterni. Le sue idee non sono quelle degli uomini.

Manuel: Ma tu eri felice, orgogliosa di essere figlia di nobili o preferivi essere nata normale o magari povera?

Marietta: Per me era indifferente. Sono sempre stata modesta. Non ho mai avuto arie. Poi, del resto, non sarebbe stato merito mio, così come sono nata nobile, potevo benissimo nascere povera. Sono nata nobile ma non sono morta lo stesso? La ricchezza terrena non vale niente, è quella dell’anima che conta.

Manuel: Eravate ricchi?

Marietta: Assolutamente no! Ma che cosa ti sei messo in testa, che avevamo castelli giganteschi come quelli delle favole? Ai miei tempi c’erano un’infinità di problemi, tante malattie incurabili, addirittura il Regno d’Italia era stato proclamato da poco, c’erano tante rivalità tra gli uomini, tanti contrasti.

Manuel: Vedo che sei molto preparata in storia!

Marietta: Ma no, certe cose si sapevano per sentito dire. Noi abitavamo in una casa un po’ più grande delle altre a livello terra. Sai dove? In centro, al Corso Cavour, allora si chiamava così e non so se esiste ancora, le strade erano molto diverse da quelle di oggi. Io ricordo che avevo una stanzetta che sporgeva su un mercato e c’era sempre tanto traffico, tanta confusione con tutta la gente che andava a comprare. In realtà non c’era molta scelta nel mangiare, c’era frutta, pesce, uova, poca carne ma comunque era tutta roba genuina. C’era miseria in quel periodo.

Manuel: Come fai a dirmi che non eravate ricchi? Non ci credo.

Marietta: Ricchi per modo di dire, avevamo più dei poveri, proprietà terriere soprattutto, te l’ho già detto, c’era povertà, non poteva parlarsi di vera e propria ricchezza. E poi io ero piccola per interessarmi a queste cose. I soldi, la politica per me era come se non esistessero. Vivevo semplice con celestiale virtù e serena bellezza, proprio come ha fatto scrivere mio padre sulla mia tomba. A proposito di mio padre, sai, ha sofferto molto quando sono morta! Ero l’unica sua figlia, era particolarmente attaccato a me, mi voleva bene. Avevo anche un fratello, Ernesto, era un anno più piccolo di me. Pensa che è stato per due volte sindaco di Messina. Lui è morto a 49 anni nel 1905. Vedi questo signore sepolto al mio fianco? È mio padre, è morto 12 anni dopo di me, come vedi la morte non ha età. Guardalo bene, trovi che mi somiglia? Dicevano tutti che mi somigliava moltissimo. Lui il volto ce l’ha ancora sulla tomba, il mio si è rotto col terremoto del 1908. Ma cosa importa? Tanto tu mi vedi lo stesso.

Manuel: E tua madre? Tua madre dov’è sepolta? Come mai non è qui con te?

Marietta: Lei è sempre vicino a me. Qui al cimitero non so dove sia sepolta. Forse perché appartiene alla famiglia Stagno d’Alcontres sarà in qualche altro posto. Sai, c’è pure una mia cugina morta a 14 anni sepolta dove ci sono i bambini del mio secolo, il suo cognome era proprio Stagno d’Alcontres.

Manuel: Io ho fatto delle ricerche su di te e ho notato che nello schedario della tua famiglia risultano proprio tutti, tranne te. Come mai?

Marietta: Non lo so, è strano. Forse perché ho vissuto talmente poco e non sono stata né sposata e né in politica.

Manuel: Ai tuoi tempi si sposavano presto?

Marietta: Sì, almeno il più delle volte. C’erano molti matrimoni che venivano stabiliti dai genitori. Comunque mio padre e mia madre si amavano veramente.

Manuel: Che facevi nel tuo tempo libero?

Marietta: Un po’ di tutto. Disegnavo, mi piaceva molto. Dipingevo il sole, il mare, la natura, paesaggi. Mi piaceva andare a cavalcare, avevamo un cavallo piccolino, si chiamava Puffy. Leggevo libri d’avventura, libri d’amore, scrivevo poesie. A proposito. Ho letto quella poesia che mi hai dedicato. È bellissima, mi ha colpita fino a farmi scappare le lacrime. È insolita, irreale, strana proprio come noi due che siamo qui a parlare da tanto tempo. Per noi è tutto così naturale, per gli altri magari è solo follia, fantasia. Eppure noi due siamo reali. Perché non provi a scrivere un libro sulla storia di noi due?

Manuel: Mi prenderebbero per pazzo, non lo leggerebbero neanche. Ma tu eri romantica? Ti piaceva la musica?

Marietta: Sì, Manuel, ero romanticissima come te e amavo la musica che era molto diversa da quella rumorosa di oggi. Mi ha fatto piacere che tu ti sia comprato un disco con la musica dell’Ottocento, così ti ricordi di me. Ma sei ancora convinto di volerti fare una tomba vicino alla mia?

Manuel: Certo che lo sono, vorrei essere sepolto vicino a te, quando sarà.

Marietta: Ma tu sei completamente pazzo, ma come puoi pensare una assurdità simile?

Manuel: Perché? Mi è sempre piaciuta questa zona del cimitero, queste tombe antiche. Ma sicuramente non me lo permetterebbero. Qui possono starci solo le tombe del tuo secolo.

Marietta: E meno male, così almeno cancelli dalla tua mente una idea simile. Ascolta Manuel, anch’io amavo come te la vita terrena, ogni cosa, un fiore, un insetto, un bimbo, una stella, una coccinella. Chi meglio di me ti può capire? Perché ero uguale a te. So che tu ti domandi perché quel bambino ingenuo, tanto bellino, che poi cresce man mano, che tu vedi nelle tue fotografie, debba invecchiare e magari in punto di morte anche soffrire come ho sofferto io. Ma sappi Manuel, che se Dio toglie qualcosa, lo fa solo per dare di più, molto di più. Ti darà doni molto più belli, più grandi, più certi, eterni. Devi credere e avere fiducia in lui. Dinanzi a Dio si è sempre giovani, molto più della giovinezza terrena. Sulla terra prima o poi tutto sbiadisce. In cielo tutto rimane per sempre puro, intatto, incontaminato. Non ha nessuna importanza se metterai la tua tomba vicino alla mia, perché sono solo pietre e null’altro. Noi saremo vicini lo stesso nei giardini dei cieli, se solo tu lo vorrai, dipende solo da te. Sarò io stessa in punto di morte a prenderti dolcemente per mano e a farti contemplare la bellezza di ciò che è Dio e anche tu, così come ho fatto io, piangerai di gioia. Tutto sarà chiarezza, consapevolezza nell’analizzare con occhi di verità il proprio operare terreno.

Manuel: Mi sto commuovendo, mi stanno quasi scappando le lacrime, sei più poetica di me. Posso prendere la tua mano?

Marietta: Certo che puoi.

Manuel: Allora tendi la tua mano verso la mia ed io farò la stessa cosa. Così arriverò a intersecare le mie dita con le tue dita in modo che possa stringerti forte la mano e sentirti più vicina.

Marietta: Va bene Manuel, ma non puoi sentire la mia struttura fisica perché i sogni non hanno corpo, stringeresti l’aria.

Manuel: Non m’importa. Afferra la mia mano adesso con la tua, le tue dita nelle mie, e stringiamo forte insieme.

Marietta: Ora che le nostre dita si stringono cosa stai provando Manuel?

Manuel: Forte, Marietta, troppo forte! Sto stringendo l’aria, non te, tu sei trasparente, sei un fantasma allora.

Marietta: Te l’avevo detto che non puoi sentirmi fisicamente.

Manuel: È emozionante lo stesso. È come un leggero brivido, una piccolissima scossa elettrica che non mi procura nessun fastidio, nessun dolore. E tu cosa provi?

Marietta: Le stesse cose che stai provando tu.

Manuel: Posso baciarti sulle labbra?

Marietta: Sì, se vuoi.

Manuel: Troppo forte, fantastico!

Marietta: Cosa hai sentito?

Manuel: Una strana sensazione. Come se sulle mie labbra, fosse caduta una gocciolina d’acqua fredda. Marietta dimmi la verità, mi trovi carino come ragazzo?

Marietta: Certo che lo sei.

Manuel: Se tu fossi viva e appartenessi al mondo reale, ti innamoreresti di me?

Marietta: Credo di sì.

Manuel: E mi sposeresti?

Marietta: Credo di sì.

Manuel: E vorresti figli da me?

Marietta: Non lo so, non ci ho mai pensato. Ma tu hai la ragazza?

Manuel: No!

Marietta: Perché?

Manuel: Non lo so, forse perché cerco una ragazza all’antica come te e non l’ho mai potuta trovare. Forse non esiste neanche. Senti, se portassi mia madre, mio padre, un amico qui, ti potrebbero vedere?

Marietta: No, solo tu puoi vedermi.

Manuel: E se provassi a raccontare a qualcuno l’esperienza che sto vivendo?

Marietta: Non verresti creduto, forse penserebbero che sei pazzo, un visionario.

Manuel: Cos’è la morte?

Marietta: Esiste solo quella fisica.

Manuel: Ma cos’è? Perché si muore?

Marietta: È come la nascita, solo che è al contrario. L’anima non muore mai, si trasforma soltanto cambiando dimensione ma noi restiamo sempre gli stessi, liberi ciascuno nella propria individualità in una dimensione di immortalità e benessere nell’amore eterno.

Manuel: Ma tu quanti anni hai ora?

Marietta: Potrei averne 16 come potrei averne 1000. Non esiste il tempo nel mondo dello spirito. Non ho un’età. Sono viva più dei vivi.

Manuel: Chi è Dio? Com’è?

Marietta: È infinita luce, è infinito amore. Devi adorarlo mettendolo al primo posto nella tua vita e aiuta il tuo prossimo dando forza e coraggio a chi non ce la fa.

Manuel: Ma chi l’ha creato?

Marietta: Quando si ama veramente qualcuno, non ci si chiede mai il perché e da dove nasca l’amore, si ama e basta. Troverai la risposta leggendo la Bibbia e dentro la Chiesa, nel tuo cuore la verità.

Manuel: E il diavolo esiste o è solo un’invenzione per metterci paura?

Marietta: Non è un mostro con le corna. È l’opposto di Dio, il contrario del bene. Con astuzia sfrutta il tuo punto debole e ti domina se credi che non esista, presentandoti il male come bene. Non può nulla contro la volontà del tuo cuore.

Manuel: Potrei parlare con mia nonna che è morta quando io ero ancora piccolo?

Marietta: Tua nonna non è mai morta e ha lo stesso desiderio di parlare con te anche perché sa molte cose più di te.

Manuel: Ma allora perché non possiamo parlarci?

Marietta: Per lo stesso motivo per il quale un pesce non può stare fuori dell’acqua e un uomo non può vivere sott’acqua.

Manuel: Ma perché dovrei credere a ciò che non vedo?

Marietta: Molte cose nella vita esistono ma non si vedono. Pensa alle onde elettromagnetiche, alla forza del pensiero. Il mondo dello spirito è vasto e complesso, innamoratene! Impara a guardare lontano, Dio ha un progetto d’amore anche per te. Mantieni con lui un rapporto vivo, gioioso e costante e nulla potrà insidiarti.

Manuel: Esiste il paradiso?

Marietta: È la luce di Dio.

Manuel: E l’inferno?

Marietta: È la mancanza di questa luce.

Manuel: Chi sono i santi?

Marietta: Anime più vicine alla luce. Cercali e ti aiuteranno.

Manuel: E i cattivi?

Marietta: Anime che non vedono la luce ma possono rivederla se si redimono vagando prima nella nebbia del purgatorio. Dio mette alla prova. Servono fede, perseveranza e pazienza affinchè Egli operi nella nostra vita.

Manuel: Puoi dirmi quando morirò?

Marietta: Non lo so ma anche se lo sapessi non te lo direi mai, sarebbe la fine, un conto alla rovescia. Non un secondo in più, non un secondo in meno di quando Dio ha già stabilito.

Manuel: Cosa ti piace di più di me?

Marietta: La tua sensibilità disarmante.

Manuel: Quando ci sarà la fine del mondo?

Marietta: Non lo so ma anche se lo sapessi, non te lo direi.

Manuel: È peccato suicidarsi?

Marietta: Perché questa domanda? Mi fai paura. È uguale a uccidere. Non puoi fuggire dai tuoi tormenti con la morte, li ritroveresti nell’altra vita.

Manuel: Qual’è il più grave peccato?

Marietta: Ce ne sono tanti, forse l’odio. Con la preghiera e portando la croce si annullano. Serve la conversione del cuore per la redenzione.

Manuel: Dove sono adesso i grandi poeti del passato che magari avevano le mie stesse inquietudini, le mie stesse paure?

Marietta: Sono tutti vivi, stanno sperimentando la luce, hanno un’ispirazione molto più profonda e superiore a quella che possedevano sulla terra.

 

Ho narrato solo una minima parte delle conversazioni avute con Marietta. Il tempo in cui mi incontravo con lei è durato assiduamente per una quindicina di giorni, dagli ultimi di gennaio sino a metà del mese successivo nell’anno 1984. Il posto era sempre lo stesso, la parte più alta del cimitero. L’ora era sempre quella, dalle 9 del mattino sino a mezzogiorno.

Sostituivo praticamente la scuola col cimitero. Tutto questo ebbe fine, o stava per finire, quando Marietta, improvvisamente, decise di non apparirmi più lasciandomi per sempre ed io, in preda alla disperazione, cercavo di sapere da lei il motivo.

Riporto quest’ultimo dialogo proprio alla fine del racconto, considerandolo messaggio personale al lettore e vero significato di tutta la storia.

 

 

 

 

DIALOGO TRA MANUEL (IL VERO ME STESSO)

E MARIETTA

Manuel: Perché vuoi scomparire Marietta? Tu eri viva, esistevi davvero. Pure i fantasmi si allontanano da me.

Marietta: No Manuel, io non esisto più, non posso esistere, non posso vivere per colpa degli altri che non vogliono più farti sognare. Tu devi restare con i piedi per terra altrimenti verresti deriso da tutti, preso per pazzo. Devi convincerti che io sono il frutto della tua grande immaginazione, la proiezione del vero te stesso. Tu mi hai fatto rinascere dalla morte perché hai creduto con tutta la tua mente, con tutto il tuo cuore, alla forza di sognare che hai dentro di te. Io prima ti ero vicina, ti parlavo, ti capivo, ero reale perché tu ascoltavi la voce dei tuoi desideri, dei tuoi sogni. Ma adesso tu stai dubitando della tua immaginazione, non ascolti più il vero te stesso e mi stai facendo morire per sempre. Manuel perché non ascolti più la voce   del bambino che è in te? Non senti questo caldo agli occhi che vorrebbe essere pianto? Tu mi avevi creato, adesso perché vuoi distruggermi? Con me morirai anche tu, non ti ritroverai più, resterai solo, almeno io ti capivo perché ero lo specchio del vero te stesso, ero la tua libertà, la tua energia vitale, perché vuoi annientare tutto? Manuel non sono io che sto fuggendo da te ma sei tu che per sempre stai fuggendo da me. Ti prego resta te stesso, ascolta i tuoi sogni, non morire anche tu diventando uguale agli altri, tu sei diverso da loro. Quando si crede veramente ai sogni, niente diventa impossibile. Io ero morta e grazie a te sono rinata.

Manuel: Marietta, ma se per gli uomini è così importante sognare come mi stai dicendo tu, perché allora non ascoltano i loro sogni? perché se io provo a sognare mi emarginano?

Marietta: Tutto questo Manuel accade perché sognare è come essere liberi. Gli uomini sono nati liberi perché sono spiriti liberi, hanno avuto da Dio il dono della libertà e quindi hanno diritto di sognare ma, chissà perché, hanno paura della loro stessa libertà, non riescono ad essere se stessi e preferiscono chiudere le loro menti e così non sognano più. È per questo che nel mondo c’è odio, invidia, materialismo, c’è l’arroganza del potere, ci sono le guerre, perché è molto più facile comandare sulle menti chiuse che non credono più a niente e così si arriverà alla fine.

Manuel: Marietta, io sento che tu hai ragione. Io non voglio soffocare la mia mente, la mia libertà, la voglia di sognare, voglio restare me stesso ma come posso fare? Ormai vivo in un mondo chiuso che non sogna più. Se resterò me stesso, non mi capirà e non mi crederà nessuno. Cosa posso fare Marietta? Ti prego aiutami, cosa posso fare?

Marietta: Devi restare sempre te stesso Manuel. Vivi la tua libertà, dai ascolto ai tuoi sogni e non sarai mai solo. Saranno i tuoi stessi sogni a portarti lontano, a farti compagnia e poi ci sarò io con te perché sento che stai ricominciando a credere ed io non sto morendo più. Scrivi una storia, la storia di noi due, leggila a chiunque, bussa ad ogni porta. Non aver paura se ti prenderanno in giro perché ci sarò io a darti forza. Racconta di noi due al mondo intero, ai bambini, ai vecchi, non ha età la forza dell’immaginazione. Vedrai che qualcuno, in questo momento, sentendo la nostra storia, sta cominciando ad aprire la sua mente e a provare a volare finalmente, perché ci ha capiti, perché dentro è uguale a noi ed è bello poter essere capiti da qualcuno per quello che siamo realmente, è bello poter aiutare il nostro prossimo. Coraggio Manuel, dammi la mano e camminiamo insieme.

Manuel: Sì Marietta, camminiamo insieme.

 

 

 

 

Dopo vent’anni, l’altro giorno, sono tornato in quel posto. Ho rivisto le tombe abbandonate dell’Ottocento ma non mi hanno suscitato nessuna emozione. Sono stato anche sulla tomba di Marietta ma mi è sembrata anch’essa come tutte le altre, fredda e muta, non aveva più nulla da comunicarmi. Era come se la storia di questo libro fosse stata vissuta da un’altra persona e non da me.

Sono tornato a casa con la morte nel cuore e più solo di prima. Mi rendevo conto che mai più avrei potuto rivedere Marietta perché una ragazza di 16 anni non avrebbe più nulla da dire ad un uomo di 40 ma soprattutto perché con l’età adulta, assieme alla giovinezza, avevo perduto anche la mia ingenuità.

 

 

 

“Colei che brevemente fu

e che mai in vita conobbi”

 

è dedicato a Marietta Cianciolo

anche se non saprò mai se le piacerà.

 

 

 

Ringrazio tutti coloro che mi hanno pazientemente aiutato

nelle ricerche su argomentazioni utili al racconto

in particolare tutti gli addetti al servizio e alla custodia di biblioteche, uffici anagrafici, annali ed archivi storici.

 

Ringrazio mia madre per non avermi preso per pazzo nello scrivere il racconto.

 

Ringrazio infine il mio genio e la mia follia che mi hanno permesso di creare questo libro.

 

 

Claudio Cisco


in foto: l’autore Claudio Cisco da bambino

IL VECCHIO E LA RAGAZZA (Claudio Cisco)

“IL VECCHIO E LA RAGAZZA”

 

 

Un vecchio di 65 anni,

un’adolescente di 15.

Due età apparentemente distanti,

due vite che si svolgono parallelamente

nel cuore della Sicilia

ma sotto un unico triste denominatore:

la solitudine.

Ma il destino che sfugge ad ogni regola

li fa incontrare,

la natura che obbedisce alla legge vera dell’istinto

e non alla morale,

fa il resto.

I due si uniscono carnalmente e mentalmente

semplicemente perché ne sentono entrambi il bisogno.

Un libro scandalo

che si schiera contro la criminalizzazione del pensiero

e va oltre la sciocca e viscida censura,

presentandosi al lettore

come espressione più vera della libertà umana.                                                                                        

                                                                                      

“Ho sempre considerato lo scrivere come una confessione

       so di rischiare di essere messo al rogo

a causa di questa mia libera ed illimitata sincerità

ma sono altresì consapevole

di non potervi assolutamente rinunciare”

                                                                           CLAUDIO CISCO

 

…Mosè

Lo si riconosceva subito, distinguendolo tra un milione di persone, osservandolo da vicino così come da lontano, di fronte o di spalle; era unico, inconfondibile, inimitabile. Sì, era proprio lui, era impossibile sbagliarsi. Aveva appena compiuto 65 anni, una strana età un po’ per tutti, in cui si viene considerati anziani, da qualcuno addirittura già vecchi, anche se la vecchiaia, così come la giovinezza, non è necessariamente e del tutto riconducibile ad un dato anagrafico ma, il più delle volte, è espressione di un modo di essere, di sentirsi e di operare.

Si può essere vecchi e spenti perfino a 20 anni, mentre ci si può sentire giovani anche a 80. Insomma tutto è relativo, molti sono giovani di fuori e vecchi dentro e viceversa. Ma lui, i suoi anni, almeno esteticamente, li dimostrava tutti per intero, anzi qualcuno in più. Non curava minimamente il suo abbigliamento e tanto meno la sua figura ma si lasciava andare trascinandosi per com’era come chi si sente ricco per quello che possiede dentro e non per come potrebbe apparire di fuori. I suoi capelli erano bianchi, spettinati ed arruffati in qualunque istante della giornata come se si fosse alzato dal letto proprio in quel momento.

Non erano moltissimi ma non lasciavano trasparire alcun segno di calvizie malgrado l’età. La sua barba giaceva sempre lì, al suo posto, da sempre e per sempre, bianchissima come nuvola o zucchero filato o meglio ancora panna, quasi argentata, lo stesso identico colore dei capelli. Una barba incolta, anch’essa non curata, nel più completo abbandono, lasciata crescere così come capita, senza forma o stile, in perfetta paradossale armonia col resto della persona. Sembrava, quella barba, un orticello negletto, lasciato al suo destino, senza la mano amorevole d’un contadino o d’un giardiniere che lo coltivasse per riceverne in cambio i frutti. La sua faccia era rugosa ma non lasciava intravedere un’età senile troppo avanzata. Quelle sue rughe, partendo dalla fronte, si dipartivano in tutto il resto del viso alternandosi però a squarci di volto ancora lisci e quasi infantili come un albero già grande che mostra attaccati ai suoi rami, frutti maturi ed altri ancora acerbi. Un contrasto particolare di vecchiaia e giovinezza, di maturità e incoscienza, di saggezza ed infantilità insieme, che rendevano il viso di quell’anziano particolarmente ammirevole, splendente d’una luce capace di illuminare ed irradiare chiunque la osservasse. Una luce in grado di proiettare all’esterno il bambino mai cresciuto che aleggiava ancora dentro di lui, costretto a dimorare, suo malgrado, in un corpo non più infantile. Anche i suoi occhi non stonavano affatto con quell’armonia di impressioni. Ma anzi lo rendevano ancora più affascinante perché vispi, indagatori, attenti e profondi, di colore castano che volgeva timidamente al verde, dentro i quali, in età ormai lontana, una ragazza innamorata avrebbe potuto meravigliosamente specchiarsi, fino ad esserne completamente rapita, soggiogata, stregata. I suoi denti, a dispetto dell’età e del fumo delle sigarette, si mostravano ancora straordinariamente bianchi, d’una bianchezza simile a quella dell’avorio, erano rimasti intatti, del suo colore naturale, tali da far invidia ad un giovane. Persino le labbra sembravano virili, fresche e morbide come fossero ancora pronte a ricevere il bacio di un’amante. Era, visto nel suo complesso, il viso d’un uomo avanti con gli anni ma che dimostrava appieno la sua vitalità, quella vitalità che poteva essere presente in un giovane rivelando un inquieto e misterioso fascino.

Segnale d’una antica bellezza che, anche se sfiorita inevitabilmente col trascorrere del tempo, in un’età lontana, poteva benissimo essere stata viva e seducente, tale da riuscirsi a cogliere ancora adesso. Anche nell’espressione del suo sguardo, vi era qualcosa di magico, pareva quella di un giudice severo che stava per emettere una sentenza da un momento all’altro, ma al tempo stesso, cambiando d’atteggiamento, paradossalmente, dava l’impressione di essere uno sguardo rassicurante come quello di un padre nei riguardi del proprio figlio. Un modo di guardare vigile e intenso, contraddittorio a volte, fedele specchio, del resto, della sua persona senza certezze, sempre in bilico con se stesso, senza una strada ben precisa sulla quale muovere i propri passi o una meta già stabilita da raggiungere. Era la sua, la filosofia di vita di chi vive alla giornata, di chi non cancella in un sol colpo il suo passato ma non guarda nemmeno per un momento al suo futuro. Lui non programmava mai le sue scelte in prospettiva futura né si chiedeva cosa succederà domani, gli interessava soltanto cosa fare adesso, immerso solo ed esclusivamente nel suo presente, che era l’unica realtà che contava. Quella luce che, sia pure offuscata dagli anni, gli brillava ancora in viso, non era invece riscontrabile nel suo fisico che appariva invecchiato, appesantito con qualche chilo di troppo, specie nella pancia che si notava in tutta la sua rotondità. Tutto ciò veniva ancor più messo in evidenza, in negativo, dal suo modo di vestire che era assolutamente sciatto, totalmente trasandato e dimesso, pareva vestirsi con quello che capitava, il minimo indispensabile per non uscire svestiti. Era privo di ogni gusto estetico, a volte indossava sempre le stesse cose. Dava l’impressione di un barbone che non amava né l’ordine né la pulizia e che preferiva non curarsi abbandonandosi a se stesso e al proprio destino. Il suo nome di battesimo era Giovanni, non dirò il suo cognome non ritenendolo importante od opportuno nello svolgimento del racconto, ma tutti lo chiamavano col soprannome di Mosè, proprio per quel suo aspetto patriarcale, da profeta che richiamava, sia pur lontanamente, a quel famoso personaggio biblico che ricevette sul monte Sinai, i comandamenti da Dio. Quel nome gli era stato affibbiato da qualcuno tanti anni fa e, come spesso accade in simili circostanze, si era propagato subito di bocca in bocca, sino a sostituire quello vero a tal punto che da allora, per tutti lui si chiama Mosè e quasi nessuno, adesso, conosce più il suo vero nome.

 

… Fia

Un orsacchiotto di peluche piccolino con uno sguardo timido ed impaurito, seduto, appoggiato sul muro della sua cameretta. Una bambola grande e strana con un’espressione da far paura, inquietante e misteriosa, quasi fosse venuta dal nulla, con due occhi di ghiaccio e con addosso soltanto le mutandine, sembrava la bambola assassina, un po’ sadica e un po’ sexy. Un paio di posters attaccati al muro raffiguranti i volti di idoli musicali, belli come divi da fotoromanzi. Qualche strano disegno che mostrava tombe, cimiteri, sangue, atmosfere surreali ed indecifrabili, almeno a prima vista. Più sopra, in un angolo del muro, attaccato ad un chiodo, uno scheletro di gomma, color verde fosforescente, che penzolava ondeggiando qua e là, muovendosi più forte quando v’era una corrente d’aria ma che non incuteva molta paura, pareva appartenere ai cartoni animati più che ai films dell’orrore. E poi, sulla scrivania, un computer portatile nuovo con la relativa tastiera, dei libri, quaderni, parecchie foto in cornici col suo viso in diverse e svariate espressioni. Un astuccio aperto con dentro un sacco di penne e matite sparse qua e là, alcune delle quali per terra. Un televisorino piccolo ma di bell’aspetto col telecomando, un videoregistratore, dei cd, un cellulare e lì vicino uno stereo di dimensioni ridotte ma di valore, molto sofisticato e tecnologicamente avanzato. Continuando a girare con lo sguardo per quella cameretta di inequivocabile fisionomia giovanile, vi si poteva scorgere un lettino per una sola persona con delle lenzuola bianche lo stesso colore del cuscino ed una coperta più scura, molto leggera, abbassata sino a metà letto. Sopra vi erano vestiti d’ogni tipo e per ogni stagione, da notte e per uscire, molti dei quali sarebbero dovuti stare dentro l’armadio e non lì sopra. L’armadio vi era, ovviamente, in quella stanza ma si presentava con uno dei sportelli aperti che lasciavano vedere un’infinità di vestiti ed indumenti vari, uno sopra l’altro, così come capitava, alcuni arrotolati come fogli di carta straccia senza alcun ordine e la benché minima cura. Quella stanza, al primo sguardo, era il ritratto del disordine che regnava ovunque e in qualsiasi cosa. E lì dentro, davanti allo specchio più impolverato che lucido, vi era lei, bellissima con i suoi quindici anni compiuti da due mesi, lei che col suo aspetto annullava, come per magia, tutto il disordine che vi era intorno concentrando su di essa grazia, armonia, giovinezza. Prepotente, catturava quello sguardo indagatore che poco prima frugava fra le cose della sua stanzetta. Vi riusciva con la vitalità e la sensualità della sua età, rendendo lecito e giustificabile, tutto ciò che di sbagliato e di fuori posto vi era lì dentro. Lei ora rappresentava il centro, il motore, la parte principale di quella stanza come se tutto vi ruotasse intorno. Lei, l’adolescente, indiscussa protagonista, attrice, stella del firmamento, giovanissima dea nata per amare ma soprattutto per essere amata. Quell’ipotetica telecamera nascosta dentro la sua camera adolescenziale per spiare le sue cose, il suo mondo che io stesso era come se avessi piazzata, ora non poteva che soffermarsi su di lei mentre si guardava allo specchio, in quella mattina inoltrata d’agosto. Quando una ragazza o una donna in genere, si alza dal letto, senza trucco e tutta in disordine, mostra realmente il suo fascino o la sua bruttezza, senza inganni, senza maschere. È proprio in quel momento che appare come realmente è, come un’attrice dietro le quinte di un palcoscenico, finita la recita. Lei, la quindicenne, era bella e provocante anche in quel modo. Lunghi capelli neri lisci e lucenti le coprivano le spalle, delicatamente e con armonia come una giovane puledra con la sua criniera al vento che leggiadra, galoppa libera tra i campi, talmente viva e ammaliatrice da lasciarsi correre dietro mille stalloni. Apparivano spettinati quei capelli ma soltanto in fronte e sulla parte alta della testa, era un leggero disordine che anziché richiamare alla negligenza e alla noncuranza come tutta la sua stanza, riconduceva meravigliosamente ad una bellezza giovanile e precoce, ad una sensualità gitana, vibrante, animalesca e selvatica, ritratto di una creatura figlia della concupiscenza ma ricca di celestiali virtù, come angelo del diavolo. Vista da dietro mentre continuava a specchiarsi, pareva una giovanissima tigre che ruggisce ma anche una tenera gattina che fa le fusa. Tutte sensazioni contrastanti che, agli occhi di chiunque la spiasse, penetravano come una lama appuntita nella carne lasciando un brivido sulla pelle, come il ghiaccio sulle foglie che, sciogliendosi, lascia gli alberi a tremare. Ma queste vivide e laceranti sensazioni, potevano essere avvertite e decifrate, soltanto da chi possiede l’arte nel sangue, nel proprio Dna, da chi ha innato dentro quell’erotismo prorompente ed inarrestabile che porta a guardare una donna, in questo caso una ragazza, con gli occhi della magia e del desiderio. Desiderio che non nasce dal peccato come vorrebbero farci credere, ma dal candore dell’innocenza che spruzza sensualità da tutti i pori. Tutta questa autentica forza della natura, può offrirla solo la giovinezza che fiorisce, l’adolescenza che rapisce e trasporta con sé in mondi inesplorati e che non è mai sinonimo di volgarità ma sempre espressione di felicità, gioia, paradiso terreno. Cosa c’è di più bello su questa terra e forse anche in cielo, dell’ammirare un giovane corpo d’adolescente che è arte, armonia, bellezza, piacere? È l’essenza stessa della vita, il vero motivo per cui vale la pena vivere.

 

 

… Mosè

Le chiacchiere della gente, sempre pronte a ficcare il naso e a giudicare i fatti degli altri, nascondendo quelli propri, dicevano che fosse di origine nobile, qualcuno sosteneva anche che fosse stato addirittura un conte e che avesse vissuto in un castello pieno di ricchezze ereditate da lontani avi benestanti. Dicevano anche che poi, per sua libera scelta, avesse rinunciato a tutto decidendo di vivere in assoluta libertà e povertà, campando di espedienti ed elemosine, aiutandosi con qualche lavoretto saltuario. Le male lingue dicevano ancora che non fosse stato mai sposato, ma sulla sua vita sentimentale, vigeva il più assoluto e totale mistero. Chissà se ha mai conosciuto l’amore o se ha vissuto anche da giovane sempre solo! Chissà quante donne ha corteggiato e quante hanno ricambiato questo interessamento! Certo è che, guardandolo adesso, dà l’impressione di essere talmente abituato alla solitudine, da non aver bisogno di niente e di nessuno. Sembra in perfetta armonia con se stesso, come chi gusta appieno la propria libertà che rappresenta l’unica vera ricchezza, quella d’un uomo che non è mai sceso a compromessi con la società troppo spesso bigotta e perbenista. Ai miraggi dei soldi e della posizione sociale, lui ha saputo preferire la bellezza e la poesia d’una vita viva e vera, colma di interiorità, di profondità, quasi da artista o eremita, fuori da ogni schema. Del resto, non sempre un uomo sente il bisogno di confrontarsi o di integrarsi con la società, spesso ci si può sentire soli pure in mezzo a milioni di persone, perché non si è capiti o compresi o si viene ignorati del tutto. Lui, Mosè, tutto questo lo sapeva bene perché l’aveva sperimentato su se stesso, e aveva scelto quel suo stile di vita, in ogni caso da rispettare, come un angelo caduto su questa terra che come sola compagnia, aveva lui stesso, l’unico che lo conosceva bene e, per questo, non poteva mai tradirlo. Trovava assolutamente normale parlare con sé e rispondersi da solo. E in quelle rarissime volte in cui gli sembrava che non si ascoltasse, si rivolgeva a quella natura che i credenti chiamano Dio, unica consolatrice, confidente di anime solitarie che, non potendo o volendo esternare il proprio amore su altre persone, lo riversano per intero su di essa, guardandola con gli occhi dell’amante. Il terzo ed ultimo confidente dopo se stesso e la natura, era rappresentato dal suo quaderno che utilizzava quasi come una sorta di diario nel quale aprirsi come in confessione. Mosè scriveva spesso su quei fogli di carta, scriveva tanto, specie quando ne aveva voglia o ne sentiva il bisogno. Annotava tutto ciò che gli passava per la testa: pensieri, emozioni, considerazioni, commenti. Lì buttava giù così, senz’ordine e senza data, come li sentiva dentro e in maniera istintiva. A volte scriveva anche testi di canzoni napoletane classiche: Reginella, Marinariello, Torna a Surriento e tante altre ancora, un genere che lui adorava e che suonava spesso con la chitarra o ascoltava alla radio. Non conosceva bene le note musicali ma nonostante questo era capace di suonare molto bene ad orecchio e, spesso, anche ad improvvisare canzoni inedite da lui stesso create. Aveva l’anima d’artista, e come poteva non essere così per un uomo come lui e con la vita che conduceva? Era bravissimo anche a scrivere commedie teatrali usando un linguaggio squisitissimo, ironico e pungente nello stesso frangente. Peccato che nessuno l’abbia mai preso in considerazione, riconoscendogli il giusto merito. Perché Mosè, di talento, ne aveva da vendere e ne aveva davvero tantissimo ma l’attenzione che i cosiddetti critici d’arte gli rivolgevano, era praticamente offuscata da quel suo modo trasandato di presentarsi che, agli occhi di chi giudica solo per come uno appare, non meritava considerazione alcuna. E chissà quanti altri talenti nascosti, quante anime artistiche sconosciute che ci sono in circolazione, restano in ombra. Un autentico spreco di talenti, di arte, di emozioni che non possono comunicare e che rimangono inespressi, morendo, ripiegandosi su se stessi. È una miniera di ricchezza che si perde! Mosè sapeva fare un po’ di tutto in campo artistico. Era bravo e portato anche a recitare. Era nato per fare l’attore, sapeva stare in scena. Aveva quella tipica mimica, quelle mosse, studiate e involontarie, che sanno fare i bravi attori senza distinzione fra teatro e vita, proprio come lui. Vi è una foto che lo ritrae con un cappello in testa in una tipica espressione teatrale. È un’immagine bellissima che meriterebbe d’essere scolpita o trasferita in un quadro, ritrae perfettamente la sua inclinazione all’arte in genere.

 

 

… Fia

Ora la ragazza afferra un pettine e prova a schiacciare verso il basso, aiutandosi con la mano, quei suoi capelli alzati in aria come cresta di gallo, dopo una notte di sonno. Ma non ve ne era proprio bisogno. A quindici anni si è belli sempre e comunque, specie se si è come lei. Ora guardava se stessa allo specchio come se si trattasse di un’altra persona, di un’amica, di una coetanea ma non si giudicava, ormai sapeva benissimo da sempre, di essere desiderabile ed attraente e ne era felice, ne andava orgogliosa come il pavone quando si muove con tutte le proprie grazie. I suoi occhi neri, penetranti, ancora addormentati come chi si è svegliata da poco senza neanche sciacquarsi la faccia per svegliarsi del tutto, si presentavano lucidi e dilatati e in quell’attimo, non sembravano quelli di una ragazzina che osserva curiosa la vita con l’ingenuità disarmante dell’età, ma piuttosto davano l’impressione di essere quelli di una donna matura ed esperta, che li apre dopo una infinità di orgasmi assaporati tutti in un’unica notte. Senza l’ombra del trucco, senza maschere di fondotinta, senza il rossetto che brilla sulle labbra, lei appariva ancora più giovane dei suoi quindici anni, più piccola che mai e, per questo, più seducente, più maliziosa.

Quando la natura decide di regalare ad un’adolescente la bellezza, questa esce fuori sempre, con o senza trucco che può eventualmente servire, solo per trasformare la piccola ingenua bambina in una giovane donna creata per l’amore, ma nel primo come nel secondo caso, è la giovinezza che trionfa unita alla bellezza e al desiderio. Ora la ragazza apre un po’ di più gli occhi, poi leggermente anche le labbra facendo uscire fuori ma solo per un attimo ritraendola immediatamente, la punta della sua lingua che, come una susina ancor acerba o una piccola anguilla, sarebbe stata capace, contro ogni moralità, di risvegliare persino gli istinti repressi d’un prete. Le sue labbra violacee, carnose e infantili al tempo stesso, erano talmente seducenti che anche lo specchio pareva diventare vivo come volesse avvicinarsi per unirsi a lei, e quel desiderio sarebbe stato lo stesso di chiunque si fosse trovato lì in quel momento ad osservarla di nascosto.

Forse avrebbe venduto per l’eternità l’anima al diavolo in cambio di una frazione di secondo nella quale poter appoggiare le sue labbra a quelle della ragazza. Del resto, quelle sensazioni che avrebbe provato in quell’istante, paradisiache, sarebbero valse assai di più delle sofferenze eterne dell’inferno. Ed io mi chiedo, a tal proposito, il motivo per il quale molti giovani siano tristi e insoddisfatti. Non riesco proprio a comprendere perché cerchino piaceri artificiali nella droga, nell’alcool, nel ritmo assordante d’una discoteca o nel rombo d’un motore da corsa. Ma perché non provano invece, loro ai quali l’età ancora lo consente, a baciare le labbra di una bella ragazza? Ma esiste al mondo forse, una droga o un paradiso più bello? più naturale? Non solo non fa per niente male ma ha anche il potere di elevare l’anima e il corpo, fin quasi a rendere immortali. E ancora mi rendo conto di quanta stupidità vi sia nella vita di clausura, nella castità, nella rinuncia ai piaceri del sesso e dell’amore per godere poi di una ricompensa in una ipotetica vita futura. Ma esiste una grazia o una gioia più pronta ed immediata del bacio di una quindicenne? È questo il paradiso, è già qui su questa terra, a portata di mano, non ne servono altri, non c’è alcun bisogno di cercarlo altrove o in altri mondi. È la sensazione che si proverebbe, non è forse un dono di Dio per arricchire i sensi e l’anima? Ma ecco che ora, sempre davanti allo specchio, l’unico fortunato al quale è concesso di ammirare le sue grazie, la ragazza sbadiglia una volta, poi una seconda ancora, allargando le braccia sia a destra sia a sinistra, portando avanti il petto, mostrando in tutta evidenza due seni adolescenziali ma già abbastanza formati, bellissimi che, anche se coperti dalla camicetta del pigiama, come due piccoli vulcani, sembrano rappresentare la creazione più bella di chi ha inventato il corpo d’un’adolescente, il più grande capolavoro artistico di tutti i tempi fatto da uno scultore, la parte più importante del quadro d’un pittore. Se qualcuno presentandosi lì in quel momento esatto, avesse avuto la fortuna e il tormento di osservarla in quel gesto e avesse avuto poi il permesso di palpare quei seni, riterrebbe la propria vita completa, poteva anche morire ormai, il destino non avrebbe potuto mai e poi mai riservargli gioie e sensazioni più forti di quelle già provate in quell’attimo. La ragazzina intanto sembrava essersi svegliata completamente, si tirava i capelli in su con le mani, faceva smorfie allo specchio come in un film muto, si abbracciava da sé, si piaceva. Quel viso un po’ da bambina, faceva già presagire la bellezza che avrebbe poi avuto da donna. Poi si alza di scatto dalla sedia e girando improvvisamente le spalle allo specchio come per dispetto, si guarda il suo sedere che, anche se coperto dal pantalone del pigiama color azzurro con palline bianche, le si mostrava perfettamente sodo e armonioso malgrado la giovane età. Anche quella parte del suo corpo, come ogni altra del resto, era perfetta e senza alcun difetto, pareva più forte di una calamita capace di attirare su di essa mille mani. Poi la ragazza smette di guardarsi, un’abitudine e un vanto che usava fare tutte le mattine, e poteva permetterselo data la sua bellezza, e comincia a guardarsi in giro rapidamente, osservando il solito inconfondibile disordine di sempre al quale era ormai abituata, anzi le sarebbe sembrato strano il contrario, e senza smuovere un dito per mettere a posto la benché minima cosa di là dentro, si sdraia a peso morto di colpo sul suo lettino con la faccia in su e gli occhi rivolti al soffitto, al posto del quale, a quell’età, si vede il cielo.

Rimane così immobile a pensare a tutto o forse a niente. È difficile entrare nei pensieri d’un’adolescente, soprattutto mentre la si osserva in quell’espressione. Non può farlo nessun bravo scrittore, non posso farlo nemmeno io. Quella ragazza così sconvolgente si chiamava Fia. Il suo nome di battesimo era Sofia ma a lei non è mai piaciuto scritto in quel modo, le sembrava la capitale della Bulgaria.

Avrebbe voluto chiamarsi Sophia semmai con la ph al posto della f. Ma, visto che non le era stato possibile, decise di farsi chiamare col diminutivo di Fia. Tutti i suoi amici e le amiche cominciarono a chiamarla così, e poi anche i suoi genitori si abituarono a farlo. Così per tutti, ormai lei era Fia.

 

 


… Mosè

Abitava ad Enna, una piccola e tranquilla, si fa per dire, cittadina siciliana, quasi un paese per il numero di abitanti, 28.000 circa, posta a quasi mille metri di altezza su un ripiano dei monti Erei. È un centro agricolo e minerario che si estende con pittoresche viuzze su una terrazza che domina l’alta valle del fiume Dittaino, sul ciglio del quale si ergono il Duomo e il Castello di Lombardia, uno dei più imponenti della Sicilia, con elementi costruttivi bizantini, normanni e svevi. Fu Enna un antico villaggio siculo e colonia greca che nel corso della storia passò dal dominio dei cartaginesi a quello dei romani per poi divenire una importante fortezza del Medioevo. Si trovò in quel periodo sotto diverse mani, dai bizantini, agli arabi, dai normanni, agli svevi, poi agli aragonesi. Oggi, in quella città, ci si conosce quasi tutti come fosse un paese e le chiacchiere della gente sono diventate pane quotidiano. Non avendo molto da fare, si mormora, si spettegola spesso in buona fede o a fin di bene, ci si interessa dei fatti altrui molto più che dei propri. Così un segreto che avrebbe dovuto rimanere tale, finisce presto per passare di bocca in bocca, con notizie aggiunte o insinuazioni fantasiose che, via via che lo si racconta, modificano del tutto il contenuto, fino a diventare un fatto di dominio pubblico che non sempre coincide col vero. Del resto, la città offre ben poco per potersi distrarre senza pensare alle cose del vicino. Niente locali di intrattenimento, niente discoteche per chiunque ami ballare, niente associazioni o aggregazioni culturali, neanche lo sport e specialmente il calcio, riesce a sopravvivere in quella città. A tutto questo, va aggiunta una disoccupazione elevatissima che non riguarda solo Enna ma tutta la Sicilia e gran parte del meridione. Così a molti giovani, finite le scuole, non rimane che emigrare in cerca di occupazione, al nord soprattutto. La città, la più alta d’Italia dal livello del mare e invece giù in basso in tutto il resto. Ma la sua gente sa anche essere ospitale, generosa, disponibile e altruista come tutta la gente della Sicilia e del sud d’Italia che si mostra solare in armonia col suo stesso clima.

Ma Mosè era, diciamo così, un figlio adottivo di quella città. Non era nato lì ma vi si era trasferito da più di dieci anni ed era diventato uno del luogo ormai. Aveva vissuto per oltre mezzo secolo a Roma, la sua città natale e della capitale conservava ancora l’accento. Poi, per una serie di strane circostanze che in pochissimi conoscono, il destino lo portò definitivamente in Sicilia, proprio ad Enna, nel cuore dell’isola. In città ma anche nei paesini limitrofi, lo conoscevano quasi tutti. Lo salutavano in tanti ogni qual volta lo si incontrava per strada e lui si fermava volentieri a parlare con ognuno di loro. Aveva molti amici di qualunque età o estrazione sociale. Era amico dei bambini, dei ragazzi, di uomini e donne, di anziani, di tutti insomma. Certamente quasi nessuno condivideva ed approvava quel suo stile di vita quasi da randagio e da barbone, tipico di chi affida alla strada la propria dimora senza un porto sicuro, senza famiglia. Nessuno poteva giustificare quel suo modo di vestire completamente trasandato che lo rendeva simile ad un poveraccio, a metà tra un mendicante e uno zingaro. Ma lui era felice e si realizzava così. Era sereno, si sentiva libero come un gatto che non ha padroni, al di fuori di una società che mostra una faccia perbenista davanti e poi, di nascosto, rivela una doppia vita piena di fango e perversione, prostituta, figlia del denaro, della competizione commerciale ed economica, dei facili guadagni. Mosè aveva uno spirito libero, due occhi rimasti da bambino che osservavano il mondo come fosse un nuovo giocattolo da esplorare. I compromessi di una società che plagia tutti piegandoli al proprio volere, no, non facevano per lui. Aveva una mente troppo elevata ed un cuore troppo nobile per rinchiudersi in una gabbia fatta di regole comportamentali, dogmi assurdi e pseudoculture. Niente massificazioni, niente opportunismo, niente convenienze. Lui aveva scelto di vivere libero, prendendo solo ciò che una giornata poteva offrirgli e niente di più.

 

 

 

… Fia

Era stata adottata Fia da quando aveva solo pochi mesi. I suoi veri genitori non li aveva mai conosciuti né voleva conoscerli. Non sapeva neanche se esistessero ancora o il motivo per il quale l’avessero abbandonata. Non aveva proprio la curiosità di saperlo; non li odiava, Fia non sapeva odiare, nei loro confronti era solo indifferente. Li aveva cancellati e basta, così come forse loro avevano fatto con lei quando era nata.

Li aveva sostituiti con i genitori adottivi che, a modo suo, voleva bene ed amava più di ogni altra cosa al mondo, considerandoli come genitori naturali. Suo padre, Adolfo, 60 anni appena compiuti, un signore distinto, d’aspetto ancora gradevole, con una discreta posizione sociale, era proprietario di una farmacia. Voleva bene alla figlia tanto da non averle mai fatto mancare nulla, assecondando quando poteva farlo, tutte le sue richieste. Non era tuttavia una generosità insita nella sua stessa natura. Il suo modo di essere e di comportarsi infatti, anche nei confronti della moglie, si mostrava poco incline ad indulgere in atteggiamenti sentimentali o espansivi. Quest’ultima, Teresa, di cinque anni più piccola di lui, era una signora anche di bell’aspetto, con una spiccata vocazione altruistica e conseguentemente molto predisposta verso la figlia, alla quale voleva un bene immenso. L’aveva considerata da sempre come figlia naturale, amandola come fosse stata lei a partorirla.

Non poteva avere figli e per questo l’aveva adottata e quella bambina divenne subito il suo motivo di vita, la concentrazione di tutte le sue aspirazioni e dei suoi sogni. Fia lo sapeva bene, lo aveva sperimentato e ne ricambiava l’amore con fiducia. La madre era la sua consigliera, le nascondeva poco o nulla, le rivelava tutto e subito. Avevano due caratteri simili, come fossero davvero madre e figlia. Le uniche ma sostanziali differenze consistevano solo in una certa modernità di vedute che aveva la figlia rispetto alla madre. Tanto che bonariamente e con un sorriso sulle labbra, Fia le diceva spesso: “Sei troppo all’antica, mamma, aggiornati un po’!”. Ma tutto questo rientrava nella norma, faceva parte del solito e scontato conflitto generazionale tra genitori e figli. Comunque se Fia aveva un problema, era sempre la mamma a saperlo per prima. Nonostante il diploma di Maestra di scuola, aveva preferito abbandonare l’idea del lavoro d’insegnante per non doversi spostare troppo e altrove per supplenze. Ritenne più utile dedicarsi alla casa, al marito e alla figlia. Fra l’altro, il lavoro del marito, fruttava una discreta sicurezza economica che risultava più che sufficiente per vivere bene. La vita, in quel paese alla periferia di Enna, Leonforte, non era per niente cara, e con quel guadagno si poteva andare avanti dignitosamente.

Solo ogni tanto, saltuariamente, effettuava delle lezioni private in casa a qualche bambino di scuole elementari. Ma lo faceva più per la passione di insegnare e di rendersi utile ai bambini che per una vera e propria necessità economica. Era nel suo complesso, una famiglia tranquilla come tante altre. Il marito lavorava, la madre faceva la casalinga, la figlia andava a scuola, la tipica famigliola italiana insomma, del sud meglio ancora dove, sia pur con qualche piccola giustificabile incomprensione, ci si andava d’accordo e d’amore gli uni con gli altri. Ovviamente la chiusa e ristretta mentalità di paese nel quale la famiglia viveva, finiva inevitabilmente per condizionare il modo di pensare e di agire soprattutto dei genitori che unita ad una forte ispirazione cattolica ereditata da secoli, non li rendeva immuni da pregiudizi d’ogni tipo. È Leonforte, il paesino in questione, un paesino vicino Enna, situato a circa 500 metri d’altezza, sulle prime pendici dei Monti Nebrodi, che vive principalmente di attività agricola e mineraria e che non ha più di 17 mila anime, dove tutti si conoscono e non succede mai nulla che non si sappia in giro. Non c’è niente di veramente importante degno di essere menzionato parlando di quel paese. Forse un palazzo baronale, relativamente antico ma nulla di più. Se qualcuno per ipotesi, da Milano, Roma o da qualsiasi altra città di una certa grandezza, venisse a stare a Leonforte, tenterebbe subito di scappare, non si adatterebbe mai alla noia, lo considererebbe un buco fuori dal mondo. Eppure, paradossalmente, tanta gente di quel paesino, emigrata per necessità lontano a cercare fortuna, ogni qualvolta che per le ferie si trovi a tornare a casa, non può nascondere le lacrime e una forte emozione. Non si è mai contenti nella vita, si cerca sempre di più e poi ci si ritrova più infelici di prima a rimpiangere quel poco che si aveva e che forse aveva più valore. Vi era però Enna vicino, dove molti giovani si recavano specie per andare a scuola, come la stessa Fia del resto, ma questa città in fondo era solo un paese più grande e non è che poi ci fosse molta differenza.

Spesso i giovani, nei fine settimana, si organizzavano in gruppetti per andare a Catania o a Palermo che offrivano molti più divertimenti e che parevano autentiche metropoli in confronto a quei luoghi. Gli anziani invece erano felici di abitarci, beati loro! Lì erano nati e lì volevano morire. Per loro Leonforte era l’America, la luna, l’universo intero e non esisteva altro. Erano piantati, radicati lì e nessuno poteva più smuoverli ormai. Avevano in quella terra le radici, vivevano delle loro abitudini, con la loro mentalità, sempre uguale, monotona ed era un delitto soltanto il pensare di poterla cambiare. Certe realtà in un mondo che oggi si evolve ad una velocità incredibile, vanno viste, sperimentate sul luogo, risulta difficile poterle descrivere o spiegare. Per loro rimasti contadini come tantissimi anni fa, contava solo la terra e il loro mondo, come se il tempo si fosse fermato ora e per sempre. Io, scrittore messinese, fortemente attaccato alla mia città, alla mia gente, alla mia terra con le sue bellezze e tradizioni, alla mia Sicilia, considero quei posti che sto narrando nel libro, come casa mia e li voglio bene, ma non posso non essere obiettivo nel mio racconto.

Ho sempre considerato lo scrivere come una confessione oltre che una passione. Io sono vero nella vita, così come lo sono nei miei libri. Quelle realtà, in quei luoghi e in tanti altri della Sicilia e non solo, esistono ancora ed è giusto metterle in luce. Ma non voglio giudicarle, non è nel mio stile, nella mia filosofia di vita. Bisogna sempre e comunque rispettare il loro modo di vivere e la loro mentalità. Quelle persone stanno bene così ve lo assicuro e chissà se il loro modo di essere è più vero e genuino del nostro! La piccola Fia, però, non stava per niente bene in quel paese. Amava i suoi genitori ma non sopportava quell’ambiente piccolo e ristretto dove ci si sentiva continuamente spiati e pareva di respirare accanto l’alito del vicino. Fia soffriva maledettamente per tutto questo. Si sentiva chiusa in gabbia con le ali tagliate, un pesce fuor d’acqua. Si sentiva moderna, anticonformista e in un certo senso ribelle. “Forse ne ho preso dalla mia vera madre”, pensava, “ma non lo saprò mai” e non le importava proprio di saperlo. “Ma quando compirò 18 anni, e non vedo l’ora, me ne andrò via di corsa da questo schifo di paese, mi dispiace allontanarmi dai miei genitori ma devo farlo, sì, devo farlo, è la mia vita e devo viverla come merita. Non voglio più vedere questo paese zotico e bigotto. Me ne andrò a Catania, a Palermo, già è un’altra cosa, Ma no, no! sempre Sicilia è. Andrò molto più lontano, a Roma, Milano, Torino, in una grande metropoli dove si può vivere in pace, ci si può divertire, conoscere tanta gente senza vedere le stesse vecchie facce che ti giudicano continuamente. Lì non ti conoscono tutti come accade qui. Mi troverò un lavoro e se diventerò ricca me ne andrò lontanissimo in America, in Australia, sulla luna, anche su Marte ma qui non tornerò più, questo paese non voglio più vederlo neanche col binocolo o in fotografia. Ma adesso che ho ancora quindici anni che faccio? Qui non c’è mai niente da fare. Io non mi diverto mai, non mi sono mai divertita. Ma che male ho fatto per nascere qui? forse sarebbe stato meglio in Africa o non essere mai nata. Sto buttando via i miei anni più belli, chiusa in casa, che spreco! La mia bellezza, la mia adolescenza passeranno in fretta lo so, e non torneranno mai più.

 

 

 

… Mosè

Spesso lo si vedeva nei pressi dei cassonetti della spazzatura per racimolare qualche cibo scaduto che lui mangiava lo stesso, oppure vicino un supermercato dove gli venivano dati degli alimenti non più buoni per essere venduti, tanto lui metteva in pancia tutto quello che trovava, la fame è una brutta compagna che fa fare anche azioni che non vorresti mai fare. “A me non fa mai male niente”, diceva a tutti giustificandosi, “la mia pancia è un serbatoio abituato a tutto anche alle cose scadute, sono abituato, le digerisco bene e poi sono buone lo stesso”.

Aveva il vizio, come tanti, di fumare e lo faceva a volte senza controllo, anche un pacchetto intero in poche ore. Non ho mai potuto capire perché lo Stato sostiene a parole di tutelare la salute dei suoi cittadini e poi, con i fatti, semina morte mettendo in circolazione simili veleni e lucrandoci sopra. E il paradosso è che disegna la morte nel pacchetto che vende. A questo punto perché non lascia che uno si droghi tranquillamente o che un ragazzo vada in motorino senza casco? Non si può difendere la salute a convenienza. Ma, pur sforzandomi, non riesco a trovare nulla di quello che la legge impone, che abbia un senso. Ma oltre a fumare, Mosè amava anche bere soprattutto birra. Spesso lo si vedeva per terra seduto, accanto al suo inseparabile motorino, con almeno 6, 7 bottiglie di birra vuote. Se le era scolate in poco tempo una dopo l’altra e persino a stomaco vuoto. “Non preoccupatevi per me”, diceva a tutti, “io non mi ubriaco mai, le tollero bene, è come acqua fresca” e continuava a bere senza sosta in modo che non restasse alcuna bottiglia piena superstite. Ma in realtà, il suo modo di parlare e comportarsi, subito dopo aver bevuto, dimostrava esattamente il contrario. Un giorno, un bambino polacco di carnagione rossiccia e lentigginoso in viso di circa dodici anni, gli portò una scodella con della pasta mista a fagioli dicendogli: “Tieni Mosè, te la manda mia madre, dalla al gatto!” Lui sorpreso e un po’ arrabbiato rispose: “Al gatto? Ma questi son buoni, li mangio io, altro che gatto” mentre li odorava con gusto. E il bambino ancora più sorpreso di lui continuava a dirgli: “Ma sono passati, scaduti da almeno una settimana!” Mosè ancora più adirato rispose di nuovo: “Li mangio io e basta, al gatto do le scatolette per gatti”. Al bambino, deluso, non restò che andarsene.

Nessuno sa se Mosè avesse mai lavorato una volta in tutta la sua vita passata, ma di certo è che non aveva nessun tipo di lavoro fisso. Ogni tanto gli capitava qualcosa ma saltuariamente e quasi sempre di breve durata. Aveva fatto il guardiano d’una villetta, un po’ di pulizie in vari posti ma null’altro di importante anche se ogni tipo di lavoro è degno di considerazione e rispetto se fatto con onestà e lui di onestà ne aveva da vendere. Da circa un anno però, gli era stata offerta un’occupazione più continuativa, diciamo fissa, pur sempre precaria.

Prestava lavoro infatti nella più grande chiesa della città di Enna, la parrocchia di San Raffaele che raccoglieva un grandissimo numero di fedeli, tutti benestanti, che appartenevano alla parte cosiddetta bene della città e dei paesi vicini.

Fra costoro, vi erano dottori, insegnanti, giornalisti, avvocati, giudici. Il parroco della chiesa, si presentava come un uomo di buon aspetto, giovanile, sulla quarantina d’anni, forse qualcuno di più, si chiamava padre Santino. La cosa che più spiccava in lui erano dei particolari occhialini, tipo Ottocento, da intellettuale, che lo facevano assomigliare più ad un anarchico di estrema sinistra che a un prelato nel pieno della sua missione. Lo si vedeva sempre circondato da donne, da signore, alcune delle quali molto avvenenti. Vi lascio immaginare le chiacchiere che si udivano in giro e in tutta la parrocchia. Si erano propagate per tutta Enna e persino in provincia. Quella gente non aspettava altro. Doveva passarsi il tempo parlando dei fatti degli altri, e una notizia bomba come questa non poteva certo passare inosservata. Diciamo che padre Santino, credo involontariamente, aveva offerto loro il pretesto giusto per far scoppiare un incendio. “Sì, sì, ti dico che l’ho visto mentre toccava il seno prosperoso della signora X. Io l’ho visto anche a letto con la signora Y dentro la chiesa stessa”. Se ne dicevano di tutti i colori, di tutto e di più. Tutto è partito dalla parrocchia stessa, dagli stessi fedeli che facevano una faccia davanti al prete ed un’altra nascosta alle spalle. E pensare che in chiesa si dovrebbe andare a pregare e invece si cade in queste bassezze. Ecco cari lettori, cosa succede nelle parrocchie, non in tutte per carità, ma forse nella maggioranza di esse. Io non voglio sindacare su quanto si dicesse intorno a quel prete, forse non era vero nulla, non credo comunque possa interessare al lettore, figuriamoci a me. Una cosa volevo però scrivervi e prendetela solo come una mia opinione che può o meno essere condivisa.

Oggi un prete lo si vede vestito più con abiti normali che con quelli religiosi. Ho visto molti di loro che tutto sembrano tranne che preti. A questo punto perché non farli sposare? Non credo che l’amore di Dio debba necessariamente essere esclusivo. Lo si può amare e servire benissimo, pur amando la propria donna. A chi giova la castità? L’unica vera perversione è proprio la castità secondo me. E se le donne sono uguali agli uomini perché non possono dire la messa o diventare persino papa? Vedete cari lettori, se le leggi dello Stato sono senza significato, quelle imposte dal Vaticano sono addirittura incomprensibili, secondo me, ovviamente. Vi giuro che anch’io mi sto sorprendendo di me stesso per avervi narrato le chiacchiere sulle presunte donne del prete, e non aver invece sorvolato su un argomento così frivolo, drammaticamente ridicolo e senza senso. Piuttosto quello che volevo scrivervi di più importante consiste nel fatto che tutti i parrocchiani della chiesa di San Raffaele, volevano bene e rispettavano Mosè, considerandolo come un loro figliol prodigo, come una pecorella, o caprone in questo senso, smarrita. L’impressione che si aveva è che fosse visto quasi come un figlio del Signore mandato dalla Provvidenza divina apposta in quella chiesa, affinché tutti potessero elargirgli beneficenza. E così, cominciarono tutti a regalargli beni di ogni tipo. Dal genere alimentare: pasta anche integrale, pomodoro, pacchi di caffè, zucchero, sale, latte, acqua; al genere d’abbigliamento: camicie nuovissime di marca e firmate ancora impacchettate, giacche, giubbotti, scarpe, pantaloni, maglie di lana e persino qualche slip. Poi si passava all’utensileria: pentole, batterie da cucina, bicchieri, e poi ancora asciugamani, saponette, lamette e schiuma da barba e persino rotoli di carta igienica. Insomma di tutto e di più. Era più fornito lui che un intero supermarket. L’assurdità stava nel fatto che lui, di tutto questo ben di Dio, non ne faceva uso e questa roba giaceva inutilizzata mentre lui continuava a mangiare cose scadute e a vestirsi malissimo, con i soliti indumenti di sempre. Nella vita, non bisogna giudicare o cercare di cambiare a tutti i costi una persona diversa da noi, se la si rispetta veramente, è importante accettarla così com’è. Mosè comunque ringraziava tutti per i regali ricevuti pur sapendo che non li avrebbe mai utilizzati e più volte aveva fatto loro presente di non volere più nulla perché tanto non li avrebbe adoperati.

I fedeli, testardi, gliene portavano ancora di più. “Ma cosa devo fare io con tutta questa roba? Va a finire che la butto, la regalo, tanto non uso niente”, pensava sotto sotto, tra sé, lui. Ma la vera comicità consisteva nel fatto che Mosè era convinto che quei regali non fossero il frutto d’una spontanea generosità ma di una evidente vanità. “Me li regalano solo per farsi vedere dal parroco e per farsi belli davanti agli altri parrocchiani, lo fanno per mettersi in mostra, per farsi vedere che fanno del bene, la loro è vanità e non carità”. Mosè pensava questo e forse non aveva tutti i torti perché molti di loro, dopo avergli regalato qualcosa, andavano subito dal padre dicendogli con una certa vanteria e soddisfazione “Ha visto padre quante cose ho regalato a Mosè? Pensa che lui le usi?” Mentre allo stesso interessato non chiedevano mai in privato se avesse gradito i regali ma solo ed esclusivamente in presenza di altri fedeli. “Mosè ti stava bene la camicia che ti ho dato? Perché non l’hai messa? E le mutande? Erano la tua misura? Le hai indossate?”. La vera beneficenza, cari lettori, la si fa con amore, in silenzio, senza far rumore, senza mai rinfacciarla di averla fatta o parlandone con qualcun altro. Invece loro, i parrocchiani di quella chiesa, erano arrivati al punto di fare a gara fra chi avesse regalato più cose. Capisco che questo mio libro può, in certi momenti, apparire scostante fino ad urtare la suscettibilità di qualche lettore, so anche che non si può generalizzare e che non tutti i fedeli d’una chiesa ragionano così, ma io mi sono limitato a dirvi quello che ho realmente constatato. Sto raccontando una verità e non sto giudicando. Giudicare è una parola che non conosco nel mio vocabolario e che lascio ai giudici d’un tribunale, e se in qualche circostanza può sembrare che lo faccia, vi assicuro che quello è solo il mio pensiero, e mia sia consentito, almeno quello. La verità è che soltanto nell’arte, di notte quando tutti dormono, uno spirito libero può uscire manifestando la propria diversità, come un alieno venuto da chissà quale mondo. Se venisse scoperto, verrebbe fatto fuori e forse anche ucciso nell’anima. Bisogna lasciare dormire tranquillamente la gente: guai a chi provasse a risvegliarla! Quando si sta per troppo tempo al buio, finisce che poi si ha paura della luce.

 

 

… Fia

Stava sempre lì da sola Fia, nella sua stanzetta, in compagnia del suo disordine, del suo specchio, del suo lettino. Parlava con se stessa e con chi altro poteva farlo nella solitudine di quel paese? “Sono bella, sì lo so, ma a che mi serve esserlo se nessuno mi può apprezzare? Se nessuno può toccarla con mano questa mia bellezza? Vorrei che non fosse solo un bene esclusivo mio ma che appartenesse anche agli altri. Sarebbe bello se tutti, tramite il mio corpo, toccandolo, provassero emozioni, felicità. Mi farebbe sentire importante, altruista, amata, desiderata. Sì, mi piacerebbe essere toccata da chiunque, ne sono sicura, ma io devo essere d’accordo. Devono avere il mio permesso e, se il caso, devono pregarmi come una regina, la regina del sesso con tutti i maschi ai miei piedi, in mio potere. Sì, mi piace il potere. Sono stanca di essere considerata una bambina che deve ancora crescere. Ma quale bambina? Io sono cresciuta e come sono cresciuta! Questo seno non è cresciuto forse? La mia bocca non è sensuale forse? E le mie gambe, il mio culo e i peli che ho sotto non sono veri, mica sono finti? Ho avuto già le mestruazioni a undici anni e sono diventata donna da allora, è da allora che posso avere figli e perché non posso ritenermi già donna? Perché non posso fare quello che voglio? Ho smesso da tempo di pensare alle bambole. Ora cerco il maschio ma sono per tutti bambina. Sono stanca di essere chiamata minorenne, Dio come odio questa parola: Minorenne! ma che significa? Che non capisco? Che sono ritardata mentale? I grandi non capiscono nulla, capisco più io a quindici anni, fanno tutti schifo specialmente quelle che si credono psicologhe, assistenti sociali, non capiscono un tubo. Non hanno capito niente di me! Sono tutte loro che mi violentano quando pensano che sono ancora bambina, loro e soltanto loro, perché non le mettono tutte in carcere quelle criminali ignoranti. Mi devono sempre controllare, devo aspettare i 18 anni, non posso indossare una minigonna, non posso toccarmi, non posso scopare con chi voglio! Che schifo di vita! Ma come posso andare contro natura? ma vogliono sapere di più di lei che ci ha creati? La natura a undici anni ha deciso di farmi diventare donna, mi ha fatto questo bellissimo regalo e loro, presuntuosi, mi chiamano ancora bambina. Io sono una donna ormai, forse una giovane donna o una donna bambina, no meglio una giovane donna. Odio il termine bambina, odio il termine minorenne. Bambina lo sono anche stata ma prima di avere le mestruazioni, quando ancora giocavo con le bambole. Ma come si può chiamare bambina una che già si interessa ai ragazzi? le bambine pensano solo a giocare. Io sono donna, sono bella, sono sprecata in questo schifo di paese. Potrei essere una diva, una fotomodella, me lo posso permettere, ho il fisico adatto. Questo mio corpo è un talento naturale, non può restare nascosto, merita di essere visto, osannato, idolatrato. Ma poi perché nasconderlo se la natura me l’ha offerto come dono? Quando devo mostrarlo quando invecchierà e non lo vorrà vedere più nessuno? È la vecchiaia che mortifica la carne e non il toccarsi. Tutti mi dicono di aspettare, che sono troppo piccola, ma aspettare chi? Cosa? Perché? Questo corpo è mio e voglio decidere io cosa farne, gli altri non hanno nessun diritto sulla mia pelle. Voglio mostrarlo, regalarlo a tutti, dividerlo con tutti. I grandi dovranno impazzire, perdere la testa per me, dovranno fare a pugni per poterlo guardare, sfiorare e se saranno buoni con me, forse, glielo concederò, sì, mi darò a tutti”. Era distesa sul suo fedele lettino, a faccia in su mentre pensava tutto questo. Tutte le volte che doveva riflettere o meditare, la si poteva vedere in quell’identica posizione, nello stesso lettino come se riuscisse a trovare ispirazione solamente in quello stato. Quel suo lettino era la sua musa ispiratrice. Era sincera Fia quando pensava tutto questo, non poteva fingere a se stessa, proprio non avrebbe potuto farcela e non l’avrebbe fatto neanche con gli altri. Erano pensieri strani per una ragazza della sua età, sicuramente molto più grandi di lei, fuori dal comune che denotavano una maturità e una libertà di vedute e di pensiero troppo grande e profonda per essere stata partorita dalla mente di una quindicenne tanto più che abitasse in un paese sordo ad ogni forma di apertura. Ma di chi era figlia la piccola Fia per ragionare così? Chi erano i suoi veri genitori che l’hanno abbandonata? Forse era figlia di angeli o demoni, di profeti, di filosofi, di pionieri di nuove idee, o forse di extraterresti, di esseri alieni. No! Fia non poteva essere una ragazza normale come tante altre. Aveva qualcosa in più, dentro aveva la libertà, fuori la bellezza del suo corpo. Era una ragazza fantastica, era una ragazza speciale. Il fresco profumo d’adolescenza che emanava, i suoi seni, le sue labbra, la bocca, la meravigliosa poesia della sua figura di fanciulla in fiore, la sua sensualità acerba pronta ad esplodere tra le braccia d’un ragazzo! Nessuno avrebbe potuto resistere al fascino della piccola Fia. Anche un sacerdote in confessione, se avesse potuto, si sarebbe spogliato e le sarebbe saltato addosso. Anche uno stimatissimo giudice tra le aule d’un tribunale, se avesse potuto, avrebbe abusato di lei. Anche un vecchio professore universitario, se avesse potuto, avrebbe strappato tutti i libri e sarebbe piombato su di lei davanti alla cattedra. Chiunque, se avesse potuto, avrebbe fatto questo, piccolo o grande, giovane e vecchio, maschio e forse anche femmina. Se nessuno lo fa nella realtà è solo perché la società, attraverso la legge fatta dagli stessi che desiderano Fia, lo punirebbe severamente. Non esistono altri motivi. Ma quando in un essere umano qualsiasi, si reprime qualcosa, questo qualcosa tende a manifestarsi ancora più intensamente e ad affascinare e si ottiene sempre l’esatto contrario, si crea il mito del proibito, si cerca il gusto della trasgressione che non sarebbero tali se fossero considerati normali. È il divieto che uccide la psiche d’un uomo perché limita e distrugge la libertà di essere che è sacra. Forse era per questo che Fia soffriva in quel modo e si sentiva tremendamente sola, perché era stata costretta a crescere come se le avessero fatto il lavaggio del cervello, seguendo le idee inculcatele dai suoi genitori che erano le stesse di tutti gli abitanti di quel paesino, le stesse della società in cui stiamo vivendo oggi. Ma voi immaginate, cari lettori, se i genitori adottivi di Fia avessero potuto sentire i pensieri della loro piccola? L’avrebbero presa per malata da curare spedendola da qualche specialista anche perché non avrebbero avuto la capacità intellettiva per afferrare quei concetti, sarebbe stata la stessa cosa di ascoltare una lingua straniera. E immaginate ancora, cari lettori, se i pensieri di Fia fossero stati ascoltati dagli abitanti di Leonforte. Mamma mia! Si sarebbero fatti il segno della croce e sarebbero scappati via. Per fortuna che la natura, che alla fine trionfa sempre, ha fatto in modo che nessuno possa leggere i pensieri della ragazza, altrimenti verrebbe mandata subito al rogo come nel Medioevo, dai suoi stessi genitori, dagli abitanti di Leonforte, dalla chiesa di San Raffaele con la benedizione del papa e di tutto il Vaticano.

 

 

 


… Mosè

La generosità dei parrocchiani della chiesa di San Raffaele, non si limitava a semplici regali ma si spingeva oltre concretizzandosi attraverso delle mance, delle piccole elemosine che oscillavano tra i 50 centesimi e i 5 euro che venivano offerte a Mosè nei giorni festivi, prima o dopo la messa. In verità erano pochini se considerate singolarmente ma moltiplicate per tutti i fedeli della chiesa, diventavano davvero un bel gruzzoletto. E poi vi erano i giorni particolari, il Natale, la Pasqua, Capodanno, Ferragosto, nei quali i soldi che gli venivano regalati aumentavano per l’occorrenza, fino a diventare veri e propri stipendi, spesso accompagnati dall’invito a pranzo a casa loro.

In realtà, uno stipendio vero, si fa per dire, Mosè l’aveva ed era quello che gli veniva corrisposto da padre Santino, una volta al mese, 80 euro circa. In cambio Mosè doveva recarsi in parrocchia tutti i pomeriggi per un’oretta dalle 16 alle 17 facendo un po’ da portiere, da segretario, diciamo così. In realtà faceva poco o nulla, aveva il compito di citofonare al parroco qualora qualcuno lo cercasse, di sistemare e fare un po’ di pulizie in chiesa, cosa che faceva solo ogni tanto. Il più delle volte lo si vedeva sdraiato su una specie di sedia a dondolo a fumare sigarette aspettando che passasse l’ora di “lavoro”.

Era per padre Santino un modo come un altro per giustificare con la parola “lavoro” quel che invece gli dava per beneficenza. E poi vi erano tutti i continui martellanti consigli e lavaggi del cervello che tentavano di fargli i parrocchiani.

“Ma perché non ti vesti bene? Perché non usi la giacca che ti abbiamo regalata? Perché non ti tagli la barba e ti aggiusti i capelli?, te lo pago io il barbiere, tieni questi 5 euro ma ti raccomando non te li spendere in bottiglie di birra e non fumare che ti fa male, prenditi le vitamine che ti ho comprato così ti riprendi un po’, sei sciupato, mangi poco”. Lo trattavano, in buona fede, peggio di un bambino piccolo e innocuo, incapace di badare a se stesso. Ma era tutto inutile. Lui calava la testa a tutti ma non recepiva nulla, era come parlare al muro. Quelle parole entravano dall’orecchio sinistro e senza fermarsi per essere assimilate dal cervello, uscivano immediatamente dall’orecchio destro come se non fossero mai state pronunciate. Lui ragionava solo con la sua testa, giusta o folle che sia, dipende dai punti di vista. Era sempre il solito. Neanche il giorno in cui compì 65 anni volle mettere in pratica i consigli dei parrocchiani. Tutta la chiesa di San Raffaele, per l’occasione, decise di fargli una megatorta con 65 candeline e lo pregarono tutti, almeno per quella importante ricorrenza, di vestirsi meglio. Ma fu tutto inutile, lui si presentò alla festa più trasandato che mai. Ma non sarebbe stato Mosè se non si fosse presentato in quel modo.

 

 

… Fia

Sola nella stanza con i suoi pensieri sempre più strani, Fia stentava a riconoscersi. Vedeva morire inevitabilmente le sue cose più care. Prima la sua bella Barbie tanto tempo fa con i suoi giochi da bambina, poi il suo diario, le sue lettere d’amore scritte di nascosto ad un ragazzo. Pensava a tutto questo con nostalgia, con commozione, avvertendo una stranissima e indefinibile sensazione, come un improvviso caldo agli occhi che voleva ma non riusciva ad essere pianto. Si ricordava di lei stessa bambina, lei che era semplicità, era gioia e serenità, era l’infinita innocenza. Lei che viveva felice i giorni della sua fanciullezza, lei che si affacciava con paura alla sua adolescenza. In quel tempo ormai lontano, Fia vedeva trasparire dai suoi occhi la magia di un mondo che sapeva di fantasia, e quante piccole e tenere cose tenute dentro, nascoste e segrete, il suo piccolo cuoricino non riusciva ad esprimere! Si ricordava di quando in lei sbocciava il suo primo e innocente amore, platonico, che le faceva provare dentro, qualcosa mai avvertita prima; era stato anche il suo primo dolore ma si era rivelato dolce lo stesso, come il succo d’una caramella e quelle prime lacrime possedevano ancora lo splendore della sua innocenza. Erano di amori fugaci i suoi pensieri, i suoi giochi tenere primavere e lei dondolava felice nell’altalena dei suoi desideri, come quando stringeva a sè la sua bambola che aveva perso ormai. E dipingeva di sogno i suoi giorni, colorava d’arcobaleno persino i suoi disegni, annotandoli dolcemente nel suo caro diario. Fia avrebbe desiderato tanto che qualcuno, con una bacchetta magica, le avesse regalato una vetrina per riempirla dei suoi sentimenti. Così chiunque, sostando lì, scoprirebbe la ricchezza che aveva dentro. Ora stava crescendo proprio in fretta la piccola Fia, non riusciva a vedere più il mondo che la circondava con quegli occhi di bambina che forse stava perdendo per sempre. Mille ed infinite parole non bastano a descriverla. Mille ed infinite poesie non potranno mai e poi mai farle capire quanto era ed è importante, ma quello che provava dentro non crescerà mai, forse servirà al lettore e a me stesso per farci rivivere ricordi di adolescenze perdute. Con lei correremo insieme e voleremo via lontano verso nuovo orizzonti, lì ci fermeremo e resteremo per sempre. Ma tutti questi dolcissimi ricordi che risplendevano ancora nella mente e nell’anima di Fia come dolci memorie, ora sembravano morire inesorabilmente e lentamente in un tremulo brillio. Al loro posto, stava nascendo una nuova creatura forte, spregiudicata, partorita dall’intima essenza dei sensi, che stava reclamando ad alta voce un suo spazio facendosi largo, distruggendo tutto ciò che della piccola Fia trovava sulla sua strada. Era la donna che stava per nascere con tutta la sua potenza in lei, di colpo e senza preavviso, lacerando le fragili barriere che dividono l’innocenza dalla malizia, il candore dalla più sfrenata sensualità. Un serpente velenoso sembrava essersi insinuato vischioso nel suo giardino d’infanzia, mentre due mani sporche di fango, maliziosamente, rubavano a quel suo impubere corpo d’un tempo e a quello attuale, l’innocenza. Su quegli occhi appena aperti, calavano inesorabili ombre senza più luce, i sorrisi ingenui delle fate diventavano tentacoli della paura. Moriva così, sbocciando, quel fiore reciso che forse non sarebbe mai più cresciuto. Qualcosa di inquietante e misterioso, le stava uccidendo la cicogna e, con lei, anche Gesù Bambino.

Era una ragazza in bilico Fia, dentro la quale autocontrollo e sfrenata passione si scontravano violentemente, sfiancandola senza pietà. Era il suo corpo che non riusciva più a controllare, che reclamava una libertà totale, illimitata, senza freni, fuori dal controllo della mente, dalla censura della ragione, dai tabù della morale.

Sentiva che, anche se avesse provato a fuggire dai suoi pensieri e da se stessa, in qualunque posto del mondo si fosse nascosta, si sarebbe ritrovata sempre con sé e con le sue tentazioni. Era un angelo di fuori, un demonio dentro. In lei, Dio dava la mano a Satana e camminavano entrambi a braccetto. La purezza si mischiava con la lussuria fino a darle le sembianze d’una creatura diabolicamente angelica, incapace di districarsi nei tortuosi e oscuri labirinti dell’istinto e dell’inconscio che racchiudeva in sé le virtù del paradiso e insieme le fiamme dell’inferno. Ma tutto questo interno soffocante conflitto, la rendeva di fuori, nel suo sguardo e nel suo corpo, ancora più bella, ancora più desiderabile, ancora più sconvolgente. Esistono due tipi di categorie di donne anche se è sempre riduttivo schematizzare e classificare esseri umani. Alla prima appartengono le donne che io chiamerei “contenitrici di riproduzione”; tutte casa e chiesa, angeli del focolare domestico. Si sposano per tradizione, forse arrivano vergini al matrimonio, generano figli facendo l’amore per dovere più che per piacere, magari obbediscono anche ai loro mariti. La loro vita si realizza in cucina tra pentole, bicchieri e lavastoviglie. Come robots preparano ad orario colazione, pranzo e cena. Sanno fare proprio tutto, fortunato chi se le piglia! Stirano, cuciono, lavano, fanno pulizie e si ritrovano prima del tempo, vecchie, ingrassate e appassite. Poi vi è una seconda categoria alla quale fanno parte quelle donne che hanno l’erotismo nel sangue, come fosse parte di loro sin dalla nascita e che non possono reprimere per colpa di una società che si ritiene libera a parole, ma che nei fatti imprigiona, isola, uccide chi non ubbidisce alla massa, alle sue assurde e folli regole. Questo tipo di donna si riconosce subito per chi sa guardare con gli occhi dell’istinto. Sono sempre belle, in qualunque età, libere, giovani, sensuali, capaci di catturare con lo sguardo e ammaliare col corpo che sprizza gioia di vivere da tutte le parti,che comunica sensazioni sempre vive ed intense. Non esiste una giustificazione a questo modo di essere, si nasce così e si smette di esserlo solo con la morte. Si è così da bambine, da adolescenti e si prosegue da donne e da vecchie. E Fia, la piccola Fia, apparteneva sicuramente a questo secondo gruppo e ne era felice e ringraziava il cielo di farne parte.

L’incoscienza e l’immaturità dei suoi anni di bambina, avevano soltanto messo da parte questo modo di essere come in attesa, ma ora, nel fiore della sua adolescenza, stava esplodendo in tutta la sua evidenza, rendendola consapevole di essere una ragazza sessualmente magica. Era il suo corpo che le parlava, che bruciava, che stava impazzendo perché voleva essere sfiorato, accarezzato, esaltato, amato. Ma anche la ragione e l’anima le sentiva acconsentire a queste richieste, come un cane fedele che s’arrende obbedendo al suo padrone. Ma Fia non viveva tutto questo come sottomissione e obbedienza ma come gioia nel lasciarsi trasportare da qualcosa che vuol solo dare piacere, brividi, emozioni. “Perché”, si chiedeva Fia, “perché limitare il piacere a un piatto di pasta al forno? O a sentire una bella canzone? o a leggere un bel libro? o semplicemente ad osservare la bellezza del sole che sorge? Perché non chiedere di più alla propria vita che è talmente breve, assaporando la vera gioia che quest’esistenza ci può offrire prima che la morte avvolga ogni cosa nell’oblio? Perché limitarmi per colpa di una morale opportunista e ipocrita che giustifica la guerra e legalizza l’omicidio obbligando un giovane ragazzo a uccidere un proprio fratello facendosi chiamare Patria? Quella stessa morale che poi condanna definendo peccato il sesso libero in qualunque forma. Ma esiste peccato più grave dell’odio, dell’invidia, della gelosia? No, io non ho il demonio in corpo, il demonio sta altrove dove nessuno crede che sia, nei soldi, nel consumismo, negli armamenti nucleari. E anche se fosse realmente il demonio a tentarmi e a farmi ragionare così, bene,allora sono felice di appartenere a lui, di essere in suo potere, scopo pure con lui. È lui il mio nuovo Dio perché non può essere malvagio chi mi procura felicità e lui me ne procura tanta”. Era proprio cresciuta la piccola Fia, la sua prorompente ed irrefrenabile sensualità, avevano fatto sì che ciò avvenisse presto e tutto in una volta. Era maturata tantissimo, sicura di sé, ragionava da grande. Si potevano condividere o no i suoi pensieri, ma non era possibile non riconoscere che erano pensieri da adulta e da adulta intelligente. Forse sensualità sta a intelligenza come castità sta a ignoranza. Dove non vi era riuscita la scuola con quei professori antichi autentiche mummie viventi, dove aveva fallito la religione con la sua esaltazione della sofferenza e delle rinunzie, dove persino i suoi genitori in buona fede, ne erano usciti sconfitti facendola confondere e complessare di più, aveva trionfato la sua sessualità, il suo istinto, semplicemente rivelandole se stessa, mettendola a nudo senza maschere e falsità. Fia aveva capito che soltanto facendo l’amore, era veramente se stessa, in quel momento non si può più fingere o recitare perché l’inconscio trionfa sposandosi con l’istinto che è in lei. È un matrimonio indissolubile di piacere naturale che il suo corpo le offre senza nessun sacrificio, ma come un dono del cielo per la sua gioventù splendente.

 


… Mosè

Non aveva proprio dove dormire il povero, per modo di dire, Mosè. Così come della famiglia, era orfano anche di una casa tutta sua. Ma, anche in questo caso, la Provvidenza divina decise di venirgli incontro, ispirando padre Santino, a sua volta sollecitato dai parrocchiani, sempre inclini a far del bene, ad acquistare per conto della chiesa un prefabbricato in legno per poi regalarlo a Mosè. E così, questa strana casa, situata in periferia di Enna, in mezzo alla campagna, divenne la sua nuova dimora. Ma era tutta fatta in legno e all’interno, d’estate, vi era per tutto il giorno una temperatura superiore ai 40 gradi. Era per Mosè come trovarsi nel deserto se non peggio, e dovette scappare per disperato per evitare di morire bruciato. Fra l’altro, l’estate ad Enna, nel cuore della Sicilia, è sempre maledettamente calda e insopportabile, il sole brucia. Molti, per questo motivo, fuggono via verso le località estive vicine al mare, dove trovare refrigerio. Oltre tutto, Mosè doveva anche stare attento a possibili incendi, spesso di natura dolosa, che alcuni pecorai del luogo accendevano per potere poi pascolare il gregge su terreni spogli. Così lui, non appena da lontano vedeva del fumo nei pressi della sua abitazione, si precipitava immediatamente per evitare che le fiamme divorassero la sua casetta di legno e qualche volta arrivò appena in tempo. All’interno di questa particolare casetta, simile per grandezza e forma ad una roulotte, che poggiava su dei pilastri di ferro, vi era un disordine totale che andava al di là di ogni immaginazione. Tutti i vestiti nuovi regalati dai parrocchiani, gettati per terra come immondizia, uno sull’altro, tutti sporcati o macchiati. Polvere dappertutto, strani insetti che dimoravano tranquillamente come ospiti in quella casa, scritte sui muri, cassetti colmi di roba che fuoriusciva da tutte le parti. Un cervello normale, non certamente quello di Mosè, non potendo recepire tanto disordine, sarebbe entrato in confusione mentale. Non vi era un solo elemento a posto in quella casa. Eppure Mosè, non facendo nulla dalla mattina alla sera, avrebbe avuto tutto il tempo per mettere un po’ d’ordine, ma non l’aveva mai fatto. Forse non ne sentiva la necessità e bisogna rispettare le sue scelte anche se a volte è difficile condividerle. Del resto abitava solo lui e non doveva dare conto a nessuno. La bellezza di vivere da soli, senza dividere qualcosa con gli altri, rinunziando alla propria libertà e alle proprie abitudini. Però quel disordine totale impediva a qualunque parrocchiano di venirlo a trovare e lui, di questo, se ne lamentava visto che nessuno era mai venuto a fargli visita. Anzi, ad esser sincero, c’era qualcuno che ogni tanto lo faceva. Era uno strano ragazzo, più di lui, un certo Mirko con la barba ed i capelli lunghi. Era convinto di essere un artista incompreso, un grande scrittore. Ma in realtà era solo un fallito, disoccupato, che viveva ancora con la pensione della madre, ricevendo da lei 1 euro al giorno di paghetta, nonostante avesse una quarantina d’anni circa. Era però un ragazzo libero e sincero e voleva bene a Mosè apprezzandolo per com’era dentro e non per come appariva di fuori.

Cari lettori, vi giuro che nella mia vita, ho riscontrato molta più umanità, comprensione e solidarietà nella gente umile, disadattata che vive ai margini della strada, anziché nella gente ricca, cosiddetta perbene, socialmente posizionata. Lui Mosè era felice quando Mirko veniva a trovarlo, era l’unico che lo faceva senza fargli paternalismi. I due si rispettavano sul serio ed era nata fra loro una bella amicizia. Era un luogo isolato quello in cui abitava il vecchio Mosè, in mezzo alla campagna. Poco più avanti vi era solo una casa abitata da polacchi che ogni tanto gli portavano qualcosa da mangiare e parlavano un po’ con lui. Mosè amava quel posto dove abitava, quel posto solitario e abbandonato proprio come lui. Vi era una profondissima quiete, un silenzio magico, fatato, quasi irreale, si avvertiva il tenue soffio del vento tra gli alberi, la dolcezza di quelle piante che sembravano dormire, ci si perdeva nell’immensità della natura. Sembrava tutto in perfetta armonia col suo amore per la solitudine, quasi come fosse stato creato apposta per lui, per la sua ispirazione, la sua meditazione. Mosè adorava quel posto, quell’alberello di arance dietro la sua casetta, quei gattini che gli giravano intorno come piccoli angioletti, quei fiorellini colorati che profumavano di primavera, il dolce canto degli uccelletti, l’odore fresco dell’erba di campagna, i frutti ancora acerbi appesi ai rami degli alberi, le foglie verdi o ingiallite sparse lungo il sentiero. Aveva sempre amato quella collina verdeggiante che gli copriva l’orizzonte, lo nascondeva ma lo faceva amare, trascinando con sè l’immaginazione, facendola correre e volare via verso spazi infiniti. Era la poesia delle solitudini, dell’inane, del nulla: visioni taciturne e distanti che richiamavano alla mente primavere sfiorite, gigli appassiti, ma non vi era tristezza in tutto ciò, ma solo dolcezza e completo abbandono sospeso tra i ricordi e l‘infinito. Immerso in quel paesaggio incantato, ricco di tenerezza e di poesia, uno spirito libero come Mosè si apriva spesso verso l’infinito ripercorrendo in un attimo tutta la sua vita. Allargava le braccia all’universo che lo circondava, respirando a pieni polmoni l’aria come volesse farla entrare tutta quanta in lui per sentirsi parte del cosmo. Rivedeva con gli occhi della memoria, lontanissimo come da un cannocchiale rovesciato, egli stesso bambino e lo paragonava alla luna, distante anch’essa mille anni luce. E continuava a rivivere nei ricordi la spensieratezza della giovinezza e nello stesso istante dirigeva lo sguardo verso l’azzurro del cielo, ammirando spazi infiniti, nuvole bianchissime come zucchero filato. Ridiscendeva poi negli anfratti della sua memoria e riscopriva la ragazza che aveva baciato e amato per la prima volta, e confrontava la luce limpida dei suoi occhi con quella delle stelle o semplicemente della stella cometa. Ricordava i dolci versi scritti in tenerissima età nella sua prima poesia, immaginando di trovarsi tra fiorellini di campo di vario colore, solleticati dolcemente da un leggero venticello, mentre uccellini nel nido assieme alla loro madre e tanti piccoli animaletti festanti, tutti insieme, cantavano la loro canzone alla primavera. Mosè capiva proprio in quei dolci momenti, di non essere solo, malgrado il tempo che passa, malgrado non avesse una compagna. Intorno a lui, vedeva tutto un mondo magico che pullulava d’amore. C’era tanta musica nell’aria che respirava ed ora finalmente anche lui poteva sentirla e lasciarla entrare nel suo cuore, fino a sentirsi in simbiosi con l’universo. Era il canto della memoria, sospeso tra i ricordi e l’infinito, che si elevava: era profondo, sentito, cercato e la natura, come per magia, penetrava nel tessuto dell’anima di quel vecchio e si faceva poesia, ne scioglieva i nodi, ne ispirava i versi, era pianto che rasserenava, in un bisogno d’infinito che riempiva l’animo d’immenso. L’opaco atomo terreno veniva illuminato da altre verità e la luce d’una infanzia lontana, dava immagine all’eco, si spandeva in altri mondi, si dissolveva nell’immensità. Ormai nulla era lontano dal suo spirito. Ma Mosè non era completamente solo. Aveva infatti la compagnia di una decina di galline, brave a fare uova fresche, che lui, vendeva a qualche parrocchiana dicendole: “Signora, apra, sono io Mosè, quello delle uova, ne ho alcune fresche”.

Purtroppo, dopo qualche mese, una notte, un branco di cani randagi, fecero piazza pulita, uccidendo e mangiandosi tutte le povere galline senza che lui potesse fare nulla per salvarle e così addio galline! e addio uova! Fortunatamente aveva anche un paio di gattini di vario colore che gli facevano compagnia e che lui amava tanto. Guai a chi non ama o fa del male agli animali, non è un uomo ma è lui la vera bestia, il vero animale. Mosè questo lo sapeva bene e rispettava quei gattini come tutti gli animali. Li curava amorevolmente, gli comprava da mangiare e spesso si toglieva il cibo dalla bocca per darlo a loro, “Io sono abituato a stare digiuno, loro no”, diceva ed era la verità. E poi aveva un motorino col quale si spostava dalla casa alla parrocchia e viceversa. Questo l’aveva comprato lui con i soldi ricavati dalle mance e messi via via da parte. Era l’unica cosa che non gli era stata regalata, costava troppo per i parrocchiani, c’è un limite a tutto. Aveva acquistato con i suoi soldi anche il casco. Il motorino era relativamente nuovo ma si guastava spesso, era di due colori giallo e blu, era carino tutto sommato. Si trovava nei guai però il povero Mosè, doveva prendersi al più presto una nuova patente altrimenti i vigili gliel’avrebbero sequestrato immediatamente. E quindi aveva bisogno ancora di soldi per sostenere quell’esame difficile e complicato specie per lui che non vedeva più bene, tanto da usare una strana lente d’ingrandimento tutte le volte che doveva leggere qualcosa. Gli mancava però quello che oggi un po’ tutti hanno, il telefono cellulare che sarebbe stato utile specie per lui che viveva da solo. In verità, i parrocchiani avevano pensato bene di regalarglielo facendo una specie di colletta tra loro ma lui non l’ha mai voluto, non ha mai avuto dimestichezza con i telefoni in genere: “No grazie, non lo voglio, non so parlare al telefono, non sento bene, non mi serve, parlo di presenza io!”

 

 

… Fia

Fia giaceva distesa sul letto come sempre. Era un pomeriggio d’estate, la solita estate di Leonforte, calda e monotona dove non si respirava affatto e l’aria era pesante. Inutile spalancare la finestra, l’aria di fuori era ancor più calda di quella di dentro. Fia accese il ventilatore ma girava lento, sembrava stanco pure lui, non serviva a niente. “Questo schifo di paese non ha neanche il mare”, pensava con tristezza la ragazza. “Ma perché non sono nata a Rimini, a Rio de Janeiro, a Miami? a quest’ora ero in bikini sulla spiaggia a farmi contemplare le forme da tutti, ad essere baciata almeno dal sole visto che non l’ha mai fatto un ragazzo, ad abbronzarmi, e invece sono bianca come una mozzarella, chiusa qui dentro senza nessuno”. In realtà a pensarci bene, Fia non era mai stata fidanzata. Era stata innamorata platonicamente di un suo compagno di classe di Enna, dove lei andava a scuola, ma lui non ne sapeva nulla di questo amore segreto. Non aveva ancora mai baciato nessuno e si chiedeva con una certa logica curiosità cosa si potesse provare nel farlo. Sì, sapeva che un bacio passionale, detto alla francese, era qualcosa di più della semplice unione di due labbra, erano le lingue che dovevano ergersi a protagoniste, toccandosi e strofinandosi l’un l’altra come due piccoli serpentelli indiavolati: Ma non vien da vomitare saliva contro saliva? si chiedeva quando era più piccola. Ma ora lo trovava terribilmente eccitante pur non avendolo mai fatto. Più volte, davanti allo specchio, l’unico suo immaginario amante che l’aveva vista in tutta la sua nudità, aveva provato a baciare se stessa e l’aveva trovato sempre eccitantissimo. Essendo consapevole della propria bellezza, immaginava la gioia di un ragazzo che avesse avuto il privilegio di sfiorare la lingua di lei, e avvertiva un brivido intenso in tutto il corpo al solo pensiero di quello che avrebbe provato lui, nel suo corpo di ragazzo, se l’avesse baciata. Mille e mille raccomandazioni, mille e mille condizionamenti mentali le avevano inculcato l’idea che dovesse rimanere lontana mille anni luce con la mente e con le mani dalle sue parti intime. Fia si ricordava sempre di quelle parole che le aveva detto, parecchi anni fa quando lei frequentava il catechismo, una suora. Gliele aveva proferite con un tono talmente severo da averla letteralmente colpita e traumatizzata: “Ricordati sempre Fia che ogni volta che un ragazzo o una ragazza si toccano le parti intime, per l’Immacolata Santa Vergine Maria è un colpo al cuore, è come se tu le ficcassi un pugnale nel cuore”. Vi giuro cari lettori che simili parole dette in un certo modo ad una bambina, possono fare un certo effetto. Il mio commento sulle affermazioni di questa suora meriterebbe che io scrivessi un altro libro solo su questo argomento. Se cominciassi a farlo adesso in questo stesso libro, non la smetterei più, tanto avrei da dire e da scrivere. Mi conosco bene e lo so. Per questo preferisco non commentare e lasciare all’intelligenza di ogni singolo lettore, le proprie valutazioni.

Nell’udire le parole di quella suora, Fia rimase scioccata, pietrificata, complessata. Era ancora troppo ingenua. Non arrivò neanche a capire che la suora, per libera scelta, doveva praticare la castità ma lei, invece, non aveva nessun motivo per farlo. Che non l’avesse compreso la bambina vista l’età era giustificabilissimo ma che non l’avesse capito neanche la suora, lo trovo a dir poco assurdo. Fia era cresciuta come volevano che crescesse. Sapeva che neanche col pensiero poteva sfiorare le sue parti intime, persino quando si faceva il bagno, aveva paura di farlo e quando ebbe le prime mestruazioni, anziché essere felice di essere diventata donna, si impressionò e pianse disperatamente pensando che quel sangue fosse un castigo della Madonna nei suoi confronti, ricordandosi del famoso pugnale di cui le aveva parlato quella intelligente sorella. Ma ora, fortunatamente per lei, tutto era cambiato. “Voglio essere come Eva che mangia la mela e non m’importa di quello che succederà”, pensava Fia distesa nel letto come sempre quando doveva riflettere, “Se la desidero la mela, la mangio, non voglio che nessuno mi proibisca niente, altrimenti mi viene il desiderio di farlo. Sono sicura che se il Padre Eterno non avesse proibito ad Eva di mangiarla, lei neanche l’avrebbe fatto. Cosa doveva fare con una mela con tutti quei frutti e con tutti quei fiori che vi erano nel paradiso? L’ha mangiata solo perché le hanno proibito di farlo. Ora capisco perché sono diventata così… così… così… così puttana! Perché mi è stato proibito di esserlo. Se mi avessero detto fai la puttana che è bello e si guadagna bene, sicuramente avrei risposto No, grazie, non mi piace. Voglio farmi suora”. Fia a soli quindici anni e sulla propria pelle aveva capito quello che papi, sacerdoti, vescovi, sessuologhi, psicanalisti, e chi più ne ha più ne metta, non avevano compreso e non comprenderanno mai. Da quel giorno in cui Eva mangiò quella famosa mela, ogni uomo è sempre guidato dalla follia d’una donna, così come qualsiasi ragazza dell’età di Fia, è destinata a perdersi e soffrire nel crudele gioco della vita e della morte, vittima dell’eterna lotta tra l’innocenza e la sensualità. Forse non può esserci un colpevole se non c’è nessuna colpa e lei contemplava il peccato senza commetterlo.


… Mosè

Quando andava in giro per Enna e dintorni, con quel suo motorino inconfondibile, tutti lo salutavano “Ciao Mosè” e lui puntuale rispondeva a chiunque. A volte si fermava, cantava qualche canzone napoletana o qualche stornello romanesco, faceva il comico e poi ripartiva. Fra i tanti amici che aveva, ve ne è da menzionare uno in particolare, un po’ più dolce degli altri. Era un ragazzo gay di 18 anni appena compiuti, molto effemminato che si chiamava Antonio. Avendo paura di confessare alla famiglia la propria omosessualità, aveva pensato di confidarsi con Mosè, anche per ricevere un consiglio. E lui, sempre disponibile con tutti, lo rassicurò dandogli coraggio: “Non preoccuparti, ti presento una mia amica psicologa che ti aiuterà gratuitamente e che risolverà i tuoi problemi. Stai tranquillo, non c’è niente di male ad essere omosessuale, tanta gente lo è, anche gente importante della storia, imperatori, guerrieri, poeti, politici, pure tantissimi preti. Tu sei normalissimo, essere gay è la cosa più naturale del mondo, è chi non la pensa così che è contro natura”. Il ragazzo se ne andò più tranquillo pensando tra sé: “Ma perché il mondo non è fatto di tanti Mosè?” L’amica psicologa alla quale Mosè aveva consigliato al ragazzo di rivolgersi, era la stessa dove andava lui. Non perché fosse pazzo o avesse problemi simili, anche se qualcuno, superficiale, potrebbe pensarlo, ma perché aveva bisogno al più presto di un referto medico nel quale risultasse la sua invalidità mentale. Era l’unico modo per prendere la pensione di povertà che gli sarebbe spettata di diritto, non avendo nessun reddito, superati i 65 anni di età. Ogni tanto il parlamento fa una legge giusta. “Dottoressa, la prego, mi certifichi che sono pazzo altrimenti non mi danno la pensione”. La dottoressa gli rispose “Mosè ma tu stai facendo confusione con queste pensioni, confondi quella di povertà con quella di invalidità. Il certificato ti serve per quella di invalidità, l’altra, quella di povertà, ti spetta perché sei povero e hai 65 anni”. E Mosè più convinto che mai si spiegò meglio. “Dottoressa, lo so che è come dice lei, ma vede, la pensione di povertà lo Stato non me la vuol dare perché ha preso informazioni circa la mia situazione in parrocchia, a San Raffaele, dove io ho la residenza, non avendo una casa. Tutti i parrocchiani hanno fatto sapere che io non ho bisogno di nulla, perché ci pensano loro e che il parroco mi dà pure lo stipendio. Così mi hanno rovinato. Mi resta solo quella di invalidità. Perciò, per favore mi scriva che sono pazzo”. La dottoressa confusa e perplessa si rivolse ancora a Mosè “Ma io non posso scrivere una cosa per un’altra!” E Mosè le disse deciso: “E allora faccio il pazzo, qui davanti a tutti”. Nella vita chi è troppo libero, è sempre considerato un po’ folle. Non perché lo sia realmente ma perché gli altri hanno una certa paura di lui, forse perché non arrivano al suo livello o perché vorrebbero esserlo anche loro ma per mille motivi non hanno il coraggio di diventarlo, e conseguentemente trovano comodo etichettarlo “pazzo”. Questo semplice ragionamento che purtroppo tanta gente non ha la capacità di fare, è esattamente lo stesso, anche se con parole diverse, che fece la dottoressa nei riguardi di Mosè. Non posso riportare qui nel libro l’intero referto medico, non credo che al lettore interessi, vorrei solo dirvi che vi era inclusa la parola “pazzo intelligente”. Così Mosè se ne andò contento ringraziando la dottoressa e sono felice anch’io per lui e anche per me che, con questa storia delle due pensioni, avevo fatto un po’ di confusione.

Vorrei però chiudere definitivamente l’argomento “pensione” riportando una delle tante frasi che i parrocchiani di San Raffaele avevano riferite a chi cercava notizie sulle condizioni economiche ed esistenziali del Mosè: “La pensione a Mosè? Ma non esiste neanche! Lui è ricco anche più di noi, non gli manca niente, ci pensiamo noi, il parroco gli dà lo stipendio puntuale e gli abbiamo pure comprato una «bella» casa”.

Ecco la vita che si rivela comica pur nella sua drammaticità. Credo che ogni altro mio commento sia superfluo. Non so se piangere o ridere di tutto ciò.

 

 

.. Fia

E così mentre i suoi genitori erano usciti a fare delle compere ad Enna, lei era rimasta da sola (e non era una novità) nel suo insignificante paese di Leonforte. Sdraiata sul suo solito lettino, in quel caldo e soffocante pomeriggio, ora si abbandonava senza più pudore o reticenze di nessun tipo, al piacere più completo, più totale, lanciando finalmente i suoi sensi in libertà come una vispa puledrina che scioglie le briglia e galoppa via libera. In quindici anni non l’aveva mai fatto né con qualcuno né da sola e soltanto ora si rendeva conto di quanta ricchezza avesse perduto. Nella vita è meglio avere rimorsi che rimpianti, lei lo capiva solo adesso. Non vi era nessuno vicino ma se ci fosse stato, sentiva che l’avrebbe fatto in quell’attimo.

Vi era lei, bellissima come sempre. Fia era narcisista, si amava, si piaceva, si desiderava, ora finalmente voleva darsi quello che per troppo tempo, per colpa di sciocche ed ingiustificate paure, aveva rinunciato a darsi, quel piacere che la stava aspettando a braccia aperte. Nella vita si può morire anche da giovani e lei non voleva crepare senza aver conosciuto un momento così bello. In verità non sapeva se fosse bello ma era convinta che potesse esserlo, lo sentiva dentro, il pensiero doveva materializzarsi, solo così lei poteva ritenersi appagata, solo così poteva capire quanto la realtà, in questo campo, sia superiore alla fantasia. Era il suo corpo che la supplicava a farlo, non poteva dirgli di no! Si sarebbe fatta del male, ferita e forse anche uccisa. Non vi era più in lei il contrasto mente-corpo, ragione-istinto, sembrava tutto meravigliosamente uniforme, proiettato verso un’unica precisa direzione, quella del piacere, la legge dei sensi, dell’istinto, dell’animalità presente in ognuno di noi. In fondo anche l’essere umano è un animale, si accoppia proprio come le bestie, nello stesso modo, guidato dallo stesso istinto. Forse qualcuno ha inventato il sentimento col solo scopo di sublimare il sesso e tutti, come sciocchi, gli hanno creduto. Perché la piccola Fia avrebbe dovuto rinunciare al piacere? Perché bloccarsi ancora? In nome di cosa e in sacrificio di chi? Cosa poteva succedere di male se l’avesse fatto? A chi avrebbe dovuto dare conto? Fia ora è sola, completamente sola, solo lei e il suo meraviglioso corpo, il suo corpo e lei. Era talmente giovane e bella che si eccitava di se stessa, col suo stesso corpo. Non aveva bisogno di immaginare qualcuno vicino, c’era lei stessa che valeva di più di chiunque altro. Non esisteva nessun’altra ragazza in tutto l’universo che potesse amarsi da sola con lo stesso trasporto, con lo stesso amore di Fia. E come poteva non desiderarsi così giovane e bella? No! Non era solo narcisismo e neanche perversione ma soltanto abbandonare tutto e tutti e dedicarsi finalmente a se stessa. Cosa c’è di scandaloso nell’amore col proprio corpo? In fondo non si stava drogando, non stava bevendo o fumando come tanti altri suoi coetanei. No, lei non aveva bisogno di tutto questo, si bastava da sola, non aveva bisogno di nessuno, si sentiva libera e felice così. Stava per scoprire un piacere naturale intenso e sconvolgente che si mostrava a lei in tutta la sua bellezza ed irruenza. Un piacere che lei poteva riavere ancora e poi ancora, tutte le volte che avrebbe voluto, senza coinvolgere nessuno, chiusa nella pace della sua stanza, nel dolce silenzio di un segreto, nella piacevole intimità del suo lettino. Fia voleva assaporare quel momento e goderselo fino in fondo. Sentiva che era il momento giusto, non si poteva più rimandare, ora o mai più, il suo corpo non poteva aspettare, lei attendeva lei stessa. Fia ora abbassa piano il reggiseno scoprendo due seni splendidi da adolescente che chiunque avesse avuto la fortuna di toccare, avrebbe sfiorato Dio e l’universo intero. Questa immensa fortuna era riservata a lei e solo a lei, erano i suoi e chi più di lei ne aveva diritto? Ed è quello che fece passando quelle manine delicate e curate su di essi e non poté fare a meno di chiudere gli occhi e sospirare. Abbassò lentamente le mutandine di colore bianco, vergine come quello d’un abito da sposa, scoprendo una peluria nera, lo stesso colore dei suoi capelli, che appariva come un piccolo paradiso, l’eden dove nessuno finora aveva potuto metterci piede. E sotto quei peli simili ad una minuscola ma folta boscaglia, vi era il cuore, la sorgente di tutti i suoi desideri, l’inferno e il paradiso insieme, il centro della vita, il principio e la fine, il posto dal quale ha inizio la storia di ogni essere umano e Fia si rendeva conto che l’uomo è figlio del piacere e di nessun altro, esiste grazie a quel momento, a quel sospiro. Ora quel posto mai esplorato era il suo Dio, il suo creatore, la fonte di tutto. Esitò ancora un attimo ma per l’ultima volta, vittima dell’ultima sciocca debolissima paura e poi annientò in un momento ogni pudore, ogni dubbio e lasciò che quella mano d’adolescente dalle dita affusolate e ben curate, quella mano che chiunque avrebbe voluto sentire sul proprio corpo, sfiorasse lentamente e delicatamente il centro del suo piacere, abbandonandosi completamente a se stessa. Divaricò leggermente quelle gambe bellissime d’adolescente, lisce, morbide, calde che chiunque sarebbe impazzito soltanto se le avesse viste senza neanche poterle sfiorare con le mani, chiuse gli occhi e diventò preda inerme del piacere più intenso, più naturale del mondo. E fu un piacere fortissimo che la piccola grande Fia, ad un certo punto, sentì di non reggere, di non farcela più, di venir meno. Era il primo orgasmo della sua vita, il suo corpo non era abituato, non lo conosceva ancora, non era preparato. Per questo fu intensissimo e sconvolgente, tale da essere ricordato per tutta la vita, superiore anche al primo rapporto sessuale. Fia ora sentiva che l’orgasmo stava avvicinandosi. Lo capiva perché stava veramente male, meravigliosamente male, avrebbe anche potuto morire in quel momento e sarebbe stato bellissimo, non potrebbe esistere morte più bella, una morte unita alla vita, al piacere. Morire con quelle sensazioni e portare il loro ricordo nell’aldilà, se esiste, e paragonarle con la bellezza di Dio, per decidere poi, quale delle due si era rivelata più bella. Il suo cuore batteva fortissimo come un tamburo, sembrava volesse scoppiarle in petto da un momento all’altro, quelle pulsioni si avvertivano nelle vene del suo collo, sulle tempie. Non poteva fare a meno di muoversi, di dimenarsi come un’ossessa, il piacere era troppo forte, troppo intenso per poter star ferma. Afferrò il cuscino con le residue forze che le erano rimaste, lo strinse forte sulla sua faccia come volesse soffocarsi, poi appoggiò le labbra su un angolo dello stesso e lo succhiò come un neonato attaccato al biberon o al capezzolo della mamma. Era l’unico e solo modo per non urlare, per non impazzire dal piacere. Come una bomba atomica, come fuochi d’artificio, tutto quel piacere toccò il culmine ed esplose nella maniera più naturale possibile, sotto forma di umori, di uno strano liquido che a Fia sembrò come una dolce ricompensa che il suo corpo le aveva dato ringraziandola per il piacere ricevuto, poi la piccola s’abbandonò, chiuse gli occhi restando così, emise un lungo respiro che andava scemando sempre più, il cuore cominciava a rallentare e a normalizzare i suoi battiti e il suo respiro diventava sempre più regolare. La mente era confusa, era stata troppo intensa l’emozione provata, era la prima volta, per questo sconvolgente, sconosciuta, inebriante. Nella sua breve vita, nulla le aveva dato un’emozione più bella e forte di quella appena provata. Quel giorno Fia non l’avrebbe mai più dimenticato, nel corpo e nella mente avrebbe conservato con sé quel ricordo, forse il più bello della sua vita. Fia ora era felice e sorrise, a quindici anni aveva conosciuto l’orgasmo e la vita le sembrò di colpo bellissima, come una cosa nuova e magica che le si apriva davanti con una nuova luce, nuove speranze, nuovi piaceri da scoprire. La sua esistenza non sarebbe stata più la stessa e neanche lei sarebbe rimasta quella di prima. Si sentì grande di colpo. Era stato bellissimo, non era morta, non era successo nulla di cui aver paura, ora anzi si sentiva meglio di prima. La natura sa quello che fa e rispetta le sue creature, al contrario della morale che invece le uccide.

 


… Mosè

Era una calda domenica d’agosto e lui, Mosè, era lì come tutte le domeniche ad aspettare che finisse la messa nella chiesa di San Raffaele per poter ricevere dai fedeli le solite mance. Ma quella sera c’era qualcosa di strano e di inspiegabile dentro di lui, qualcosa che non riusciva a decifrare ma che gli stava procurando una sottile ma sempre più crescente malinconia. Lui, il vecchio abituato da sempre a stare bene con se stesso fino ad arrivare a parlare tranquillamente da solo, ora si sentiva inutile, vuoto, insignificante. La sua vita di colpo, come la scena più drammatica di una recitazione teatrale, apriva il suo sipario verso un futuro pieno di smarrimenti e di paure senza che laggiù, in platea, ci fosse nessuno ad osservarlo. La campana della chiesa nel frattempo scandiva i suoi rintocchi che annunciavano la fine della messa e che si udivano per tutta Enna. E quel suono, che tante volte era di festa per Mosè, ora, al suo orecchio malato, dava l’impressione di essere lugubre, sembrava in perfetta crudele armonia col suo senso improvviso e inatteso di solitudine, accentuando quella sua indesiderata tristezza. La gente usciva dalla chiesa, era tantissima, pareva una folla. I mariti accanto alle mogli, i padri accanto ai figli, i nonni con i loro nipotini, tutti apparivano felici in compagnia, tutti tranne lui, il vecchio e malandato Mosè che non aveva completamente nessuno, né padre, né madre, né moglie, né figli. Ora vedeva davanti nuda e mostruosa la sua solitudine, amara più che mai, e si atterrì di colpo, non era preparato e non sapeva come difendersi, era una sensazione nuova. In fondo era stata una sua scelta quella di vivere da solo che mai l’aveva tradito rendendolo infelice, ma ora che stava succedendo? La gente lo salutava dandogli quello che si sentiva di dare: 1 euro, 2 euro, 5 euro i più generosi. Ma non era di quello che lui aveva bisogno in quel momento. Anche se gli avessero dato miliardi di euro o un tesoro intero, sarebbe rimasto indifferente, forse non ci avrebbe neanche fatto caso. Anzi, quei soldi che riceveva lo facevano sentire ancora più male, aveva l’impressione di essere commiserato, di subire pietà. Ora si sentiva passivo, impotente, inconsistente, un peso morto per sé e per gli altri. Tutte amare sensazioni che accrebbero la sua solitudine che divenne insopportabile, angosciante, sadica. Fra i tanti fedeli che gli regalavano qualcosa, si avvicinò pure una bambina di circa otto anni che gli disse: “Ciao Mosè, prendi questi, sono tuoi” e gli pose nella mano una moneta da 2 euro.

In fondo era un gesto comune a quello fatto da tante altre persone e che quella stessa bambina aveva fatto altre volte. Ma nello sguardo e negli occhi di quella creatura, Mosè captò qualcosa di bello, una luce nuova e inaspettata, speciale, quasi come un messaggio, o meglio ancora un presagio, una lontana e non chiara speranza. Nella vicinanza di quella bambina c’era un germe sia pure in forma latente, di quella giovinezza che lui, avanti negli anni, reputava ormai persa per sempre e che non gli appartenesse più. Non immaginava minimamente (e come avrebbe potuto farlo?), che Dio, o il diavolo, o l’assurdità stessa del destino, lo stavano preparando all’incontro con la gioventù più vera, precoce, esplosiva. Mosè ora si sentiva, grazie a quella bambina inconsapevole del proprio potere, leggermente risollevato e si rianimò. Continuava a ricevere elemosine e poi, quando tutti i fedeli andarono via e la chiesa restò vuota, gli si avvicinò padre Santino e gli disse: “Hai guadagnato un bel po’ di soldini vero? Tieni, questi voglio regalarteli io”. Tirò fuori dalla tasca altri 10 euro e glieli diede. Lui lo ringraziò, lo salutò, prese il suo amico fedele motorino, quasi come fosse il suo cavallo, indossò il solito immancabile casco e si avviò a percorrere quei pochi chilometri che separavano la chiesa dalla sua abitazione.

 

 

… Fia

“Ma come ho fatto ad aspettare tutto questo tempo prima di farlo?”, pensò Fia ma non si seppe rispondere. Aveva scoperto qualcosa di nuovo, di cui non avrebbe potuto o saputo più farne a meno. Non riteneva possibile che il suo corpo potesse donarle tanto piacere. “Grazie Dio per avermi regalato tanta felicità così semplice da ottenere”, era l’unica cosa che si sentiva di dire in quel momento ed era sincera, sincera davvero. Era rimasta contenta, libera, soddisfatta, appagata. Al contrario della prima mestruazione che l’aveva disgustata e spaventata, questa nuova scoperta l’aveva totalmente presa e le era piaciuta.

Si riproponeva di farlo ancora più avanti, ancora e per sempre. Si domandava con una certa curiosità se anche le altre ragazze lo facessero e se provassero lo stesso piacere avvertito da lei. Una morbosa curiosità la spinse ad immaginare anche i ragazzi mentre lo facevano e lo trovò incredibilmente curioso ed eccitante. Poi, all’improvviso, come un fulmine che squarcia il cielo azzurro, si domandò: “Ma se è stato così bello farlo da sola con le mie dita, come sarà farlo con un ragazzo? E se al posto delle mie mani ci fosse il membro di un ragazzo dentro di me cosa proverei?” Questo pensiero la sconvolse di nuovo e la ragazza precipitò nello stesso stato in cui si trovava prima che avesse compiuto l’atto. Il suo cuore riprese a battere velocemente e più furiosamente di prima. Ora Fia, ripiombata di colpo nelle braccia del desiderio, non capiva più nulla e sentiva dentro di sé una leggera paura immotivata. Per un attimo le venne in mente una strana idea, pensò di uscire per strada, di fermare il primo che le capitasse di qualunque età anche vecchio purché non parlasse in giro, e di farlo, per provare quest’altra nuova sensazione convinta che la realtà sarebbe stata più bella della fantasia, lei già questo l’aveva sperimentato sulla propria pelle. Sì, la piccola Fia l’avrebbe fatto in quel preciso istante in cui lo pensò ma un altro pensiero sopraggiunse e la convinse a non farlo. Si stupiva la ragazza di aver anche solo pensato una cosa simile. Ma non era stata la follia di un momento, lei se ne stava rendendo conto perché nella sua mente offuscata e non più lucida, prepotenti s’affacciavano nuovi fantasmi che difficilmente avrebbe potuto scacciare. Nuovi pensieri ancora più oscuri ed inquietanti, ora sconvolgevano e distorcevano la sua immaginazione. “E se lo facessi con due ragazzi contemporaneamente? Proverei un piacere doppio, sarebbe fortissimo, e se lo facessi con una mia amica, in fondo che differenza ci sarebbe tra maschio e femmina. Il piacere non fa distinzione tra sessi. Le mie mani mi hanno dato sensazioni, perché non potrebbero farlo anche quelle di una ragazza? E se lo facessi a lei? Sì, sarebbe bellissimo, io saprei come toccarla. E se al posto di toccare le parti intime di una ragazza toccassi quelle di un ragazzo? E se anziché farlo con la mano lo facessi con la bocca come quando ho succhiato il cuscino?

Quel pensiero che fino a poco tempo fa le faceva schifo, ora la tormentava e la eccitava fortemente. La ragazza si poneva tantissime domande, alle quali però non riusciva a dare nessuna risposta. “Sì, lo farei, sono sicura che mi piacerebbe. Se mi batte forte il cuore quando lo penso, vuol dire che potrei farlo. Quasi quasi ora esco, fermo il primo che capita e gli dico: Senti scusa, posso toccartelo e succhiartelo? Non potrebbe dire di no ad una ragazza bellissima come me, crederebbe di sognare. No, ma cosa mi sta succedendo? Sto uscendo fuori di testa, ma come posso anche pensare una assurdità simile?” Ma non esiste logica che possa giustificare l’istinto. La povera ragazza in bilico tra desideri inconfessabili e sensi di colpa, era sconvolta, in uno stato pietoso. La nuova Fia appena nata, si ergeva maestosa puntando il dito contro la vecchia, cacciandola senza pietà, distruggendola, non volendola più con sé. Sui suoi quindici anni compiuti da poco, cadeva già il primo velo di follia, e che sussulti, che tremiti segreti in quelle sue inquiete notti di fanciulla, quando impaurita e rannicchiata si nascondeva sotto le coperte: la sua prima masturbazione non l’aveva ancora conosciuta, la spaventava ma se ne sentiva attratta,come una cosa nuova e sconosciuta: c’è d’averne paura ma la si va a cercare. La concupiscenza, sotto le sembianze d’una sensuale signora, la rendeva un giocattolo, un barboncino, strumento di piacere nelle sue mani esperte. Ma quella intrigante signora, era per la piccola Fia una regina, la vedeva danzare nei suoi sogni bagnati d’adolescente. Ma paradossalmente voleva svegliarsi da quell’incubo, da quel ghiaccio che l’assaliva. Cercava in lei stessa una via d’uscita ma non esisteva fuga e non c’era posto per nascondersi, non poteva proteggersi. Diversa da ogni altra ragazza della sua età, completamente persa in quella sua terra di nessuno fatta soltanto di solitudine, percepiva che tutto intorno a lei taceva in un silenzio irreale, come un urlo senza voce. Vi era soltanto la sua follia, forse chiara e consapevole, cupe ombre minacciose che si addensavano su di lei travestite da un’atmosfera di lucida estasi. Era il dramma della sua ansia angosciante, la disperazione di tutto il suo essere, forse creato da Dio ma poi lasciato a se stessa, priva di identità, priva di vita, impossibilitata di comunicare, di capire e farsi capire. E continuava a vagare senza meta tra i labirinti della sua mente, immaginando di fare con chiunque sesso senza amore lasciando entrare in lei col pensiero una infinità di corpi uno dopo l’altro, osservando disperata riflesso in uno specchio, quel fantasma che vi era al posto suo. Fia non avrebbe voluto mai essere nata, voleva chiudere gli occhi e scomparire in un attimo, un nuovo e brutto inverno era in lei e le dava la sensazione di crollare da un momento all’altro come una foglia che stava per staccarsi dai rami. La ragazza non trovava le parole per spiegare ciò che aveva, ogni cosa intorno le appariva sadica e crudele. Inutile sforzarsi di essere normale, non poteva fingere a se stessa, non avrebbe mai funzionato. Trascinata dentro un labirinto enorme, aveva l’impressione di vedere stanze tutte uguali, e in ognuna di esse, la attiravano piaceri sempre nuovi. Sembravano dirle: “Entra da noi, esaudiremo qualunque desiderio, non importa che sia proibito o illecito, vedrai sarà bellissimo”. Sbagliare è facile quando un essere umano non sa più chi sia e la ragazza, straniera per sè stessa, non ha saputo o potuto dire no e si è persa in un vicolo cieco. La strada ammaliante del piacere, ora le veniva incontro senza ostacoli, preda inerme della concupiscenza, Fia toccava il fondo pensando di raggiungere la cima. Ormai era schiava del suo istinto, intrappolata nella sua angoscia, vi era un’ombra che la inseguiva, dovunque andasse non la lasciava mai. Era come una danza infernale nella quale, senza fermarsi mai, giravano intorno a lei fantasmi ed incubi. Fia avrebbe voluto scoprire l’origine di quel suo oscuro tormento, avrebbe voluto combattere quelle sue tentazioni, fino a giungere faccia a faccia, con il volto più inquietante del suo male. Sì, voleva scavare nei suoi profondi abissi, tirare fuori il demone a cui apparteneva, e a costo d’impazzire, si sarebbe salvata, sì, avrebbe giurato che ce l’avrebbe fatta, che sarebbe riuscita a salvarsi. Ma in quel momento, si trovava posta esattamente al centro d’una corda, tirata ai lati da lussuria e innocenza. Come un verme strisciava per terra e baciava i piedi del demonio, poi di colpo s’alzava in volo e abbracciava Dio, in bilico tra inferno e paradiso, tra ciò che gli altri chiamano male e il bene, dannata, salvata, ma dannata ancora. La sua anima smarrita, perversa, ora sprofondava dove non vi era luce, nuda nuotava sott’acqua, non riemergeva più. Forse cercava solamente, un’anima che la comprendesse. Fia, disperata, al limite della follia, non capì più nulla e si sentì persa, tremendamente sola senza neanche più la compagnia di se stessa. Prese d’istinto il crocifisso che vi era appeso sul muro sopra il suo lettino, e lo strinse forte al petto seminudo. Forse inconsciamente, cercava una risposta o una consolazione da chi, come le era stato insegnato sin da piccola, era l’unico che potesse dargliela. E si lasciò cadere così, col crocifisso stretto a sé, distendendosi a peso morto sul letto.

Poi si disse sottovoce come se il pensiero parlasse: “Gesù che mi sta succedendo?”. La fede mischiata al desiderio erotico, renderebbe la mente d’un adulto totalmente incapace di comprendere. Figuriamoci quella di una ragazza di quindici anni. Il caldo era opprimente, ma ora Fia sentiva freddo, si sentiva sola e spaurita, svuotata come se le avessero strappato con forza l’anima come quando al mattatoio squarciano un capretto. Chiuse gli occhi e stanca s’addormentò come una principessa bellissima, ancora vergine nonostante tutto, attaccata a quel crocifisso che era diventato per lei il suo rifugio, il suo principe azzurro.

 


… Mosè

Mosè, sopra il suo motorino, stava percorrendo la strada di ritorno verso casa. Ma la tristezza che l’aveva tormentato poco prima e che sembrava gli avesse dato una tregua, si ripresentava nuovamente nel suo animo sotto forma di una voce intima che, divertendosi a tormentarlo, sembrava dirgli: “Ma che te ne fai adesso dei soldi che ti hanno dato? Ora tornerai nella tua baracca, solo come un cane, nessuno verrà a trovarti, sei solo Mosè, vecchio e solo, non lo capisci?” Il vecchio rabbrividì, si sentì raggelare il sangue nelle vene nonostante il caldo d’agosto. Si sentì stordito. Ora provava a guidare con gli occhi chiusi quasi per dimostrare a se stesso di non aver paura di morire ed un uomo, chiunque esso sia, che non teme la morte, non può aver paura neanche della solitudine. Si consolava così il povero Mosè. Ma la solitudine è una brutta compagna, peggio di un serpente, è un angelo che si trasforma in demonio quando uno meno se lo aspetta. Lui lo stava capendo solo ora, a 65 anni.

Mosè, tutto d’un tratto, si rese conto di non essere più forte e sicuro di sé, di essere vulnerabile e solo, avanti negli anni, impossibilitato di rifarsi una vita. Il demonio, o chi per lui, trova terreno fertile in chi, anche inconsapevolmente, è disposto a riceverlo, e così continua a coltivare i suoi tormenti. Mosè riuscì ad arrivare più morto che vivo nella sua catapecchia. Pensò di rifugiarsi nella birra, per affogare i suoi dispiaceri e sentirsi un po’ euforico. Sapeva benissimo che la birra sarebbe stata solo un ripiego momentaneo e che poi si sarebbe ritrovato col solito problema e più solo di prima ma era l’unica soluzione che, in quel momento, la sua mente confusa, gli suggeriva. Aprì quella specie di frigorifero, afferrò con le mani tremanti 5 o 6 bottiglie di birra più calde che fredde e le bevve in fretta una dopo l’altra e in poco tempo, Ma non bastarono a farlo sentire completamente brillo. Allora aprì nuovamente il frigo cercandone altre ma non ne trovò più. Più intontito che mai, uscì fuori. L’aria pura della campagna, leggermente più fresca di sera, sembrava rigenerarlo un po’. Camminò intorno alla casa, inciampò per sbaglio su uno dei tanti gattini pestandogli la coda e l’animale emise un urlo: “Scusami gattino mio, non l’ho fatto apposta, non volevo farti male, sto diventando vecchio e rimbambito gattino mio, tu almeno sei giovane!”

Mosè parlò al gattino col cuore aperto, come si rivolgesse ad un essere umano. E quanto avrebbe desiderato, in quel momento, avere accanto qualcuno per confidarsi, per sfogarsi! Ma la solitudine come anche la vecchiaia non offre, purtroppo, molte possibilità anzi non ne presenta affatto e al vecchio e stanco Mosè non rimase che il gattino come unico interlocutore e l’animale sembrò capirlo e rispondergli con lo sguardo. Sembrava avesse accettato le scuse di Mosè per avergli pestato la coda, lo guardò con due occhietti quasi fosforescenti, e poi, mogio mogio, si allontanò. Mosè fece ancora qualche passo, più barcollante che mai, andò dai polacchi che abitavano poco distanti da lì, nell’unica casa nelle vicinanze, poi tutto il resto era campagna. Avrebbe voluto chiedergli una bottiglia di birra ma, con suo dispiacere, non vi trovò nessuno in casa di domenica sera. Tornò a casa deluso, pensò di fumare qualche sigaretta ma cambiò subito idea, voleva bere e non fumare, lo riteneva più utile. Si ricordò di avere da qualche parte ancora una pastiglia multivitaminica che gli aveva dato una parrocchiana per tirarlo un po’ su e la cercò tra le cianfrusaglie di quella abitazione. La trovò finalmente, era l’unica rimasta, era bianca ma sporca e piena di polvere senza astuccio, non si sapeva neanche la scadenza di quel prodotto ma a Mosè importava ben poco, l’avrebbe ingoiata anche se scaduta da cento anni. Prese un bicchiere più sporco che pulito, gli versò dell’acqua e buttò dentro la pastiglia che doveva essere sciolta per essere presa. Era frizzante, aveva un bel gusto simile alla aranciata, era gassata, poteva ricordare lontanamente la birra. Lui non aspettò neanche che si sciogliesse per intero e la bevve quasi subito, e tutta in un sorso. Ora Mosè, più stremato che mai, era giunto proprio al capolinea. Senza aver mangiato e con sei bottiglie di birra ingoiate a stomaco vuoto unite ad una pillola di vitamine, sfiancato da tutte quelle sue paure nell’anima, si indirizzò verso il suo letto. Trovò, per caso, un crocifisso per terra in mezzo ai tanti stracci che inondavano la sua capanna. Lo guardò chiedendosi: “Cosa ci fa un crocifisso qui? Chi l’ha portato? Forse era dentro la giacca che mi ha dato qualche parrocchiana, magari domani lo riporto a padre Santino in chiesa, lui saprà cosa fare, domani però, ora sono troppo stanco”. Sentiva che la stanchezza ed il sonno stavano prendendo il sopravvento su di lui. Avrebbe voluto posare quel crocifisso sul tavolo ma non ne ebbe la forza. Chiuse gli occhi, arrivò appena in tempo per non cascare per terra, sul suo letto, mai così importante ed indispensabile. S’abbandonò tra le braccia di Morfeo, così, esausto, addormentandosi col crocifisso in mano come un uomo ormai vecchio e malandato, abbandonato al proprio destino che poteva anche morire in silenzio, senza fare rumore, nessuno se ne sarebbe accorto. Ma che per un momento, anche se solo in sogno, sarebbe potuto ridiventare bambino o giovane trovando rifugio in quel crocifisso, trasformato in bellissimo principe azzurro pieno di forza che ormai è vicino alla sua principessa.

 

 

… Fia

Un altro caldo pomeriggio estivo da passare chiusa in casa, completamente sola, in balìa dei propri assillanti pensieri. Ormai era sempre così per lei. Da quando però aveva scoperto le gioie del sesso soddisfacendosi da sola, non aveva più smesso di pensare a quello e non v’era momento della giornata in cui il desiderio o le fantasie più sfrenate non la rapissero. Perfino la notte, quando dormiva, sognava quello e sempre quello. Distesa sul letto, seminuda, lasciava che la sua fantasia galoppasse libera verso prati sconosciuti e senza fine, immaginando di tutto, senza limiti. Almeno il pensiero non lo si può criminalizzare, con la mente Fia avrebbe potuto fare sesso con chiunque e in qualunque modo, nessuno l’avrebbe scoperta o condannata. Sarebbe rimasto un segreto tra la sua mente e il suo corpo. Le più strane fantasie che potessero passare per la mente ad una ragazza, ora le si presentavano davanti con tutta la loro forza, sotto forma di tentazioni, di eccitazione violenta e incontrollabile e, ad ognuna di esse, faceva seguito una nuova frenetica pulsazione dei battiti del suo cuore che aveva ripreso a martellare scoppiandole in petto. Immaginava di essere di fronte a delinquenti brutti che la stupravano a turno, di trovarsi completamente nuda davanti allo sguardo di mille uomini di colore. Questi pensieri, se da un lato la terrorizzavano, dall’altro la eccitavano tantissimo. La fantasia ormai non conosceva più limiti. Immaginava di essere legata ad un letto e di essere presa a schiaffi e pugni, insultata, umiliata. Una fantasia che più che farle paura, la stimolava ancora. Immaginava di essere sodomizzata, un pensiero che le aveva fatto sempre ribrezzo perché animalesco e contro natura ma che ora, pensava le sarebbe piaciuto provare con chiunque le capitasse a tiro. Con la fantasia tutto è lecito e consentito, non si viene condannati e Fia continuava il suo viaggio senza sosta verso l’abisso o il paradiso. Era caldissima ma non per il clima, era il suo corpo in fiamme, era una brace di desiderio, capace di bruciare chiunque l’avesse toccato. “Ma chi può toccarmi all’infuori di me sola?”, pensava la piccola Fia, “Vivo in un paesino isolato dal mondo, peggio di una prigione”. Sì, una prigione e immaginava di trovarsi lì, bellissima e giovanissima, nuda sul lettino di una cella, palpata e violentata da detenuti che sicuramente dovevano avere una gran voglia, vista l’astinenza. Il terrore di trovarsi in quella situazione si mescolò al desiderio di volerci essere e la ragazza arrivò al punto di non capirsi più. Ma una fantasia si accavallava sull’altra senza un attimo di tregua che potesse farla respirare. Sembrava una mitragliatrice che sparava i suoi colpi a raffica, uno dopo l’altro, uccidendola senza pietà. Di tanto in tanto, le passava per la mente di provare a mettere in pratica qualcuna di quelle fantasie ma avrebbe dovuto trovarsi in una grande città dove nessuno la conoscesse per farlo e non certamente in quel paesino della Sicilia dove era conosciuta e stimata da tutti, come una santarellina tutta casa e chiesa. Ma quanto risultano sbagliati, il più delle volte, i giudizi che la gente dà su di noi. Ma risulterebbe difficile per chiunque giudicare una ragazza come Fia che, in fondo, nella realtà, non aveva avuto rapporti sessuali con nessuno. Un’altra ennesima prepotente fantasia, si affacciava nella mente annebbiata di lei. Si immaginò vestita sexy e provocante mentre camminava per le strade di una metropoli e che tutti la guardassero e la spogliassero con gli occhi del desiderio. Le è sempre piaciuto sapere di piacere, di suscitare emozioni. Fia si eccitava se sapeva di eccitare, si sentiva orgogliosa, potente, importante, grande.

Così si alzò dal letto, cercò nella confusione della sua stanzetta, la gonna più corta che potesse avere e la indossò sostituendola al pantalone del pigiama. La vista delle proprie gambe mentre si sfilava i pantaloni per indossare la minigonna, la eccitò fino alla spasimo. Aveva sempre saputo di avere delle bellissime gambe, lisce, calde, tornite che, in quel momento, le parvero ancora più belle e le toccò delicatamente con le mani, poi ci posò sopra le labbra, la lingua. Quanto avrebbe voluto e desiderato che fossero le mani e la bocca di un altro a sfiorarla così come stava facendo da sola! Ma era sempre e solo lei. Indossò la gonna, si guardò allo specchio e si vide bellissima da far venire un infarto a chiunque l’avesse vista in quel modo. “Se uscissi così con questa gonna, magari senza slip sotto e sculetterei davanti al bar dove si siedono sempre quei vecchi bavosi di Leonforte, li farei morire tutti in un sol colpo, stecchiti come zanzare dopo una spruzzata di insetticida”. Questa fantasia la trovò non solo divertente ma anche eccitantissima. Si immaginò di essere seduta in minigonna e con mezzo seno di fuori, bellissima e giovanissima come sempre, sulle ginocchia di quei vecchi che le palpeggiavano le gambe, i seni, le natiche, tentando di infilarle le loro lingue in bocca. Formulò la conclusione che l’avrebbe fatto se la fantasia si sarebbe potuta trasformare in realtà senza conseguenze. Presto la voce si sarebbe sparsa in tutto il paese, sarebbe stato uno scandalo, in poco tempo l’avrebbero saputo anche i suoi genitori e chissà cosa avrebbero pensato di lei, la loro ingenua piccolina Fia. Non voleva dare loro questo dolore. Lei era una brava ragazza, erano i suoi pensieri che sfuggivano ad ogni logica ma obbedivano solo all’istinto. Se l’avessero scoperta a farsi mettere le mani addosso da quei vecchi, l’avrebbero tutti etichettata come “puttanella” oppure come “troietta” quella che se la fa con tutti, pure con i vecchi, Fia la “puttanella” di Leonforte.

Ma se quella parola prima l’avrebbe offesa e umiliata fino a farla piangere, ora le piaceva terribilmente, anzi essere chiamata in quel modo la eccitava ancora di più, e forse sarebbe stata felice e orgogliosa di essere considerata da tutti per quello, che anche se solo nella fantasia, si sentiva di essere. Finalmente l’avrebbero capita, compresa, riconosciuta. Non avrebbe mai più dovuto fingere con se stessa e con gli altri, ma era il giudizio che gli altri le avrebbero dato che la spaventava. Fia continuava a guardarsi allo specchio trovandosi bella e seducente. Avrebbe voluto indossare collant e reggicalze nere ma non ne aveva mai avute in casa e poi sarebbe stato un peccato coprire quelle bellissime gambe che aveva. Pensò però di truccarsi più sexy che mai, era curiosa di vedere come stesse, non lo faceva quasi mai, era sicura di diventare una vera bomba del sesso, non conosceva la parola modestia. I suoi non erano in casa e non avrebbe potuto vederla nessuno. Era diventata una strana ragazza Fia, viveva immersa nel suo mondo virtuale e sconosciuto a tutti nel quale nessuno poteva anche solo immaginare di entrarvi anche perché troppo difficile e complesso per essere decifrato. Esisteva solo lei, il suo corpo, il suo specchio e le sue fantasie e null’altro. Fia era isolata da tutti e da tutto, sia mentalmente sia geograficamente. Era tremendamente e spaventosamente sola. Alla base del suo comportamento vi era la solitudine, che colpisce chiunque e a qualunque età, sotto forme diverse, alcune delle quali incomprensibili, almeno in apparenza. La ragazza correva verso la stanza della mamma, cercava il rossetto. Scelse quello più lucido e più rosso, tornò nella sua camera, si mise davanti allo specchio e se lo passò in fretta sulle labbra, era una novità visto che non lo faceva quasi mai, era una ragazza acqua e sapone dal viso pulito. Ma quella apparteneva al passato, morta e sepolta, ora viveva una nuova Fia, tutta diversa, se in meglio o in peggio lo lascio giudicare al lettore. Mentre si passava il rossetto, si inumidiva ogni tanto le labbra con la punta della lingua. Esagerò col colore ma divenne bellissima. Sembrava una Lolita, una ninfetta da amare, una bambina col corpo da donna. Se in quel momento ci fosse stato un bravo pittore, avrebbe creato il ritratto più bello e seducente che sia mai stato fatto al mondo in tutti i tempi. La ragazza si alzò in piedi, cercò nel disordine di un cassetto una borsetta, poi un paio di scarpe nere quelle col tacco più alto, sostituì la giacca del pigiama con un top corto ed attillatissimo, tornò a guardarsi allo specchio e cominciò a sculettare, tenendo in una mano la borsetta e girandola con una mimica e uno sguardo superiore alla più esperta e brava delle prostitute e poi disse: “50 euro prego, io valgo tanto, sono carne fresca, una delizia, una rarità”.

Allo specchio la ragazza si giudicò divina, si stupì di se stessa e di quello che stava facendo e pensando, ma era sola, lei e soltanto lei, nessuno sapeva, nessuno vedeva. Immaginava che sarebbe potuta diventare ricca in poco tempo se solo avesse messo in pratica quella fantasia che stava realizzando per gioco. Ma non erano i soldi che la attiravano in quel momento, ma l’idea di poter essere considerata da tutti quello che, sia pure in fantasia, si sentiva di essere. Trovarsi in strada, vestita in quel modo a soli quindici anni, la faceva letteralmente impazzire di desiderio.

Si vedeva mentre saliva sulla macchina d’un cliente, immaginava di accontentarlo in tutto e per tutto, di intascare soldi e ancora soldi. Finalmente si sarebbe sentita importante, adulta, cercata, valorizzata, idolatrata, venerata. “La vera puttana sono io perché lo faccio per piacere mentre quelle che chiamano così lo fanno per i soldi e per necessità”, pensava la piccola Fia, e lo pensava con orgoglio. L’idea di vendersi per la strada così in quel modo e senza alcun pudore la eccitava ancor di più, rendendola letteralmente folle di desiderio.

Non resistette più, corse in lavandino e si lavò la faccia, togliendosi il trucco che colava lentamente come cera che si scioglie ed era ancora più attraente. Decise di farsi un bagno per togliersi di dosso il sudore e quei bollenti spiriti. Ma l’acqua sulla pelle nuda anziché calmarla la stimolava di più, pensava quanto sarebbe stato bello fare l’amore sotto la doccia o in una vasca da bagno. Era un’ossessione ormai, un continuo delirio senza fine e senza uscita.

Ritornò nella sua stanza, asciugandosi in fretta e furia, passando per la cucina vide un coltello, una strana idea le balenò nella sua testolina che sembrava quella di chi si sveglia ancora sotto l’effetto dell’anestesia, dopo un intervento chirurgico. “E se me lo conficcassi nella pancia? Così almeno metterei fine a questo tormento e avrei un po’ di pace”. Sapeva che non l’avrebbe mai fatto e non ebbe paura di averlo anche solo pensato anzi ci rise subito sopra, sapeva di essere, nonostante tutto, una ragazza di carattere forte e giudiziosa. Ma anche la persona più forte e sicura di tutto l’universo, può diventare una formica dinanzi all’istinto sessuale. “Perché morire per una stupidaggine del genere?, pensava Fia “A chi non piacerebbe scopare? Dovrebbero uccidersi tutti allora e il mondo finirebbe e poi se non si scopa non nascono i figli. Io sono nata per una scopata, anche i miei genitori l’hanno fatto, tutti l’hanno fatto, solo io non l’ho mai fatto e che male c’è a desiderare di farlo? Anzi sarei anormale se non lo desiderassi”. Questi pensieri di Fia, apparentemente puerili ed infantili e d’una semplicità elementare nella forma, avevano nel contenuto una profondità di vedute di alto spessore, ma una ragazza di quindici anni avrebbe potuto esprimerli solo in quel modo e con quelle parole. “E se mi facessi sterilizzare?”, continuava a pensare ironicamente Fia. Tornò a guardarsi allo specchio quasi seminuda, bellissima e parlando ad esso come se potesse sentirla, disse queste parole: “O specchio delle mie brame, sono io la più bella del reame, lo so e non c’è bisogno che me lo dica tu ma se solo potessi toccarmi, non posso essere sempre e solo io a farlo”. Lo specchio ovviamente non rispose ma le rimandò indietro la sua immagine più seducente che mai. In quel momento Fia avrebbe voluto essere brutta, grassa, piena di lentiggini, con baffi e cellulite, forse non si sarebbe eccitata col proprio corpo e non avrebbe avuto tutti quei pensieri, avrebbe raggiunto la pace dei sensi, “Forse è per questo motivo che alcune si fanno monache”, pensava ridendo. Forse sono malata e devo curarmi. Devo parlare con uno psicanalista. Così mi farebbe stendere sul suo lettino ed io lo provocherei e mi farei scopare da lui. Ecco, ci risiamo. Non è possibile che il sesso entri in ogni cosa. E se avessi il demonio in corpo? Forse è meglio chiamare un esorcista ma mi scoperei anche lui”. D’un tratto le venne in mente un’idea che la scosse subito. Vide il computer, si ricordò di avere l’abbonamento per navigare su internet 24 ore su 24, lo aveva fatto suo padre che lo utilizzava per lavoro, e lo accese. Il suo disegno era quello di entrare in quelle famose chats per trovare qualcuno con cui poter dialogare di cose erotiche, ovviamente, tanto lei avrebbe mantenuto l’anonimato senza essere né vista né riconosciuta e avrebbe potuto confessare i suoi tormenti e magari fare l’amore via telematica, anche quella poteva considerarsi una fantasia e lei era la regina delle fantasie.

L’idea di dialogare di cose intime con uno sconosciuto, la prendeva moltissimo. Questo eccitante progetto, però, finì sul nascere. Presa dall’enfasi di quel pensiero, aveva dimenticato che le sue scarse conoscenze informatiche non le avrebbero permesso di farlo. Né poteva chiedere l’aiuto di suo padre per ovvi motivi. Decise di non arrendersi e di usare lo stesso internet limitandosi a quello che sapeva fare. Tutta eccitata, e non era una novità, cerco sul computer un motore di ricerca e digitò le parole: sexy, porno, hard. Questo le venne più facile. Ora una infinità di immagini oscene peggio delle sue fantasie erotiche, scorrevano nel computer e, cosa più tragica, nella mente di Fia. Quelle strane immagini che prima lei non avrebbe mai esaminate perché giudicate schifose, ora l’attiravano terribilmente, aumentando a dismisura la sua libidine: “Sono tutti malati questi che si vedono nel computer?”, pensava. “Questi si divertono, mamma mia, ma che fanno quelli e quelli? Tutti al mondo lo fanno, solo io no!”. Si immaginava di essere lei al posto di ogni donna che vedeva e la invidiava. Le sarebbe piaciuto fare l’attrice porno e distribuire al mondo intero tramite internet le sue foto di nudo in modo che tutti potessero desiderarla ed eccitarsi col suo corpo. Sognava ad occhi aperti di fare un calendario. Era arrivata sul punto del non ritorno, e stava cominciando ad accarezzarsi le parti intime, quando sentì il rumore dei passi dei suoi genitori che stavano tornando. Chiuse in fretta il computer, cercò di sistemarsi come meglio poteva, per fortuna si era tolta il rossetto e corse ad aprire la porta. Si trovò davanti la mamma che la guardò e colse subito in quel viso stravolto qualcosa di strano e misterioso, ma non avrebbe mai potuto capirne il motivo.

Le disse soltanto: “Fia, ti senti bene? Va tutto bene?”. Lei rispose subito: “Sì mamma certo che va tutto bene, non c’è nessun motivo per cui debba andare male, non preoccuparti, c’è troppo caldo, non lo sopporto, non si respira”. Sembrava, in quel momento, essere tornata la bambina di prima, quella che i genitori conoscevano e ritenevano che fosse ancora. In verità il caldo Fia lo sentiva davvero, ma era un altro tipo di caldo che neanche se si fosse gettata in un mare ghiacciato del polo nord, avrebbe potuto eliminare. E pensare che la ragazza si era sempre confidata con la madre, non le aveva mai nascosto nulla, non aveva segreti di nessun tipo, era una ragazza troppo tranquilla. Avrebbe voluto aprirsi con lei raccontandole del dramma intimo che stava vivendo ma non trovava il coraggio. Come avrebbe potuto farlo? Con quali parole? Come avrebbe potuto rivelare tutte le sue sfrenate fantasie a una signora all’antica e di grande moralità quale era sua madre? Cari lettori, devo dirvi con tutta onestà che, pur sforzandomi, non so se Fia avesse fatto bene a non dire nulla alla madre o se invece l’avrebbe dovuto fare. In ciascuno dei due casi avrebbe sofferto qualcuno. Si sarebbe sentita meglio Fia ma sarebbe morta la madre se l’avesse detto, avrebbe sofferto in silenzio la ragazza ma sarebbe stata tranquilla la madre, nel secondo caso. Comunque se Fia non l’aveva fatto, oltre alla mancanza di coraggio, era soprattutto per il grande amore verso la madre, non avrebbe voluto ferirla così bruscamente, ne avrebbe avuto il rimorso e si sarebbe sentita doppiamente in colpa.

Penso cari lettori, che all’origine di questo dramma familiare, vi sia l’assoluta mancanza di dialogo tra genitori e figli. Si può parlare di tutto ma quando si tocca la sfera sessuale, subentra il tabù che blocca tutto. Se Fia avesse potuto parlare di questo argomento del tutto naturale, liberamente con la propria madre sin da piccola, tutto questo non si sarebbe sicuramente verificato. Gli adulti sono autorizzati a insegnare tutto ai minori, la storia, la geografia, l’educazione, tutto tranne il sesso. Dopo aver dato quelle risposte sbrigative alla madre, Fia corse nella sua stanzetta, si sentiva terribilmente sola e smarrita nonostante la sua bellezza, nonostante i suoi quindici anni. Non poteva aprirsi con nessuno, neanche con i genitori che erano le persone più care che avesse al mondo e che l’avevano vista crescere. Chiuse la porta a chiave e si seppellì lì dentro nel suo mondo, con le sue cose e con la sua tristezza. Si gettò sul letto a pancia in giù, appoggiando la testa da un lato sul cuscino e poi pianse, pianse, pianse e ancora pianse disperatamente. Se non poteva sfogarsi con nessuno con le parole, le restavano pur sempre le lacrime per poterlo fare. Ora la donna sensuale era diventata bambina, aveva riacquistato la sua vera età, solo per un momento, ma almeno l’aveva riacquistata.

 

… Mosè

Ma si può essere soli in qualunque età, la solitudine come la morte non risparmia proprio nessuno. C’era qualcun altro che si sentiva solo e confuso, nonostante avesse molti più anni di vita. Era Mosè. Si svegliò, dopo aver dormito a lungo, e lo fece con un mal di testa fastidioso. Era mattina inoltrata. Si ricordò di aver bevuto molta birra, della strana giornata di ieri ma le sue paure si riaffacciavano nuovamente in fondo alla sua anima. L’uomo tornò a sentirsi solo già all’inizio del giorno. “Devo uscire”, pensò, “non posso stare ancora a consumarmi con i miei pensieri, sono troppo assillanti e non li reggo più. Devo camminare un po’, parlare con qualcuno, distrarmi. Ma che mi sta accadendo? Perché?”. Pensò di lasciare da parte il motorino e di camminare un po’ a piedi, forse sarebbe servito a scaricare la tensione accumulata. Il giorno era spuntato da poco, l’aria era ancora fresca, gradevole da essere respirata.

Il vecchio fece un lunghissimo respiro e fece entrare dentro di sé quanta più aria possibile come se volesse abbracciare e trasportare in lui tutto l’universo per non sentirsi più solo. Nella campagna e tutto intorno la natura pareva viva e si esaltava mostrando alberi fioriti, animaletti festanti, regalando odori profumati. Quel vecchio solo, assente, incompreso, camminava a testa in giù pensieroso, avvilito, scoraggiato. Sarebbe stato un quadro bellissimo poterlo ritrarre in quel modo, con quel panorama, ricco di poesia, di suggestione. Ma lui, era talmente soggiogato dalla sua solitudine, da non riuscire a gustare neanche quello scenario. Pensò, nel tentativo di distrarsi, alla sua gioventù, si ricordò di quando era giovane, forte e bello. Si vide ritratto col pensiero, in una fotografia con l’aspetto vigoroso che aveva allora. Attimi di esistenza vissuta e mai più ripetibile, affidandosi alla memoria, sembravano tentare ancora un momento di vita. Ma la nostalgia che ora si univa alla già presente solitudine, lo stava cominciando ad assalire. Decise allora di affidarsi alla compagnia del fumo d’una sigaretta. Sfilò dalla tasca dei pantaloni con la mano l’accendino, si portò in bocca una sigaretta, l’accese e fu un vero delitto preferire il fumo all’aria fresca e salubre di campagna, in quell’ora del giorno. Ma Mosè, alla sua salute, teneva ben poco. Appena arrivato in città si sentì salutato da chiunque l’incontrasse. “Ciao Mosè, come mai a piedi, si è guastato il motorino?”. E lui rispondeva: “No! Ogni tanto fa bene camminare a piedi”. L’altro annuì e aggiunse: “Sì vero, però dovresti levarti anche il vizio delle sigarette”. Mosè riprese il suo cammino strano e senza meta.

“Mosè?”, lo chiamò un altro, “ti ricordi di quella cagnetta che stava partorendo? Ieri ha fatto dei cuccioli tanto carini. Ne vuoi regalato uno tu che stai in campagna? L’abbiamo chiamato Argo come il cane di Ulisse nell’Odissea? Lo vuoi? So che ti piacciono gli animali!”. Ma in quel momento l’ultima cosa che lui pensava erano i cani: “No! Grazie, ho già tanti gattini da curare, mi bastano e mi avanzano quelli”. Così dicendo riprese a camminare. “Mosè, Mosè, l’hai preso il caffè? Vieni che te lo offro io!”. A un bel bicchiere caldo di caffè non si può rinunciare anche quando ci si sente soli e Mosè entrò con l’amico nel bar e fu salutato subito, dalla cassiera, dal barista, dai presenti. In fondo non era poi così solo come credeva. Bevve il caffè tutto d’un fiato e si sentì rianimare. Poi, ringraziò l’amico e riprese a camminare. Trovava molto più rilassante camminare a piedi anziché usare il motorino che nonostante tutto, come un amico fedele, gli mancava, era tanta l’abitudine di portarselo appresso.

 

… Fia

Stavano cenando quella sera a casa di Fia, lei, suo padre, sua madre. Un po’ di verdura, della frutta, niente di più, non si aveva molto appetito con quel caldo.

Fia mangiava a testa bassa, non riusciva ad alzare gli occhi, quasi si sentisse in colpa e volesse nascondere ai genitori, il segreto di tutti quei pensieri strani che le invadevano il corpo e la mente. “Cos’hai Fia?”, le chiese con garbo il padre. “Niente papà!”, rispose lei. “Questa ragazza sta troppo sola alla sua età!”, commentò ancora lui, “Così il tempo non le passa mai, non vorrei cadesse in depressione, mi sembra un po’ chiusa ultimamente”. Lei finalmente alzò gli occhi verso il padre dicendogli: “Ma dove devo andare? A Leonforte ci sono solo quattro gatti tutti anziani. Anche ad Enna non ci sta nessuno, sono tutti partiti in villeggiatura. Quasi quasi non vedo l’ora che cominci la scuola, così almeno rivedo i miei amici e sto un po’ con loro”. La giustificazione della ragazza fu sufficiente a convincere entrambi i genitori, tanto che l’argomento fu chiuso. Ma ne aprì subito un altro sua madre dicendole: “Senti Fia, domani verranno a farci visita lo zio Aldo e la zia Lucia di Bergamo, con il loro figlio Ivan. Staranno solo un giorno da noi perché poi andranno a Palermo per partire alla volta dell’Egitto, nella loro casa di villeggiatura”. Questa notizia inaspettata interessò Fia che chiese subito alla madre: “E dove dormiranno? La nostra casa non è un albergo”. La mamma un po’ alterata per quella strana considerazione della figlia le rispose: “Gli zii nel letto grande in camera degli ospiti, tuo cugino dormirà nella tua stanza se ti va, basta spostare il lettino e trasferirlo da te”. Fia perplessa le chiese: “Nella mia stanza?” A questa discussione a due, non prendeva parte il padre che ascoltava in silenzio come se la cosa non lo riguardasse e fosse solo un problema tra donne. “Sì, Fia se non ti dispiace, nella tua stanza, è solo per una notte, poi l’indomani mattina col presto se ne andranno. E poi è un bambino calmo, educato”. Fia rimase ancor più perplessa di prima. I genitori di lei non potevano neanche lontanamente anche solo immaginare il motivo di quello strano turbamento della figlia. E forse, ma solo in quel momento, non l’aveva compreso neanche lei stessa. “Ma quanti anni ha ora Ivan?” chiese la ragazza e lo fece con una faccia curiosa ed interessata. “10 anni circa”, rispose la madre, “il tempo passa in fretta per tutti, tu ti sei fatta già una signorinella, sembra l’altro ieri quando eri ancora bambina”. Una strana e inattesa eccitazione colse nell’intimo Fia. Il suo cuore, troppo spesso messo a dura prova in quel periodo, riprese a pulsare con una certa insistenza e il sangue a scorrere più veloce. Un cambiamento così rapido che si trasferì subito nel suo sguardo, anche la sua faccia arrossì ma dall’eccitazione e non dalla vergogna. Sia il padre, sia la madre notarono in lei questo evidente cambiamento ma non potevano capire o intuire null’altro di più del semplice cambiamento esteriore. Solo Fia sapeva benissimo cosa le stesse succedendo e capì, proprio in quel momento, come si soffre quando ci si sente tremendamente soli pur avendo accanto i propri genitori. La ragazza perse di colpo la fame e il suo corpo la fece sprofondare nuovamente nel dramma, bastava un nonnulla ormai per renderla schiava. Si ritirò in fretta nella sua camera e si lasciò cadere sul letto a testa in su, spalancando due occhi grandi grandi verso il lampadario del soffitto. La madre bussò subito alla porta: “Fia, tutto a posto, non mangi più?”. La ragazza le rispose nella maniera più scontata: “No mamma, non ho più fame, sono sazia, mi riposo un po’, qui c’è più fresco”. La madre se ne andò. Ma altro che fresco! Fia era più accalorata che mai. Non era il clima ma il desiderio che si era impossessato nuovamente di lei. Cominciò subito a ricordare con la mente il fisico, i tratti del viso di suo cugino. Ma se lo ricordava ancora bambino ma anche che non era brutto in faccia. “Ora sarà più grande, chissà se ha mai avuto una ragazza, se ne ha mai baciato una, magari ha lo stesso desiderio che ho io, i maschi si sa pensano molto di più delle femmine a queste cose, chissà se si tocca anche lui, alla sua età forse sì, o no? Avrà un pisellino. Ma cosa sto pensando? Perché?”. Fia si riprese come volesse rimproverarsi da sola. “Ma è mio cugino di primo grado, sangue del mio sangue, è ancora un bambino”. Ma l’idea che fosse del suo stesso sangue e che fosse ancora piccolo, anziché farla desistere, la eccitò di più. A lei, tutto ciò che sembrava proibito, le faceva crescere il desiderio. La possibilità di avere un contatto fisico con un bambino alle prime esperienze, sicuramente vergine come lo era lei, rinvigorì i suoi osceni propositi.

Ora anche l’incesto attirava Fia, una sessualità a 360 gradi, orientata verso tutto e tutti che in nessun paese del mondo, anche in quelli più evoluti, si poteva riscontrare. In nessun posto tranne che nella testa e nei pensieri della piccola Fia. Per la ragazza non era importante la persona con la quale fare del sesso, anzi non contava proprio nulla, ma il piacere che lei avrebbe potuto ricavarne. Era narcisista anche in questo.

Lei, almeno con la fantasia, avrebbe potuta farlo con tutti, persino con un animale se fosse stato in grado di darle piacere, aveva completamente cancellato il lato sentimentale del rapporto, separando nettamente il sesso dall’amore. Fia continuava a dialogare con i propri pensieri: “Che me ne frega se è mio cugino, potrei farlo pure con mio fratello se ce l’avessi. Magari. Almeno mi sarei potuto confidare con lui. Che importa se è mio fratello? È sempre un ragazzo ed io una ragazza perché non farlo? Perché con un estraneo sì e col proprio fratello a cui si vuole più bene no? Dovrebbe essere il contrario”. Per un attimo le venne in mente suo padre col suo petto peloso, le mani incallite ma ebbe molta paura di quel pensiero e lo cancellò subito dalla testa e ritornò al pensiero del cugino. Nella vita e specialmente nel sesso, tutto ciò che è proibito attira terribilmente ma solo perché lo si vieta altrimenti non lo si prenderebbe neanche in considerazione.

Se Fia anziché aver vissuto a Leonforte, fosse nata a Stoccolma, ad Amsterdam, a Bangkok, ovunque ci si ami liberamente, forse non si sarebbe ridotta così, forse! Perché potrebbe far parte del suo Dna e sarebbe stata così in ogni posto dell’universo.

Fia era una ragazza precoce e molto fantasiosa. Se nelle proprie fantasie erotiche è consentito e lecito tutto, così non lo è nella realtà specialmente nel caso di suo cugino. Se lei, in un raptus di follia sessuale, avesse abusato di suo cugino di soli 10 anni, cosa sarebbe successo? Che avrebbero pensato di lei i suoi genitori, i suoi zii? Questo pensiero la spaventò e servì, se non altro, a calmarla un po’. Ma la ragione, quasi sempre figlia della morale, non è mai in grado di frenare l’impeto e la forza dell’istinto. La ragione e quindi la morale è variabile nel tempo e nelle usanze perché è la legge degli uomini che cambiano sempre opinione. Mentre l’istinto obbedisce alle leggi della natura ed è la parte più vera di noi che non potrà mai cambiare e che ci porteremo sino alla morte. Per questo l’istinto, sinonimo di giustizia, dovrebbe sempre prevalere sulla ragione e il sesso, espressione vera dell’istinto, dovrebbe annullare sempre la morale.

Nella società attuale che è tutta al rovescio, accade esattamente il contrario. “Ci mancava anche mio cugino a tormentarmi! Chi lo porta qui da me dopo due anni? Perché non se ne restava a Bergamo in mezzo ai polentoni come lui o se ne andava direttamente in Egitto senza passare da qui?”. Fia aveva ripreso i suoi monologhi che sarebbero stati pane quotidiano per qualunque psicologo ma non certamente per lei che non ce la faceva più. “Ma io me ne frego delle conseguenze, mentre dorme, mi infilo nuda nelle sue coperte e chi si è visto si è visto. Non può rifiutarmi, sono troppo bella”. Fia era fuori di testa. Se quel povero bambino avesse saputo dove avrebbe dovuto dormire, probabilmente non si sarebbe mosso da Bergamo. Ma Fia, il più delle volte era tutto fumo e niente arrosto, per sua fortuna. La ragazza accese il televisore ma fu subito nauseata da quegli stupidi che si divertivano a dire stronzate davanti ad una telecamera, e lo chiuse quasi subito. Probabilmente se avessero proiettato un film pornografico, sarebbe rimasta incollata là davanti. Il pensiero di suo cugino era il vero padrone della sua mente: “Cosa importa l’età? O 10 anni o 100 anni, l’importante è che, almeno per una volta, ci sia qualcuno in camera mia, la vicinanza di un corpo che non sia il mio”. È tremendo pensare come una ragazzina dell’età di Fia, abbia ridotto tutto a un puro piacere fisico, sensuale.

A quell’età, di solito, si è molto sentimentali e romantici, ma Fia era di un altro pianeta. Non esistevano per lei i fotoromanzi d’amore ma le fantasie erotiche. La si poteva criticare, commiserare, condannare, prenderla anche per pazza, perversa o malata ma nessuno al mondo, si potrebbe permettere mai di dire che non sarebbe stata un’ottima amante.

Quel ragazzo che l’avrebbe amata o quell’uomo che l’avrebbe sposata, sarebbe stato l’individuo più fortunato di questo mondo.

 


… Mosè

Nonostante fosse una tarda mattinata, non vi era molta gente per le strade. Enna d’agosto offre ben poco, è un paese di montagna e la gente scappa via verso il mare per le ferie. Restano per lo più anziani e qualche contadino. Mosè continuava a passeggiare in quel deserto. Passò vicino alla piazzetta della cittadina e vide dei bambini giocare al pallone. “Mosè, Mosè”, i ragazzini lo riconobbero e lo chiamarono subito: “Vuoi giocare in porta? Ci serve un portiere, ma non farti fare troppi goals”. Mosè accettò subito, gli piaceva la vicinanza e la spensieratezza della gioventù, l’avrebbero risollevato un po’ e non poteva certo immaginare quanto.

“Indossa i guanti Mosè, tieni il cappellino se no ti viene un’insolazione”.

Lui si mise in porta e cominciò la partita. Era ridicolo vedere quell’anziano giocare con i ragazzini come fosse uno di loro oppure era poetico dipende da quale angolazione si guarda l’obiettivo. Ma quando ci si accorgeva che quel vecchio era lui, nessuno poteva più meravigliarsi. Di Mosè ci si poteva aspettare proprio tutto! Per la verità qualche goal lo prese e forse anche più di uno, ma in compenso, fece anche alcune belle parate. Il tempo passò in fretta, fin quando si fece mezzogiorno, l’ora più calda del giorno. Il sole ardeva, non vi era un alito di vento, i ragazzi erano stanchissimi, stremati, morti di sete e si precipitarono di corsa per bere alla fontana. Mosè, stanco anche lui nonostante giocasse in porta, li seguì e andò a bere per difendersi dal caldo. Così la partita finì. Il vecchio salutò i ragazzini dicendo loro di essersi divertito un sacco, e lo diceva con sincerità. Era sempre stato sincero, ma non era mai sceso a compromessi con nessuno. La sincerità era la sua migliore virtù ma non era la sola. Camminò ancora un po’ salutando ed essendo salutato da chiunque lo incontrasse. Era famoso lui, Enna senza Mosè sarebbe come Roma senza il Colosseo, o come Pisa senza la Torre. Era quasi un monumento per quella città. Arrivò in quella villetta dove era solito fermarsi per mangiare qualcosina e si sedette a riposare su una panchina. Non vi era nessuno intorno, era ora di pranzo e quei pochi abitanti rimasti in città, erano nelle loro case a mangiare. Ma lui non aveva per niente fame, era abituato a digiunare a lungo, ma non a stare senza sigarette. Così, ne accese una e dopo un’altra ancora e passò molto tempo a farlo. Avrebbe anche voluto bere una bottiglia di birra, ma a quell’ora i negozi erano chiusi. La birra e le sigarette erano una vera passione per lui. Questa era la sua vita, sempre la stessa, monotona e uguale. L’unica novità stava nel fatto che aveva lasciato a casa il motorino. Era tutto scontato. Sarebbe rimasto da solo e forse avrebbe dormito un po’ sino alle 16, ora in cui sarebbe dovuto presentarsi in parrocchia e poi nuovamente a casa, la solita routine di sempre. Eppure quella vita che l’aveva appagato fino ad allora scorrendo come una linea dritta senza sussulti o impennate di nessun tipo, ora gli si mostrava triste senza che lui ne afferrasse il motivo. Forse gli mancava una compagna, un vero scopo per vivere. Forse cercava Dio senza saperlo o era il pensiero della vecchiaia che si avvicinava sempre più che lo spaventava. È sempre difficile per chiunque, non solo per lui, poter penetrare negli intriganti meandri del proprio io, per individuare poi il motivo della solitudine. Forse ogni uomo nasce, cresce e muore solo, crede di non esserlo aggrappandosi agli altri, ma si ritrova ancora più solo costretto a contare solo su se stesso. Si è soli da vecchi e da bambini, da ricchi o da poveri. Lo si è anche in mezzo a tanta gente, tra milioni di persone, o anche dormendo accanto alla propria donna e perfino quando si fa l’amore, perché non si può essere dell’altro solo quando si gode. Anche Mosè si sforzò di cercare dentro di lui, il vero motivo della solitudine che l’affliggeva. Ma non è facile per niente, e non vi riuscì neanche lui. E se anche gli fosse apparso il famoso genio della lampada chiedendogli cosa potesse fargli avere per renderlo felice, lui sarebbe rimasto completamente muto, non avrebbe saputo cosa cercargli.

 

 

 

… Fia

Quella notte, Fia non riusciva proprio a prendere sonno, anche l’insonnia adesso, non bastava tutto il resto. Si sentiva senza amici, sola con i suoi pensieri che come fantasmi danzanti, aleggiavano su lei e che non riusciva a scacciare. Non sapeva più se considerarli amici o nemici quei pensieri, li odiava con tutta se stessa ma nello stesso tempo non poteva farne a meno. Pur facendola soffrire, le procuravano un’adrenalina che la faceva sentire viva e la rendeva più bella.

Ma più ancora dei suoi pensieri, la faceva stare male il fatto di non poter parlare con nessuno. Era un delitto, un pugnale nell’anima doversi tenere tutto dentro. Avrebbe desiderato un’amica del cuore, forse con lei avrebbe avuto il coraggio di aprirsi ma non l’aveva. Si consolava pensando che presto sarebbe cominciata la scuola e avrebbe ritrovato le sue amiche, lei era una ragazza socievole, si sarebbe aperta con qualcuna di loro che le ispirasse fiducia. Avrebbe anche voluto provare a parlare con un prete in confessione, lì non l’avrebbe saputo nessuno. Ma al momento di entrare in chiesa, perse il coraggio, non ne ebbe la forza e tornò indietro. Ora Fia pensava a suo cugino, finalmente qualcuno per tutta una notte nella sua stanza. In realtà non era suo cugino inteso come persona a stimolarla e a tenerla sveglia quella notte ma quello che poteva rappresentare per lei, ovvero un altro corpo capace di baciarla, accarezzarla, farle raggiungere l’orgasmo sostituendosi a lei. Era narcisista anche in questo. Voleva provare solo piacere più che darlo. O forse non aveva ancora sperimentato che dare in amore è molto più bello che ricevere. Se al posto di suo cugino ci fosse stata un’altra persona, l’eccitazione per lei sarebbe stata la stessa. Finalmente quella lunga notte passò ed arrivò il giorno fatidico. Fia si svegliò dopo qualche ora di sonno ma si sentiva in forma ugualmente, carica e pimpante. Miracolo dei poteri del sesso. L’idea che sarebbe arrivato suo cugino di soli 10 anni, la teneva in ansia, in continua agitazione, sembrava una sposina nella prima notte d’amore.

Si organizzò e la prima cosa che fece fu quella di vestirsi in maniera provocante, tanto sarebbe rimasta in casa e l’avrebbe potuta ammirare solo suo cugino. Scelse per l’occasione una gonna color mattone, non eccessivamente corta per non esagerare, c’erano pur sempre i suoi genitori e i suoi zii, ma che metteva ugualmente in mostra le sue cosce bellissime.

Del resto, qualunque cosa indossasse le stava bene. Aveva un fisico che faceva sempre figura, da fotomodella direi, anche se non era una ragazza eccessivamente alta, 1,75 metri circa. Ma aveva delle forme armoniche in ogni parte del corpo e una carica d’erotismo che, unite insieme, non potevano passare inosservate.

Seguiva un’alimentazione sana e genuina e, anche se non praticava sport, aveva dalla sua parte la bellezza dei suoi quindici anni e della sua nascente, direi fin troppo, sensualità che la rendevano viva e attraente. Posso anche essere d’accordo nell’ammettere che i desideri sessuali, quando sono troppo accentuati, possono sfociare nella mania e nella perversione, anche se penso che l’unica vera perversione sia l’astinenza, ma non si può non ammettere che gli stessi desideri portino energia e vitalità. Dove vi è il richiamo dei sensi, vi è vita. Il cuore che batte forte, il sangue che scorre veloce, il respiro che cresce; l’esatto contrario della morte, della vecchiaia e della depressione. Il sesso porta sempre vita anzi è la fonte della vita, si nasce per quello, mentre la guerra è la distruzione della vita. L’eroismo si compie con un orgasmo e non con uno sparo. Ma, questa società in cui viviamo, come al solito non smentisce la propria ignoranza, legalizzando la guerra e condannando la libertà sessuale. L’eroe della cosiddetta Patria che in realtà non è altro che un assassino, viene insignito con una medaglia d’oro al valor civile mentre un adulto che dà amore ad un’adolescente viene sbattuto in carcere. Personalmente continuo a considerare Fia, la protagonista del mio racconto, una ragazza sana e perfettamente normale. Dovrebbe soltanto mettere un po’ di ordine ai suoi desideri e trovarsi un ragazzo da amare in tutti i sensi. Ma ha una vita davanti per farlo e in più ha il dono della bellezza. Sono assolutamente convinto sulla normalità di Fia, anormale lo è forse chi pensa il contrario.

Alla gonnellina color mattone decise di abbinare una magliettina estiva di color rosso scuro, molto attillata che metteva perfettamente in evidenza i suoi bellissimi seni da adolescente, praticamente perfetti, forse vederli in quel modo coperti li rendeva ancora più desiderabili.

Quando una bella ragazza che decide di sedurre un ragazzo, riesce a mettere bene in mostra il seno e le gambe, l’opera è compiuta. Ora Fia si guardava allo specchio, lo aveva fatto più del solito quella mattina, e come sempre non poté fare a meno di notare quanto fosse attraente. Si toccò per un attimo i seni immaginando che al posto delle sue mani, ci fossero quelle inesperte del cugino e rabbrividì. Poi si alzò un po’ maliziosamente la gonna e si accarezzò le gambe immaginando di trovarsi seduta sulle ginocchia di lui e bastò quest’altro pensiero per farla impazzire di desiderio e si bagnò tutta. Ma doveva controllarsi, c’erano i suoi genitori in casa. Per non pensare più a questo, andò in cucina e fece colazione, fette biscottate integrali con la marmellata di albicocca spalmata di sopra. Stava finendo di lavarsi i denti, bianchissimi come perle lucenti che rendevano bellissimo il suo sorriso e la sua bocca   meritevole di essere baciata a lungo, quando sentì il rumore della macchina degli zii. Il momento tanto atteso, era arrivato finalmente.

 

 

… Mosè

Era sabato pomeriggio, padre Santino, tutto festante e sorridente, s’avvicinò a Mosè: “Domattina si parte caro Mosè. Ho organizzato una gita con tutti i parrocchiani della chiesa. Si va a Siracusa, colazione a sacco e in serata si rientra. Saremmo felici se venissi anche tu, cosa sarebbe una gita senza di te? Te l’ho detto solo ora per farti una sorpresa. Si paga 20 euro a testa ma tu non dovrai pagare nulla”. Mosè restò un po’ sorpreso da quell’invito, non se lo aspettava e disse al padre: “Ma non lo so, devo pensarci”. Il prete perse un po’ quell’aria gioviale di prima: “Ma cosa devi pensare? Vieni in chiesa domani mattina puntuale alle 6, lascia il motorino qui in sagrestia e si parte tutti insieme col pullman. L’appuntamento è per tutti qui, davanti alla chiesa”.

Padre Santino si allontanò senza neanche ascoltare la risposta e a Mosè non restò che accettare. “Ci mancava anche la gita a Siracusa”, pensava ritornando a casa col motorino, “ma forse servirà a distrarmi un po’”, e si autoconvinse che sarebbe stato giusto andarci anche per non dare un dispiacere al parroco e ai fedeli che l’avrebbero voluto con loro. Quella domenica mattina tutta San Raffaele era pronta, destinazione Siracusa. Appena videro Mosè, le solite feste. In fondo quei parrocchiani lo rispettavano e gli volevano bene anche se a modo loro, forse avevano anche qualche difetto, come tutti del resto, ma in compenso avevano moltissimi pregi. Il caso o forse il destino volle che Mosè trovasse posto sul pullman al fianco di una ragazza abbastanza socievole e carina di circa 25 anni, figlia di una signora appartenente alla parrocchia. Anche Mosè era sempre stato un tipo socievole e loquace e non si annoiò affatto durante il viaggio perché parlò con quella ragazza di qualunque cosa, sentendosi tranquillo e sereno, ritornando ad essere felice come un tempo. Forse lui aveva bisogno della gioventù perché si sentiva ancora un po’ bambino dentro ed è davvero triste ritrovarsi adulti e per di più anziani senza essere cresciuti. Il destino, quel giorno, gli aveva dato una mano mettendogli accanto una ragazza molto più giovane di lui, così come aveva fatto servendosi di quella bambina che fuori dalla chiesa gli fece l’elemosina salvandolo un po’ dalla disperazione, e così come si era servito di quei ragazzini che l’avevano invitato a giocare a calcio con loro. A volte la vita ci manda segnali che noi, tutti chiusi nel nostro pessimismo, non comprendiamo o non riusciamo a cogliere. Ma Mosè non poteva capirlo chiaramente perché non sapeva ancora quello che avrebbe vissuto più in là grazie alla gioventù. L’alba stava sorgendo, nell’aria vi era una brezza silenziosa, intorno leggiadre ali. La sua luce, filtrando attraverso i vetri del finestrino, illuminava ogni cosa intorno, si spargeva sulle colline, sulle montagne, su quella terra brulla, ovunque ci fosse vita o cosa, avvolgendo il paesaggio d’una malinconica bellezza. Mosè guardava da dietro i vetri quel magnifico panorama e sentiva di amare ancora di più quella terra splendida, quella Sicilia che ora considerava come fosse davvero la sua terra natìa, sentiva di amarla veramente tanto e gli arrivava il suo calore. Muta di parole e sguardi, la sua mente ora vagava lontano, quasi in penombra, dove il pensiero non aveva confini e tutto poteva sembrare reale. Così, col bisogno del ricordo e del pianto, pensava al suo passato e alla sua perduta giovinezza, al suo presente fatto di tempo fuggente, al suo futuro sconosciuto ed incerto nelle sue mille paure. Quanta dolcezza nel guardarsi dentro e perdersi in se stessi! Quali emozioni nel vagare liberi tra solitudini e silenzi profondissimi! Immaginava di trovarsi su di un treno, un treno che correva lontano nei binari della sua vita, lungo la strada del suo dolore. Un treno che andava via velocemente, proprio come i suoi anni, il suo tempo che scorreva, come un lampo che attraversa in un attimo ogni cosa. Dal finestrino immaginava di vedere montagne invalicabili di paure, pianure non più verdi di speranze invecchiate, laghi salati di pianto amaro. Osservava fiumi, violente cascate trascinare via tutto quanto, mari in tempesta come i suoi pensieri irrequieti. E poi ancora gallerie coprire il sole come i suoi momenti bui, miraggi di felicità nei deserti della sua esistenza, il cielo dove non aveva mai volato, lontane isole esplorate solo nei sogni, nebbia lontana e foschie senza amore, senza fortuna. E poi notava file di alberi e nuvole passare come un susseguirsi di emozioni, paesi e città fuggire malinconicamente come i ricordi pù belli, prati verdi dove correva felice sull’erba da bambino, rivedeva sua madre aspettarlo a braccia aperte, gli sembrava di udire nel vento la voce di lei che lo chiamava. Il treno correva la sua corsa senza fine, senza ritorno, senza fermate e Mosè continuava ad immaginare di fuggire via anche lui sopra quel treno, di allontanarsi sempre più senza sapere dove, certo di perdersi solo come un vagabondo senza famiglia. Il vecchio, completamente rapito da quel suo malinconico viaggio, ora sentiva il bisogno di chiudere gli occhi e sospirando fra sè nel silenzio, pronunciava piano queste parole: “Addia casa mia d’infanzia! Addio amici della mia adolescenza! Addio giovinezza perduta per sempre! Quanta struggente nostalgia mi avete lasciato! Com’è triste non poter tornare indietro! Ma perchè la vita è una corsa continua? Perche la fine di un viaggio non c’è mai? Mi fermerò soltanto quando giungerà l’autunno con la sua folata gelida. Come foglia ormai ingiallita sarò strappata dal mio albero, trascinata nel vento”. Poi, di colpo, Mosè si scosse e lentamente cominciava a destarsi da quel viaggio nel profondo della sua anima, del suo essere così fragile, così indifeso rispetto alla grandiosità della sua vita. Ritornò così nella realtà sopra quel pullman, in quella gita, con quella ragazza seduta a fianco. Ma si sentiva cambiato dentro. Aveva lasciato piovere amore su di lui aprendo la porta del cuore; quanto vi era di puro, di meraviglioso, ora poteva riceverlo.

Il viaggio fu piacevole anche perché l’aria condizionata rendeva tutto più gradevole. Dopo un paio d’ore, arrivarono a Siracusa città piccola ma ricca di bellezze classiche, tutta da ammirare. La giornata era calda ma non soffocante come quella di Enna. La vicinanza del mare portava un venticello fresco d’agosto che era un vero e proprio toccasana per tutti. Mosè rivide dopo tanto tempo il mare e capì la sua importanza. Fu come aver ritrovato un fratello, un amico, un padre. Quell’immensa distesa d’acqua salata con barche, navi, gabbiani, gente che pesca e che si fa il bagno, riconduce alla libertà, all’infinito. Per un attimo attribuì ad Enna il motivo della sua infelicità, città senza mare e senza orizzonti. Se chi, nato in una città di mare, per un motivo o l’altro dovesse allontanarsi e poi rivederla dopo tanto tempo, si renderebbe subito conto del valore di quella infinità di acqua. È sicuramente bella anche la montagna ma il mare è un’altra cosa. Mosè osservava la superficie del mare aperto brillare, luccicare al sole, sembrava ricoperta da una miriade di specchi; la giornata era bellissima, serena e regalava quello spettacolo. Il profumo di salsedine, il rumore delle onde che si infrangevano contro gli scogli, quella schiuma bianchissima, tutto agli occhi di Mosè era come sinfonia, una dolce melodia che lo sollecitava a tornare, col pensiero, in seno ai suoi ricordi d’infanzia e il vecchio si lasciò trasportare, si lasciò andare al suono delle onde, all’eco di mille sirene. Si lasciò cullare docilmente e dolcemente, aggrappandosi a quei momenti d’infanzia lontana, come alghe marine che succhiano caute mammelle di roccia. E quegli attimi di malinconia, quelle visioni incantate e favolose, pietrificate nei ricordi, sembravano, come per incanto, prendere forma e acquistare vita. E quegli istanti che nel cuore di Mosè avevano lasciato una traccia, si rincorrevano tra loro, insieme alle cose, alle persone familiari, ai sogni di più remote stagioni. La memoria appariva così come immagine sovrapposta al presente e i suoi impulsi, ritornando dal passato, s’intrecciavano sinfonicamente, trovavano una finale armonia. Sembrava tutta avvolta nel mistero e nella meraviglia la vita di Mosè. Con genuino ed infantile stupore, il vecchio osservava ogni manifestazione della natura, fino ad esserne rapito. Con sensibilissima attenzione, nel silenzio, ascoltava le voci, i suoni anche i più tenui delle piccole cose intorno a lui e le illuminava con la luce del cosmo. Affascinato e curioso percepiva la suggestione, la religiosità, il mistero nascosti in esse. Ai suoi occhi non apparivano sempre traducibili ed afferrabili, ma sciogliendosi in musica, in sospiro,   gli riempivano ugualmente l’animo d’immenso. Il vecchio sentiva in quegli attimi di poesia che la solitudine non era soltanto sua ma era presente in ogni angolo dello sconfinato universo e non esiste gioia più grande del sentirsi parte di questa immensità, pur consapevole della propria piccolezza, e piangere l’intima fragilità, in un pianto accorato e senza speranza. Al vecchio Mosè, ora nasceva dentro un’emozione fortissima e aveva voglia di ridere, di correre, di abbracciare il mondo, si sentiva vivo. libero, felice. Ormai più nulla aveva un valore per lui. Stava scoprendo la dolce ebbrezza del non senso; non gli importava della seduzione della fede nè del ragionamento della scienza. era totalmente felice e la sua gioia scaturiva proprio dalla sua solitudine che ora riusciva a proiettare nel cosmo, e la solitudine dell’universo era la sua stessa solitudine, e gli dava conforto, lo rendeva grande. Mosè, tornato con l’immaginazione bambino, si vedeva mentre felice e spensierato si divertiva a giocare con le onde, costruiva castelli di sabbia, guardava con quegli occhietti di bimbo curiosi e attenti, quella distesa immensa di acqua, fino a perdersi con lo sguardo in lontananza, laggiù dove si disperdeva il mare oltre l’orizzonte, sognando con la fantasia di volare via senza fermarsi, per scoprire il mondo come un’onda senza mai una spiaggia, come un gabbiano che vola nel vento, più in alto che può, sulla cresta dell’onda, sull’orlo dell’oceano. Spariva, quel gabbiano, all’orizzonte, lungo la scia dei pensieri del vecchio, sulle ali dei suoi ricordi, alla scoperta di terre lontane, di nuovi segreti, nuove sensazioni. Era un nuovo giorno, era tempo di partire, bisognava migrare, finalmente era giunta esultante la stagione del gabbiano che dimorava in lui. Era la sua fantasia, l’anima così folle ma così particolare di Mosè che si faceva largo, che creava spazi, che cercava, in fondo alla dolcezza, nella disperazione, la speranza d’una fuga complice. Quella gita domenicale inattesa, fece molto bene all’animo di Mosè, si sentì risollevato, rinato, libero come un tempo. La solitudine sembrava sparita di colpo. Rideva e scherzava con tutti ma soprattutto con un gruppo di giovani in gita con lui. Erano ragazzi e ragazze con colazione a sacco e qualche chitarra sulle spalle, di età compresa fra i 14 e i 25 anni. La gioventù aveva il potere di renderlo spensierato, di cambiarlo. Di questo fatto, lui stava cominciando a prenderne consapevolezza, desiderava decisamente la vicinanza e la spensieratezza della giovinezza. Un’anima d’artista, uno spirito libero come lui, poteva essere compreso e trovarsi bene solo con chi è ancora giovane soprattutto nel fisico. “Ma può essere che mi piacciano così tanto i giovani e me ne renda conto solo ora?”. E i giovani, a loro volta, mostravano chiaramente di accettarlo, davano segni evidenti di gradire la sua presenza. Era un 65 enne in mezzo ai ragazzi, ma si comportava come fosse più piccolo di loro.

La giornata passò in fretta, volò come spesso accade per le cose della vita che ci sono più care e la comitiva di San Raffaele, dopo aver girato in lungo e largo per tutta Siracusa e averne gustato nei minimi particolari le antiche bellezze artistiche, si accingeva a tornare alla sua base, destinazione Enna, chiesa di San Raffaele. Mosè avrebbe voluto che durasse più a lungo ma tutto nella vita ha una fine, non può durare per sempre, purtroppo. E pensare che all’inizio lui era titubante nell’affrontare quella gita. Ognuno riprese sul pullman lo stesso posto dell’andata e Mosè ritrovò la stessa ragazza con la quale, nel frattempo, aveva instaurato un’amicizia più solidale e confidenziale e, dopo un paio d’ore, tutti fecero ritorno, felici e contenti di aver vissuto una serena giornata in compagnia e diversa dalle altre. Fra i più contenti della comitiva, vi era proprio lui, il vecchio Mosè. Riprese il suo motorino dalla sagrestia dove l’aveva lasciato in prestito e via verso casa. Quella sera si sentiva meno solo. Aveva capito, se non altro, che la vicinanza dei giovani era l’unica medicina per poterlo guarire. Non vi era in quel momento nulla nella vita capace di renderlo più felice. Arrivato a casa, si sdraiò sul letto ma si rialzò quasi subito, si affacciò fuori e respirò a pieni polmoni l’aria fresca della sera e poi si sdraiò nuovamente sul letto ricordandosi e rivivendo i momenti felici della gita appena trascorsa. E fu così che si addormentò, anche perché un po’ stanco per la gita, e dormì, dormì tranquillo e sereno, placidamente. Ne aveva tutto il diritto e ci riuscì finalmente. Mentre dormiva aveva l’espressione di un bambino.

 

… Fia

Corse subito senza perdere un istante fuori e per prima cosa vide la macchina degli zii, una grande e costosissima fuoristrada color azzurro metallizzato targata Bergamo. Poi si trovò di fronte la zia appena scesa dalla macchina, la salutò baciandola come si usa fare di solito per educazione e in segno di affetto. La zia spalancò gli occhi meravigliata e le prime parole che le uscirono dalla bocca furono: “Mamma mia quanto ti sei fatta bella, fatti guardare, sei diventata una signorinella, una bella ragazza, sei cresciuta tanto in due anni”.

Fu quello un complimento che Fia aveva già ricevuto tante volte e da parecchie persone, amici e parenti e ormai non gli faceva più caso, già lo sapeva da sé che era bella ma soprattutto a lei interessava di piacere agli altri sessualmente.

In quella situazione poi, il complimento della zia, lei avrebbe voluto sentirlo dalla voce di suo cugino. Vide anche suo zio e lo salutò nel solito modo ma ormai non resisteva più, cercava disperatamente l’oggetto dei desideri, ovvero suo cugino Ivan, era curiosa ed eccitata nello stesso tempo.

Ed eccolo suo cugino, appena sceso dal sedile di dietro della macchina. Un bambino nel vero senso della parola, capelli rossicci e corti un po’ ricci, viso lentigginoso da chierichetto con un accento decisamente del nord, un fisico magro non sviluppato. Era un bambino in tutto e per tutto, nel corpo e nella testa che dimostrava anche meno dei suoi 10 anni. Fia rimase molto delusa, era esattamente l’opposto di come lo avrebbe voluto. Pareva privo di ogni germe di malizia. Dava l’impressione del tipico bambino, tutto casa e chiesa che giocava ancora con i soldatini. Fia lo salutò molto freddamente e lui si può dire che manco la guardò, restò indifferente a quella bellissima ragazza che avrebbe dovuto dormire nella stessa stanza con lui. E pensare che la ragazza sognava un cugino sveglio e precoce come lei, che non aveva dormito la notte, che aspettava con ansia quell’attimo, che si era fatta bella e provocante per lui, tutto sprecato, tutto inutile, che delusione! Nella vita le cose più belle accadono solo quando non le si aspettano e mai quando le si programmano ma lei non aveva ancora l’esperienza per capirlo. Quando si è troppo carichi di desiderio represso, ci si lascia coinvolgere con niente e per niente. Fia aveva fatto i conti senza l’oste, si era come sempre lasciata guidare dalla fantasia che non è sempre come la realtà. Ma, nonostante la delusione, non si arrese per niente, era una ragazza testarda che, quando si metteva in testa qualcosa, la otteneva prima o poi e a qualunque costo. “Bisogna accontentarsi di quello che passa il convento, anche se è un bamboccione lo voglio fare lo stesso, lo svezzo io, so come fare, lo faccio diventare grande, gli farò vedere di cosa sono capace”. Questo fu il primo pensiero a dir poco delirante, dettato dalla rabbia dopo aver visto il cugino. Lo odiava terribilmente senza che lui le avesse fatto niente di male. Sapeva però di poterlo dominare e forse anche convincerlo dall’alto dei suoi quindici anni. In realtà era troppa la differenza fisica tra i due. Lei aveva già l’aspetto d’una donna, lui sembrava ancora un bambino. Qualsiasi altra ragazza dell’età di Fia, mai e poi mai sarebbe stata attratta da quel bambino, anzi di solito le ragazze cercano quelli più grandi di loro, tanto più che si trattava di un cugino di primo grado. Ma per Fia la parola normalità era cancellata dal suo vocabolario. Quello che le passava per la testa non poteva comprenderlo nessuno, né i suoi genitori, né i suoi zii, tanto meno suo cugino e in questo caso, neanche io. Genitori e parenti di lei parlarono di tutto, avevano molte cose da dirsi dopo anni che non si vedevano.

Fia guardava spesso il cugino per scoprire qualunque minimo turbamento ma lui si mostrava impassibile, neanche la guardava, sembrava che lei non esistesse per lui. Una mazzata per la vanità di Fia. Ogni tanto qualche occhiata gliela dava lo zio ma non seppe capire la natura di quello sguardo, però arrivò alla conclusione che si sarebbe fatta palpare volentieri dallo zio pur di fare un dispetto al cugino. Ma fu un pensiero senza alcun fondamento che morì sul nascere. Lei desiderava suo cugino, non sopportava di non essere desiderata e si caricò ancora di più. Lei, che quando camminava per strada, a scuola faceva girare anche le statue, che si sentiva addosso gli sguardi famelici dei maschi che la spogliavano e la violentavano con gli occhi, lei il sogno proibito di tutta Leonforte, ignorata così da un bamboccio. Ma non si voleva dare per vinta. Ad un tratto, sua madre, accorgendosi che quei discorsi stavano annoiando i due ragazzi, disse alla figlia: “Fia perché non fai vedere la tua camera a tuo cugino e il lettino dove dormirà stanotte. Ivan non farci caso alla confusione, mia figlia è molto disordinata”. Fia, che non aspettava altro, non se lo fece ripetere due volte, afferrò il cugino per la mano tanto da spaventarlo per l’impeto di quella presa e lo trascinò con sé nella sua stanza. Bastò quel semplice contatto delle mani, per mandarla letteralmente in visibilio. Se avesse potuto, gli sarebbe saltata addosso, l’avrebbe spogliato e violentato, sarebbe rimasta tutta la notte abbracciata con lui a gemere e a sospirare di piacere. Ma era solo un’altra ennesima fantasia priva di riscontro nella realtà. Nel momento in cui stringeva la mano del cugino capiva di aver bisogno di qualcuno che la toccasse e da toccare a sua volta. Era troppo tempo che aspettava e non poteva più attendere. Così cominciò con le sue malizie d’adolescente in erba, a tentare di stuzzicare il cuginetto, tesseva la sua tela del peccato.

Entrati insieme nella stanza, si guardarono per un momento in faccia, poi lei non perse tempo nel suo proposito anche perché curiosa di vedere come reagiva il bambino, la intrigava quel gioco, voleva sapere il finale. Per prima cosa si sedette sul lettino dell’ospite e gli disse mentre lui restò in piedi davanti a lei: “Qui dormirai tu, ti piace?”. Si sedette accavallando le gambe una sull’altra, alzandosi il più possibile la gonna, mostrando il color bianco delle mutandine, muovendo i seni il più possibile ma senza toccarli. “Ti piace o no questo lettino?”, glielo chiese di nuovo con uno sguardo seducente ed una voce calda e sensuale, aveva una bellezza folgorante in quella posizione e in quel momento. Il cugino aveva sotto gli occhi una giovanissima dea del sesso e dell’amore pronta per lui, le gambe, il seno, gli occhi, la bocca,le mani, lo sguardo, tutto quel ben di Dio poteva essere suo e subito se solo l’avesse voluto. Qualunque essere vivente, un prete, un ferito, un moribondo, un angelo, in quell’attimo, non avrebbero potuto resisterle, forse persino un morto sarebbe risuscitato dalla tomba pur di vederla, tutti proprio tutti tranne lui che rivelò tutta la sua ingenuità e totale infantilità. Il ragazzo non capì assolutamente nulla delle intenzioni della cugina, non seppe apprezzare il suo corpo anzi non ci fece neanche caso, non la guardò neppure, osservò solo il lettino dicendole che gli piaceva. Invano la ragazza provò a fare finta di stirarsi per tirare avanti bene in mostra i bellissimi seni, a passarsi la lingua tra le labbra, a mostrare maliziosamente il sedere. Le provò tutte, non tralasciò nessun tentativo ma fu tutto senza risultato.

Fia aveva perso la sua battaglia e forse anche la guerra. Può darsi anche che il cugino non reagisse a quelle sollecitazioni morbose perché la considerava una parente stretta ma in quel contesto io credo che anche il miglior padre del mondo, non sarebbe potuto rimanere indifferente nell’osservare la propria figlia comportarsi in quel modo. È vero che sarebbe sangue del proprio sangue ma è altrettanto vero che la carne è sempre carne e ha le sue debolezze.

Fu un duro colpo per Fia. Per lei, lui non era suo cugino o un bambino, ma un corpo che ha rifiutato un altro corpo, il suo. Per la prima volta in vita sua si sentiva rifiutata e messa da parte e forse, per lei, paradossalmente fu un bene perché si calmò ridiventando serena.

Se fosse stata una ragazza brutta e indesiderabile, probabilmente non avrebbe avuto tutti quei tormenti, sarebbe stata una ragazza tranquilla come tante altre. Era la consapevolezza di essere bella, il sapersi desiderata che dava origine a tutte le sue fantasie. Ma Fia non arrivò con la sua intelligenza a capire tutto questo,a decifrare il vero motivo di tutte le sue sofferenze. Era la sua vanità, il suo narcisismo la causa di tutto. Se l’avesse capito, Fia sarebbe guarita. E invece lei seppe pensare solo questo: “Sarà gay, non c’è altra spiegazione, per rifiutare una bella ragazza come me”.

La vita a volte è davvero paradossale. Chissà quanti altri ragazzi avrebbero potuto accontentare Fia. Ma l’incomprensibile e assurdo destino, le manda forse l’unico che non può farlo. Fia ormai si era arresa all’evidenza, i suoi sensi si erano calmati, era diventata la cugina normale che doveva essere, solo che si mostrava scontrosa e arrabbiata con lui. Il ragazzo notò ma non arrivò a capire le ragioni di questo suo totale cambiamento e cercò di instaurare con lei un rapporto più cordiale, ma lei si mostrava fredda e scura in viso. “Che musica ascolti? Che CD hai? Posso accendere lo stereo?”, le chiedeva lui ma Fia neanche rispondeva. Il ragazzino arrivò persino a chiederle se poteva dormire nella sua stanza temendo che la cugina non fosse contenta. Se, per assurdo, il ragazzo in quello stesso momento, si fosse spogliato e le avesse detto: “scopiamo” tutto sarebbe cambiato in un solo attimo e lei sarebbe stata la ragazza più felice del mondo. Fia si consolò da quella delusione pensando che presto sarebbe ricominciata la scuola e lì sicuramente sarebbe stata apprezzata e corteggiata come meglio meritava. Fra tanti ragazzi che le sarebbero venuti dietro, poteva scegliersi il più simpatico e fare con lui quello che suo cugino Ivan le aveva negato, giustificando con la parola “amore” quello che avrebbe fatto solo per sesso. Il pensiero della scuola la rendeva immediatamente felice. Un nuovo mondo le si apriva di fronte. Poteva scoprire il sesso con tutti, chiunque l’avrebbe amata: compagni della sua e di altre classi, professori, bidelli e persino il preside e riprese a volare con la fantasia. La mattina passò, il pomeriggio anche senza che succedesse nulla tra lei e suo cugino. Lei si era convinta che era solo un bambino che puzzava di latte ma, se non altro, lo trattava meglio, non lo reputava più responsabile e quasi quasi lo giustificava. I desideri che si erano assopiti per tutto il giorno, tornarono a tormentarla la sera, quando si avvicinava l’ora di andare a letto. Dovettero coricarsi presto perché l’indomani mattina gli zii e il cugino, all’alba sarebbero dovuti partire per Palermo per poi volare alla volta dell’Egitto. “Buona notte!”, dissero gli zii e i genitori ai due ragazzi e chiusero la porta. “E chi può dormire?”, pensò Fia.

Il fascino della notte è chiaro a tutti. Il buio, le ombre favoriscono la tentazione, il peccato, si pensano e fanno cose che di giorno sarebbero censure. I pensieri notturni stazionano nella mente di anime normali figuriamoci in quella di Fia dove tutto veniva amplificato. Con uno scatto di nervi, la ragazza aprì la luce del comodino accanto al suo lettino e si tolse di colpo il pigiama restando in mutande e reggiseno bianchi. Quella luce appena accennata, si rifletteva su quel corpo seminudo rendendolo straordinariamente seducente. Anche uno scheletro o una vecchia corazza, sarebbe risuscitata pur di toccare quel corpo dalle forme perfette. Ma lui, il ragazzino, l’unica cosa che seppe dire fu: “Ma tu dormi così?”. E Fia, delusa più che mai: “C’è caldo, dormo sempre così io”, gli rispose. Lui, come se niente fosse successo, si rigirò dall’altro lato e si riaddormentò.

Fia tornò ad ammirare quel suo corpo splendido illuminato a malapena da quella luce fioca e si eccitò da sola continuando a non comprendere proprio l’indifferenza di suo cugino. Tornò a pensare alla scuola e a tutte le esperienze e le scoperte sessuali che avrebbe potuto fare e si sentì in agitazione. Chiuse la luce e anche gli occhi e lasciò che le sue dita sfiorassero le parti intime abbandonandosi a quel piacere che avrebbe voluto condividere con altri ma che gira e rigira doveva limitare a se stessa. Nel momento dell’orgasmo emise un lungo gemito che non trattenne pur sapendo di avere vicino, nella stessa stanza, suo cugino. E perché avrebbe dovuto farlo? Tanto lui era talmente ingenuo da non capire neanche quello che lei stesse facendo.

 

 

… Mosè

Mosè uscì di casa di buon mattino e col suo motorino. Era di buon umore ma una sottile e lieve tristezza simile alla solitudine, cominciava a farsi sentire dentro di lui e a nascere lentamente e progressivamente. Il vecchio, ben presto, ritornò a sentirsi solo con i suoi pensieri. Aveva una giornata intera davanti, quel giorno non doveva andare neanche in parrocchia, il parroco era fuori Enna, sarebbe ritornato il giorno dopo. Pensò di provare a cercare dei giovani per poter dialogare un po’ con loro come aveva fatto nella gita a Siracusa, era l’unico modo per tornare allegro ma dove trovarli? Le scuole erano chiuse, i ragazzi tutti fuori città in vacanza. Passò da quella piazza dove qualche giorno prima aveva giocato a calcio con dei ragazzini. Ma non ci trovò nessuno, solo la fontana lì vicino che con un ritmo monotono e paranoico, sputava fuori la sua acqua. Lui si chinò e bevve un po’. Ma una strana idea del tutto nuova gli sconvolse improvvisamente la mente obbligandolo a farsi una strana domanda mai fatta prima: “Ma che sto diventando un vecchio porco che cerca giovani? Un maniaco sessuale? Ma li cerco solo per parlarci o perché mi sento attratto dalla freschezza dei loro corpi?”. La sincerità sempre presente nel modo di essere e di pensare del vecchio Mosè, lo spinse ad ammettere a se stesso che li cercava per entrambi i motivi. La vicinanza di una ragazza giovane e probabilmente anche di un ragazzo, facevano scattare in lui intense sensazioni, strane per certi versi, che lui non poteva reprimere o ignorare. Il desiderio di risentirsi giovane, la voglia di vincere la solitudine, la freschezza di quei corpi, il confronto fra due età lontane vecchiaia e giovinezza, la poesia d’un uomo avanti negli anni che si aggrappa ancora all’odore della gioventù tramite loro, una lunga astinenza sessuale e altri motivi simili, tutti messi insieme, avevano fatto sì che lui, a 65 anni, desiderasse fortemente i giovani e ne prendesse chiaramente consapevolezza.

Questa scoperta, se pure tardiva, non lo sconvolse affatto anzi non lo turbò minimamente, era stato sempre un uomo di vedute libere. Giudicò questa sua passione del tutto normale e giustificabile. “Che mi devono piacere i vecchi? A chi è che non piace la gioventù? E poi ci sono io vecchio, non ne voglio altri, voglio solo giovani, giovanissimi”.

Il vecchio ora avrebbe voluto piangere ma non vi riuscì. Nella sua vita non aveva pianto quasi mai, non vi riusciva proprio, le lacrime non erano in grado di scendere dai suoi occhi. Il desiderio del pianto non scaturiva dalla consapevolezza dei propri gusti ma dall’impossibilità di poterli soddisfare vista l’età e che quindi sarebbero stati per lui ulteriore fonte di solitudine e disperazione. Una reazione del tutto emotiva lo spinse a sostituire il pianto col riso e così scoppiò improvvisamente a ridere senza senso come se avesse visto una scena comica e rideva, rideva, continuava a farlo senza fermarsi e sempre più forte tanto che le poche persone che lo incontravano per strada, attribuirono quella sua folle risata al gran numero di bottiglie di birra che secondo loro, si era bevute. Magari fosse stato così! Ma lui non era affatto ubriaco o forse lo era ma non di birra ma di qualcosa che non avrebbe potuto bere. L’unica cosa positiva di tutto questo fu l’aver scoperto la vera causa della sua solitudine, ma come porvi rimedio alla sua età? La natura ha creato i vecchi attratti dai giovani ma non il contrario, o forse l’ha fatto, non lo so!

Mosè aveva chiaro in mente quello che veramente voleva. Una ragazza giovane e possibilmente bella, non importava l’età, al suo fianco che gli desse dolcezza, disponibilità ad ascoltarlo e perché no soprattutto calore fisico. Il sesso è una medicina miracolosa per tutti, giovani e vecchi. Mosè ora non doveva combattere solo contro la solitudine ma anche con i suoi desideri sessuali che si erano risvegliati, come in un giovane. Le ragazze belle o brutte, di solito preferiscono avere la compagnia dei loro coetanei, come potevano desiderare un vecchio come lui, per giunta trasandato e malandato? Mosè sprofondò nel dramma. Si sentiva morto, cadavere,mummia e vecchio, terribilmente vecchio di mille anni. Ma non era la consapevolezza della propria vecchiaia che lo spaventava e lo faceva sentire triste ma il fatto che tale vecchiaia non gli consentiva di poter amare una giovane. Nella vita si può essere soli per mille motivi, e questo è uno dei tanti. La gente, se avesse saputo la vera ragione della solitudine di Mosè, non l’avrebbe sicuramente giustificata e nemmeno l’avrebbe aiutato ma gli si sarebbe rivoltata contro condannandolo, aumentando così la sua solitudine. Era questo il vero dramma che si univa al dramma. Ora Mosè camminava barcollando per le strade quasi deserte di Enna, più solo che mai. Tentava di consolarsi pensando che si trattasse solo di un desiderio passeggero dovuto alla follia e alla solitudine della terza età e che sarebbe sparito presto ma sapeva dentro di sé che non era così. Ma che altro poteva fare? Forse quella fu l’unica volta nella sua vita, in cui scese a compromessi.

 

 

… Fia

“Fia, vuoi uscire con noi?, andiamo ad Enna”, chiese la madre alla ragazza per non farla restare per troppo tempo chiusa in casa. “No mamma, preferisco restare qui, magari più tardi mi farò una passeggiatina”. E così Fia restò sola per l’ennesimo pomeriggio d’agosto. I suoi zii erano partiti portandosi con loro quel bamboccio di suo cugino. “Meglio così, non lo voglio vedere mai più”, pensava. Quel ragazzo non le aveva fatto nulla di male, almeno volontariamente. Sdraiata nel suo lettino a faccia in su, nella solita posizione di meditazione, cercava ora di mettere un po’ di ordine nella sua vita e soprattutto nei suoi pensieri e lo doveva fare da sola come sempre. Il suo viso lunare, avvilente, etereo, mascherava quel suo sentirsi creatura persa. È tremendo cari lettori, il fatto che una ragazzina di soli 15 anni debba ritrovarsi talmente sola da non poter avere l’aiuto di nessuno in un momento della vita così delicato. Si trovava lì da sola, in quella stanza disordinata ma mai quanto i suoi pensieri. Si sentiva confusa, stanca, disorientata. Si rendeva conto che non poteva continuare così, sarebbe andata a finire in un manicomio in preda ad un forte esaurimento nervoso. Si rendeva conto, ora più che mai, che la sua vita necessitava di cambiare rotta, di una svolta ma non sapeva come potergliela dare. Il desiderio più forte e più grande che provava dentro, più di qualsiasi altra fantasia erotica, era quello di confidarsi con qualcuno, aprirsi le sarebbe servito molto e lei lo sapeva. Ma con chi? Con chi? Si alzò di scatto, si girò inginocchiandosi sul letto, protese le sue mani in alto sul muro, staccò dal chiodo il crocifisso e lo portò all’altezza del petto e con un grido soffocato dalla disperazione gli disse: “Spiegami cosa mi sta succedendo, se esisti spiegamelo almeno tu, con te almeno posso parlare, dammi un segno, aiutami”. Lo diceva col cuore la piccola Fia, con la speranza, con la disperazione, con la fede della più grande credente di questo mondo che chiede un miracolo dopo essersi resa conto che nessun medico può guarire la sua malattia. Tutti gl’insegnamenti religiosi che le erano stati inculcati sin da piccola, trovarono in quel gesto istintivo la loro concretizzazione. La ragazza attese nel silenzio e nel pianto per un bel po’ di tempo, con gli occhi fissi su quella croce, una risposta, una voce, anche un piccolo segno che potesse aiutarla ma il crocifisso non parlò, non disse nulla, non si mosse come qualsiasi banale soprammobile. La ragazza vide crollare inesorabilmente anche l’ultima speranza. Non l’aveva voluta ascoltare neanche l’unico che poteva farlo. Ma, paradossalmente, si sentì dentro più forte e sicura di potersela sbrigare da sé, senza l’aiuto di nessuno. Rimise a posto quel crocifisso e con una nuova e inaspettata forza dentro, disse fra sé: “Ora basta!”, e senza neanche badare a come era vestita, uscì di casa. Sentiva il bisogno dell’aria, non ce la faceva più della sua stanza, dei suoi pensieri, della sua solitudine, dell’indifferenza degli altri. Non sapeva neanche che cosa cercare e forse neppure da cosa fuggire, se alle sue spalle vi era un demone che l’inseguiva, un pericolo incombente o cos’altro. Decise, almeno in quel momento, di seguire la parte più vera di lei, l’unica capace di guidarla e capirla, il suo istinto. In quel primo pomeriggio, faceva molto caldo. Tutta Leonforte sembrava bruciare. Non vi era nessuno in strada ma soltanto lei che camminava da sola, senza meta, senza sapere dove andare e chi cercare. La sola sua solitudine le camminava a fianco, come sempre. Si ricordò di quella villetta, l’unica nel paese, non molto distante da casa, dove si fermava spesso a chiacchierare con le amiche di scuola, e decise di andarci. Lì vi era un po’ di fresco, e poteva ripararsi vicino agli alberi in perfetta solitudine. Vi arrivò in pochissimo tempo, vide la panchina e si sedette a gustare la pace di quel luogo lontano da tutto e da tutti, anche dalle sue micidiali fantasie, che, almeno in quel momento, sembravano averla abbandonata. Ora la ragazza cercava la solitudine, quella stessa solitudine che soltanto pochi istanti prima, sembrava chiuderla e annientarla.

 

 

… Mosè

Camminava da solo, assente, inghiottito dalla sua stessa solitudine. Era talmente stanco, consumato, lacerato che non aveva più neanche la forza di pensare. La mattina era trascorsa. Mosè aveva solo ingoiato una lattina di tonno sott’olio scaduta da tempo e bevuto due bottiglie di birra. Ma era rimasto sempre fuori, per la strada, faceva troppo caldo per tornare a casa e non se la sentiva di farlo. Vagava come un sonnambulo, un’ombra senza identità, trasparente come un fantasma. Sapeva di non dover andare in chiesa quel giorno e di potersi allontanare un po’ da Enna per non vedere sempre le stesse facce.

Tornò indietro e riprese il suo motorino,posteggiato poco distante. Il caso o forse il destino, nulla nella vita accade per caso, lo portò nel paesino di Leonforte, a due passi da Enna. Lo conosceva di vista quel posto sperduto per esserci passato di sfuggita correndo col suo motorino ma non conosceva quasi nessuno dei suoi abitanti. L’ora, il caldo, la stanchezza gli facevano venire sonno. Non conosceva le strade del paese ma decise di affidarsi all’intuito seguendo un percorso tracciato da file di alberi fioriti sperando che lo potessero condurre in qualche villetta, presso qualche panchina immersa nel verde dove potersi finalmente riposare. Non si stava sbagliando, la strada era quella che doveva essere, quella giusta ma non sarebbe riuscito a dormire né ad avere sonno. L’aria era immota, le piante altrettanto, parevano assopite. Regnava il silenzio, l’armonia della natura: “Che pace c’è qui, ma cos’è il paradiso?”, pensava tra sé. Decise di scendere dal motorino per non turbare quella quiete e di proseguire a piedi. Fece un paio di passi in avanti, passò in mezzo a due alberi che sembravano sbadigliare aprendosi al suo passaggio e vide di fronte, vicinissima, una ragazza bellissima con gli occhi chiusi che sembrava dormire, seduta sulla panchina con ambedue le braccia distese ai lati e le rispettive mani appoggiate alla panchina stessa. I capelli bellissimi, spettinati, le coprivano il resto del volto lasciando scoperte soltanto quelle palpebre chiuse. Il capo era chinato da un lato, sembrava un angelo crocifisso e forse, visto quello che stava passando quella ragazza, lo era davvero. Presente col corpo, dava l’impressione di trovarsi mille anni luce lontana con la mente.

Vestita con una camicetta azzurra ed un pantalone di lino bianco, poteva avere circa 15 anni. Quella ragazza in dormiveglia che almeno in quel momento sembrava aver trovato un po’ di pace, era lei, la piccola Fia. E lui Mosè, inerme davanti a quell’angelo, non sapeva più cosa fare, come comportarsi.

Non faceva una bella impressione per come era combinato e lo sapeva e non voleva spaventarla o svegliarla bruscamente. Cercò di non fare il minimo rumore, si stropicciò gli occhi per capire se si trattasse di una visione ma non lo era affatto e lui non era ubriaco. Non vi era proprio nessuno intorno, solo lui e lei. Non aveva più sonno e come poteva averlo? L’istinto gli suggerì di andarsene da lì, fece solo un piccolissimo ed impercettibile rumore nel tentativo di voltarsi indietro e riprendere la strada del ritorno ma il destino intervenne facendo in modo che gli eventi si verificassero secondo il suo disegno. Così fece aprire gli occhi alla ragazza, Mosè se ne accorse e rimase in quella posizione, davanti a lei senza essersi girato. Fia confusa guardò lui che stava in piedi davanti a lei e Mosè guardò a sua volta la ragazza. Ora gli occhi di Fia, la bellissima ragazza quindicenne disperatamente sola, incontravano gli occhi di lui, il vecchio di 65 anni trasandato e disperatamente solo. E da quel punto così vicino eppure disperatamente lontano per la grande differenza d’età e non solo, lei continuava a guardarlo con quel suo visino indecifrabile di ragazzina e il vecchio ebbe l’impressione che quella ragazza gli avesse letto il desiderio negli occhi fino ad intuirne la profondità. E rapito dall’intensità di quello sguardo, Mosè non sarebbe stato in grado di abbassare gli occhi neanche se fosse stata in gioco la sua vita, non avrebbe potuto spostarli in nessun’altra direzione. E rimase così, in quel modo, ipnotizzato davanti a lei. Gli occhi di Mosè sprofondavano in quelli di Fia e seguivano un’ombra, intravvedevano una solitudine profondissima. I due, pur abitando in posti vicini, anche per la differenza d’età, non si conoscevano e non si erano mai visti prima. Ma la solitudine della ragazza era la stessa identica solitudine del vecchio e li rendeva uguali come gemelli pur con mille diversità. Nessuna barriera di alcun tipo aveva il coraggio di interporsi tra loro due. La ragazza osservava fisso negli occhi il vecchio e il vecchio osservava fisso negli occhi la ragazza. Esistevano solo lui e lei, lei e lui, il vecchio e la ragazza. D’un tratto i problemi dell’uno diventarono i problemi dell’altra e viceversa per poi, come per magia, sparire in entrambi. Il destino li aveva fatti incontrare, aveva deciso questo e questo stava avvenendo. Erano lì immobili, uno davanti all’altra nella poesia e nella pace di quella villetta. Fia rimase muta, non trovava le parole e non si sentiva nulla da dire in quel momento e pensare che avrebbe avuto mille cose da raccontargli! e Mosè sembrava lo specchio di Fia, provava le stesse identiche sensazioni di lei. Uno strano scherzo del destino sembrava che avesse voluto farli incontrare come se si fossero dati un appuntamento nello stesso posto e alla stessa ora senza che ci fosse nessuno all’infuori di loro due. Sembrava che dall’alto del cielo, invisibili, li stessero spiando Dio e Satana, uno accanto all’altro. Dio voleva che quel vecchio e quella ragazza si conoscessero per placare la solitudine delle loro anime, mentre il diavolo quella dei loro corpi. Quel silenzio sarebbe durato un’eternità se non fosse intervenuto nuovamente il destino a mettere in bocca a Mosè le prime parole: “Signorina, ha bisogno di qualcosa, si sente poco bene, posso aiutarla?”. E furono parole di una banalità disarmante ma l’importante è che furono dette. Fia esitò un po’ nel rispondere ma poi lo fece: “No grazie! Va tutto bene, stavo solo riposando un po’”.

Mosé proseguì la conversazione: “L’ho disturbata forse?” e Fia “No anzi, non c’è nessuno qui, sembra un cimitero, almeno parlo con qualcuno”. Il destino non poteva scegliere persone più adatte. Nessuna ragazza sarebbe stata più indicata per quel vecchio e viceversa e non ci volle molto tempo affinché anche loro stessi se ne rendessero conto. Sembravano conoscersi da sempre e non impiegarono molto per fare amicizia, del resto avevano entrambi un carattere socievole.

“Le dà fastidio signorina se mi siedo un po’ vicino a lei a fumare una sigaretta?”

“No si figuri! Ma lei fuma? Dovrebbe togliersi questo vizio”. Ma non sempre i vizi si possono togliere e lo sapevano entrambi.

“Quanti anni ha signorina?”

“Lei quanti me ne dà?”

“14,15”.

“Bravo ha indovinato 15 compiuti da due mesi”.

“Va a scuola?”.”

“E lei cosa fa nella vita signore?”

” Non lo so, è una domanda che mi faccio spesso anch’io”.

I due ora conversavano serenamente con parole semplici e spontanee, direi scontate, arrivando in poco tempo a darsi del tu. Dopo lo smarrimento iniziale, ora il vecchio la guardava, seduta vicinissima accanto a lui nella panchina, e la trovava bellissima. “Grazie Dio per avermi fatto incontrare un angelo, più bella di così non potevi mandarla”, pensava Mosè. Se fosse stato un ragazzo come lei, se ne sarebbe innamorato subito ma era solo un povero vecchio che poteva essere benissimo suo nonno. Lui si sentiva dentro anche più piccolo di lei, ma anche se l’anima non ha età, il corpo ce l’ha, eccome! ed è proprio quello ad apparire, purtroppo. La ragazza osservava attenta il volto di quel vecchio come volesse giudicarlo ma non riusciva a farlo. Se si fosse trattato di un ragazzo avrebbe saputo subito se le piacesse o meno ma quel vecchio dal viso rugoso la lasciò nell’incertezza.

Ma fu solo momentanea perché poi, via via che la loro amicizia diveniva più solida ed intima, cominciò, forse incoraggiata dal destino o dal diavolo, a trovarlo affascinante nonostante l’età. Qualunque altra ragazza, bella o brutta, trovandosi da sola in quella villetta con quel vecchio malandato, sarebbe subito scappata o quanto meno non gli avrebbe dato importanza. Ma lei, la solita originale Fia, cominciava ad avvertire persino desideri sessuali nei confronti di lui ma non era la sola perché anche lui, nascostamente e senza farsene accorgere, li ricambiava.

Se si fossero raccontati sinceramente le proprie reciproche fantasie e desideri sessuali, probabilmente avrebbero fatto l’amore subito, sopra quella panchina, ma nessuno dei due, vista anche la differenza d’età, ebbe il coraggio di aprirsi fino a quel punto. Ma una certa maliziosa complicità usciva fuori lo stesso sia pure velatamente, manifestandosi sotto forma di sguardi indiscreti, di mosse repentine, di piccoli gesti fatti da ambedue. Il vecchio e la ragazza desideravano la stessa cosa e se quella panchina sulla quale erano seduti ormai da tanto tempo, avesse potuto diventare umana, sarebbe stata felice ed orgogliosa di offrirsi come la loro alcova d’amore. Si sarebbe staccata da quella villetta e sollevata pian piano verso il cielo, tra le nuvole con sopra i loro corpi nudi. Nonostante non fosse vestita in maniera provocante, il vecchio, avendola vicino, non poteva non rimanere catturato e stordito dalla sua sensuale freschezza, dall’impeto della sua gioventù, da quell’esplosione di gambe, di seni, di bocca, di occhi, di sguardi, di labbra, da quella grazia di Dio, insomma. Era troppo per un vecchio come lui. E Fia ammirava soprattutto quelle sue rughe trovandoci in esse la reminiscenza di una lontana figura paterna e poi quelle mani callose così diverse dalle sue morbide e lisce, quel suo odore in un certo senso di sporco che contrastava con il profumo ch’emanava lei ma che lo rendeva ai suoi occhi, intrigante, selvaggio, animalesco, peccaminoso. L’effetto che si procuravano l’un l’altra guardandosi, valeva assai di più delle chiacchiere della gente di paese e di qualunque altra possibile conseguenza. Era chiarissimo che si piacevano, si capiva da mille miglia lontano. Qualunque osservatore, dovendo valutare o giudicare l’intesa di quel vecchio con quella ragazza, ne sarebbe rimasto scandalizzato considerandola assolutamente sbagliata e fuori da ogni regola o logica, non l’avrebbe mai e poi mai potuta approvare per mille motivi. Lo stesso osservatore però, dovendo valutare o giudicare la solitudine di entrambi, ne rimarrebbe quasi indifferente e darebbe ad essa poca importanza giudicandola quasi come normalità, il vecchio perché troppo grande d’età, la ragazza perché ancora un’adolescente e quindi troppo piccola. Il vecchio e la ragazza se presi in considerazione singolarmente, separati l’uno dall’altra, vengono completamente ignorati da tutti. Fia soffriva e si logorava dentro, in silenzio, nel suo segreto senza che nessuno si preoccupasse di aiutarla o di capirla. E la stessa cosa accadeva a Mosè. Ma se i due vengono visti da soli insieme anche solo parlare, si ritroverebbero immediatamente al centro dell’attenzione e tutti vorrebbero sapere tutto di loro. È la società in cui tutti noi stiamo vivendo oggi che ragiona così e le sue regole, le sue leggi rappresentano l’espressione collettiva di questa ignoranza. Fia e Mosè si trovavano bene insieme perché soffrivano dello stesso terribile male: la solitudine. Per questo si capivano e si intendevano a meraviglia. Bisognerebbe scavare nella loro intima solitudine per afferrare il motivo di quell’unione. Ma non tutti, purtroppo, hanno la capacità, la sensibilità e la profondità per farlo. Risulta molto più semplice e pratico giudicarli per l’apparenza. Fia aveva tentato in tutti i modi e con tutte le forze di far capire agli altri la propria solitudine ma nessuno l’aveva ascoltata. E anche Mosè avrebbe voluto rendere partecipe gli altri della propria solitudine ma inutilmente. Fia si fidava ciecamente di Mosè. Capiva che quel vecchio aveva una ricchezza interiore immensa, riscontrabile in poche persone, lo capiva dai suoi gesti dolci, sempre garbati, da quel suo parlare calmo, dal suo saperla ascoltare con attenzione. E Mosè aveva fiducia in quella ragazza così bella di fuori ma ancora più bella di dentro, così particolare, capace di pensieri profondi, che possedeva nei suoi occhi e nel suo sguardo il paradiso della giovinezza. Si potrà dire che il diavolo travestito da vecchio tentasse la ragazza e che lo stesso diavolo sotto le spoglie di un angelo concupisse il vecchio ma era davvero il diavolo o era Dio? Il vecchio e la ragazza restarono a lungo a parlare seduti sulla panchina dimenticandosi dei propri problemi. Si raccontarono di tutto e di più.

Sembrava si conoscessero da sempre. Mosè le raccontò di tutta la sua vita con sincerità e la ragazza restò affascinata da quella strana vita e le venne una infantile curiosità di vedere dal vivo quella casetta di legno così particolare in cui lui viveva: “Troppo forte! la voglio vedere, mi porti a vederla? sono troppo curiosa, tanto non è lontano, io posso stare fino alle 6 perché poi vengono i miei e devo tornare a casa”. Erano le 4 del pomeriggio e vi era il tempo per farlo. Anche se al lettore può sembrare strano conoscendo Fia, questa volta la ragazza voleva vedere la casa di Mosè per una semplice curiosità spontanea di adolescente e non era mossa da altri strani propositi. “Allora mi ci porti o no?”, e lo disse con un’aria da bambina dimostrando di essere ancora più piccola della sua età, alzandosi dalla panchina lasciandovi lui seduto. Mosè toccò il cielo con un dito, gli sembrava di sognare, ridiventò bambino, si sentiva come un ragazzo al suo primo amore con una bellissima ragazza al suo fianco. “O.k. Fia, andiamo! Prendiamo il motorino e arriveremo subito” disse alla ragazza. “Il motorino? Quale motorino, perché ce l’hai?”. Sembrava il dialogo tra due adolescenti e non tra un vecchio e una bambina. “Certo è posteggiato qui vicino”. I due si alzarono con una strana luce negli occhi che avrebbe ispirato qualunque poeta. Lui la indirizzò verso il motorino, lei lo guardò e disse: “Troppo bellino ma è davvero tuo?”. Con quella domanda e in quell’espressione Fia rivelò tutta la spontaneità e l’ingenuità dei suoi 15 anni. Ma Mosè sembrò ancora più piccolo di lei quando con orgoglio le rispose: “Certo che è mio”. Fia era entusiasta. Poi gli disse: “Ma non ho il casco!”. Ma lui la tranquillizzò: “Non fa niente figurati, vigili non ce ne sono in giro e poi non dobbiamo andare lontano”. Così l’adulto che dovrebbe dare l’esempio, incita l’adolescente che vorrebbe farlo, a non rispettare le regole. Mosè era in quell’attimo il vecchio che giocava, che si sentiva, s’illudeva di tornare ragazzo. Aprì il cassettino del motorino, prese il casco e se lo mise in testa con cura e agli occhi della ragazza che si stava divertendo un sacco, sembrò più ridicolo e comico che mai, come il clown d’un circo. Lo trovava veramente buffo ma non rise per delicatezza. Lui montò davanti e lei, senza casco, salì dietro cingendo la schiena di Mosè con le sue delicatissime manine.

Fortunatamente il motorino che spesso non partiva, quasi non volesse dare un dispiacere al padrone capendo l’importanza, si rivelò suo complice e si mise in moto al primo colpo. E partirono. Per le strade non v’era quasi nessuno. Meglio così. Fia non voleva che qualcuno la vedesse e sparlasse di lei, il paese è piccolo e si mormora troppo. Qualche passante li vide sul motorino ma non si stupì più di tanto, non erano poi così strani, sembravano padre e figlia o, meglio ancora, nonno e nipote. Quello che provava dentro Mosè mentre guidava il motorino con quella bellissima ragazza dietro, lo lascio all’immaginazione del lettore. Non so neanch’io come abbia fatto a guidare in quelle condizioni di esaltazione totale. Meriterebbe una medaglia d’oro al valor civile solo per questo. Se si fosse bevuto centomila bottiglie di birra una dopo l’altra, sarebbe stato meno brillo di quanto lo fosse mentre guidava quel motorino. La situazione sarebbe stata normale se si fosse trattato di un bel ragazzo che stesse portando una bella ragazza a visitare la sua bella casa. Invece un povero vecchio malandato stava portando una bellissima ragazza a visitare la sua baracca di legno. Certe cose avvengono solo nei sogni ma, quando il destino si diverte a muovere i fili, anche nella realtà ma solo per pochi fortunati eletti e lui, Mosè, era uno di questi. Anche i pensieri di Fia, mentre si stringeva al vecchio sul motorino, erano indescrivibili. In lei si mescolavano alternandosi pensieri di sesso e paura, amore e tenerezza, ansia e trasgressione. La ragazza non connetteva e non capiva più nulla e il vento che le soffiava sul viso la stordiva ancora di più e non dipendeva solo dalla semplice curiosità di vedere quella casa anzi forse ora era l’ultima cosa che le interessasse. Il cuore di entrambi batteva forte, testimonianza inequivocabile che stavano vivendo un’emozione insieme e che meritava d’essere vissuta fino in fondo.

Arrivarono dopo una ventina di minuti che a loro dovevano essere sembrati un’eternità. “Ecco Fia, siamo arrivati, io abito lì” disse il vecchio posteggiando il motorino e togliendosi il casco. “Che strano posto, forte, è bellino però” anche in questo caso Fia rivelò tutti i suoi 15 anni. Mosè era stato sincero nel descriverle l’abitazione e a Fia parve esattamente uguale a come l’aveva immaginata. “Ti avverto però che è molto disordinata, potresti restare scioccata” le disse Mosè mentre le faceva strada verso la sua casetta. “Non preoccuparti, sono abituata al disordine, la mia stanzetta è peggio della tua, abbiamo un punto in comune, non ci piace l’ordine”. Mosè sorrise e anche Fia sorrise con lui. “Che bei gattini, sono tuoi, me ne regali uno?” La ragazza aveva veduto i gattini del vecchio e ne era rimasta affascinata, per un attimo si dimenticò di essere venuta per la casa. “Sì, sono miei, mi fanno compagnia, mi fanno sentire meno solo. Se vuoi puoi portartene uno”, le disse con generosità Mosè. “Ti ringrazio davvero ma non posso tenerlo in casa, ai miei non piacciono gli animali”. Fia dopo averne accarezzati alcuni inginocchiata, seguì Mosè che nel frattempo apriva la porta del prefabbricato. “Che disordine”, fu il primo spontaneo commento di Fia e detto da lei che era figlia del disordine, lo doveva essere sul serio.

“È più disordinata della mia e io che pensavo che la mia fosse il massimo, la tua è peggio. Ma è carina lo stesso”. Quest’ultimo giudizio risollevò Mosè e forse Fia lo disse apposta accortasi di avere un po’ esagerato nel suo giudizio negativo. Poi il vecchio nel tentativo di essere gentile le chiese: “Vuoi da bere? Della birra?” Aveva solo quella e al no grazie della ragazza non insistette.

La cosa più comica e tragica nello stesso tempo, cari lettori, è che nessuno prima di lei, aveva sentito il bisogno di andarlo a trovare in quella baracca di legno. I parrocchiani della chiesa di San Raffaele sono un’infinità ma mai nessuno gli aveva fatto una visita. Per il povero Mosè era veramente una novità e se si sentiva in imbarazzo non lo era soltanto per la bellissima Fia che era lì con lui ma anche perché non sapeva proprio come comportarsi nel ricevere un ospite. Non aveva esperienza perché non gli era mai capitato. Il vecchio e la ragazza parlarono insieme per un po’ di tempo, Fia guardò tutta quella strana casetta ispezionandola nei minimi particolari, era davvero una rarità da collezione. Se si girasse l’universo intero non se ne riuscirebbe a trovare una simile. Mosè come anche Fia erano due persone originalissime, anche per questo, ma non solo, erano amici. Poi, quando non seppero più cosa dirsi, avevano già parlato di tutto quando erano seduti in quella villetta, Fia ruppe gli indugi dicendogli: “S’è fatto tardi, mi accompagni a casa?”. Mosè le rispose con un “certo” e insieme uscirono fuori, Fia salutò ancora i gattini, diede uno sguardo fugace alla campagna che vi era tutta intorno, respirò intensamente quell’aria salubre della sera e poi si recarono insieme verso il motorino per intraprendere il tragitto di ritorno. Ma nessuno dei due rimase deluso di quello che poteva succedere ma non era accaduto. Sentivano entrambi che non sarebbe finito tutto lì, che si sarebbero rivisti ancora. Entrambi avevano capito e sentito che non era quello il momento giusto per farlo, che avrebbero dovuto solo rimandarlo. Il viaggio del ritorno non fu eccitante come quello dell’andata ma non per questo meno bello, fu più tenero e dolce, si conoscevano meglio, erano diventati amici. Furono due sensazioni diverse ma bellissime entrambe quelle provate nei due viaggi, quello dell’andata e quello del ritorno. Mosè la riportò in quella villetta di Leonforte dove l’aveva conosciuta ma non trovò il coraggio per dirle se poteva rivederla.

Fu lei, proprio lei, la piccola Fia a rompere il ghiaccio e in quell’occasione si dimostrò molto più matura di lui: “Ci vediamo domani alle 2 in questo posto, poi però stiamo a casa tua e non qui, così abbiamo più tempo”. Sapeva Fia che tutti i pomeriggi i suoi uscivano e lei non avrebbe avuto problemi. Fia lo disse con una voce così seducente e con un fare così determinato da non lasciare equivoci sulle sue reali intenzioni. Mosè sbiancò, morì in quel momento ma non disse una parola, non vi riuscì. “Allora va bene alle 2?”, gli chiese nuovamente la ragazza non avendo avuto risposta alla prima domanda.

L’emozione era così forte per Mosè che non seppe rispondere con le parole neanche questa volta e lo poté fare solo abbassando la testa in segno di assenso. Quindi si salutarono con una stretta di mano. Fia voleva farlo e sentiva che domani sarebbe accaduto. Mosè, invece, non sapeva più che fare né come comportarsi, entrò in crisi, totalmente travolto dagli eventi del tutto inaspettati e nuovi ma sapeva che non poteva rinunciare ad una emozione così forte che nella vita capita una volta sola e mai più. Aveva aspettato 65 anni perché ciò accadesse e poteva essere l’ultimo treno da prendere. Se avesse rimandato ancora, sarebbe stato troppo tardi e forse non sarebbe mai più successo. In questa difficile scelta, per lui e lei, la più sicura, determinata e matura si era dimostrata proprio lei, la piccola Fia nonostante fosse la più giovane.

 

 

… Mosè

Quella notte si rivelò la più lunga e strana di tutta la sua vita. E come poteva dormire? Era sicuro che domani avrebbe potuto sfiorare la pelle della sua bellissima principessina e non solo, avrebbe potuto fare anche molto di più. Era ancora vergine Mosè, quasi come fosse un prete, nonostante fosse arrivato alla veneranda età di 65 anni ma il destino aveva voluto premiarlo dandogli il massimo di quello che poteva aspettarsi e quando ormai non ci sperava più. Un uomo non raggiunge mai la pace dei sensi neanche a 65 anni ma una ragazza come Fia sarebbe stata in grado di risvegliare persino gli istinti assopiti di un 90enne. Ma non era soltanto il fattore fisico a sconvolgerlo ma un’infinità di emozioni, di sensazioni, di pensieri che si succedevano nella sua mente e nel suo cuore, alternandosi tra loro. La differenza d’età troppo netta, lo stare bene in compagnia di lei, il bel carattere, la sua dolcezza, la sua giovinezza, la stranezza dell’incontro che lo aveva portato a conoscerla proprio quando ne aveva più bisogno. “Che strana la vita, ragazze così belle non ti capitano neanche quando sei giovane, forte e bello e poi accadono quando sei vecchio, debole e brutto e hai 65 anni”. Fu la prima considerazione che si sentì di fare. Era bella, troppo bella Fia ma non solo per lui che era ormai vecchio ma anche per qualsiasi altro ragazzo. Poi Mosè riprese il suo dolce tormento: “Ma perché con uno come me? Proprio in questa baracca, con questa puzza? Con questo disordine? Perché proprio io? Ma mi ha visto bene? Lei bellissima come una dea, un angelo, io orrendo come un mostro. Sembriamo la bella e la bestia. Chi le capisce le donne è bravo, ma lei non è una donna, è una bambina ancora, e che bambina però. No, non può essere, mi sta prendendo in giro eppure mi sembrava sincera, sì che era sincera, troppo sincera ed anche educata. No, quella ragazza non recitava, era vera”. Al vecchio veniva ora una strana curiosità, dopo 65 anni aveva il desiderio di guardarsi allo specchio. Ma in casa non ne aveva mai avuto neanche uno, allora prese una pentola, cercò di togliere la polvere incrostata che vi era sopra strofinando con una spugna bagnata e si specchiò non avendo altro per farlo. Il vecchio si vide orrendo e si spaventò di lui stesso ritirandosi istintivamente il capo indietro. “Mamma mia quanto sono diventato brutto, meno male che non mi guardo mai, sono l’opposto di Fia”. Ma era l’opposto della ragazza anche nel giudicarsi. Fia si vedeva bellissima, lui decisamente mostruoso. Cominciò così a passare in rassegna uno a uno tutti gli eventuali motivi che potessero convincere una così bella ragazza a unirsi a uno come lui, e li numerò. Ma non ne trovò uno solo valido. “Forse si prostituisce e vuole soldi da me? Dovrei essere io povero a cercarli a lei ma no, no, che sto dicendo, lei è così dolce, ingenua, così fine”. Si vergognò di aver pensato questo e si sentì in colpa. “E se si droga, lo fa perché vuole i soldi per drogarsi ma no, no è di buona famiglia, me l’ha detto lei stessa che non ha mai preso stupefacenti, era sincera. E se vuole ricattarmi? Vuole soldi altrimenti va dalla polizia dicendo che la volessi violentare? Io violentare lei? Ma se non ce la faccio neanche a stare in piedi, basta che mi vedono si rendono conto, caso mai il contrario, sì lei ha gli occhi furbetti me ne sono accorto. Ma sarebbe la prima volta che una ragazzina violenta un vecchio, passerebbe alla storia. E se quando viene qua mi dà un colpo in testa e mi stordisce per rubarmi. Rubarmi? E cosa dovrebbe rubare? Magari si prendesse un po’ di roba, non so a chi darla”. Se la povera Fia avesse solo saputo cosa pensava di lei il suo Mosè: prostituta, drogata, ricattatrice e persino ladra. Ma lui lo pensava per il troppo amore, sì, il vecchio Mosè si era innamorato di lei, non riusciva a confessarlo neanche a se stesso, l’amava e si sentiva come un ragazzino al suo primo amore, un ragazzino un po’ troppo cresciuto di 65 anni. Quell’incantevole ninfetta gli aveva stregato persino l’anima fino a possederlo del tutto, era la fine di Mosè come uomo ma anche l’apice della sua ispirazione come artista. La sua strana vita era già alla deriva nelle mani di una bambina, si lasciava annientare frantumandosi nella sua follia,   obbediva al suo rischiamo, si prostrava docile ai suoi capricci. Ora anche la gelosia si stava impossessando di lui, dei suoi pensieri. Lo tormentava l’immagine di quei ragazzi che sicuramente avrebbero posato i loro sguardi carichi di desiderio su quel giovane corpo d’adolescente. Era folle il pensiero che Fia con la sua verginale bellezza, dovesse e potesse appartenere esclusivamente ad un vecchio della sua età, ma più la considerava irraggiungibile e più sentiva crescere dentro il desiderio di averla. Se fosse stato un uomo normale, forse per vergogna, paura o sensi di colpa, probabilmente avrebbe cancellato subito dalla mente quegli strani pensieri. Ma lui artista solitario, lui spirito libero, lui eterno bambino sempre in volo senza logica nè equilibrio, folle di malinconia, di disperazione, di solitudine, di tenerezza, altro non era in grado di fare se non lasciarsi totalmente trasportare e tormentare dalla magica ossessione per quella giovane creatura, nè donna e nè bambina. Come un vecchio mendicante ormai solo ed esausto, chiedeva disperatamente ad una ragazzina che non aveva colpa, l’elemosina d’un amore che mai avrebbe potuto dargli. Come fari abbaglianti nel buio, i suoi pensieri ossessivi sparavano su egli stesso. Per tutta la notte, senza chiudere occhio, Mosè continuava senza sosta il suo patetico e infantile monologo: “Forse ha litigato col suo ragazzo e per fargli un dispetto va col primo che capita, nel paese non c’era nessuno a quell’ora e ha capitato me. No, non può essere, non l’avrebbe fatto con un vecchio, a tutto c’è un limite. Però mi ha detto che non ha il ragazzo e non l’ha mai avuto. No, non posso crederci. Una ragazza così bella che non ha il ragazzo, è impossibile. E se fosse sposata, mio Dio, non credo che mi spunta suo marito con la pistola, non serve la pistola basta un cerino per far andare tutto a fuoco, qui è fatto tutto di legno. Non credo che le piacciono le femmine al posto dei maschi? No, no, mi guardava in uno strano modo. Secondo me le piacciono solo gli anziani, sì, forse questo è il motivo, i giovani non le interessano affatto. Forse mi vede come un padre, un nonno, le mancherà quel tipo di figura”. Il monologo del vecchio andava via via assumendo fisionomie sempre più patologiche e assurde.

“E se si fosse innamorata di me? Se volesse sposarmi? Sì, sento che la porterei all’altare. Magari da padre Santino nella chiesa di San Raffaele con tutti i parrocchiani invitati, chissà quanti regali mi farebbero. I parrocchiani? No, non potrebbero accettare che un 65enne si sposi una 15enne, ma che m’importa di loro. L’importante è che io e Fia ci amiamo, non conta l’età. Magari aspetto che compia 18 anni e per la legge sono a posto. E con i suoi genitori come mi combino? Vado e gli dico: io amo vostra figlia. Mi butterebbero fuori a pedate appena mi vedono vestito così. Va beh, mi faccio la barba, mi taglio i capelli, mi vesto meglio, mi do un’aggiustata generale, sembrerò più giovane. Ma se non l’ho mai fatto in 65 anni? Per Fia sento che lo farei”. Il monologo di Mosè continuava senza limiti e ora alla follia delirante si aggiungeva la paura.

“Ma lei è minorenne, in fondo è ancora una bambina, forse è ancora vergine. E se parlasse con qualcuno? I bambini parlano, non sanno mantenere un segreto, non lo sanno fare i parrocchiani della chiesa, figuriamoci le ragazzine. Finirò nelle pagine dei giornali, dritto in carcere e forse alla mia età non ne uscirei più. Mi prenderebbero tutti per maniaco, povero me! Per pedofilo, no per pedofilo no, lei è sviluppata come una donna. E se lo sapessero i parrocchiani, padre Santino, non mi farebbero più regali, non mi darebbero più soldi, non potrei camminare più per la strada, tutti col dito puntato contro di me. Povero Mosè, in che guaio ti sei cacciato! Già mi vedo nelle aule del tribunale, io da un lato, Fia dall’altro. Posso sempre dire al giudice che lei era consenziente. Ma no, non mi crederebbe. Allora dico a Fia, spogliati qui stesso e fai vedere al giudice quanto sei sviluppata, bella e irresistibile così il giudice mi capisce e mi assolve”. Ora il monologo diviene persino poetico. “Ma cosa c’è di più poetico di un vecchio che si innamora di una ragazzina? Io non ci trovo nulla di morboso anzi è tenero, dolce, romantico. L’anziano ormai giunto al tramonto della sua esistenza, si aggrappa alla giovinezza d’una ragazzina per tornare a sua volta bambino. In fondo è quello che sto facendo io. Cosa c’è di più poetico del profumo di una ragazzina ingenua e tenera? Mi scagli la prima pietra quell’adulto capace di resistere al fascino di una ragazzina! Nessuno, si reprimono solo per paura come la famosa fiaba della volpe e dell’uva”. Ma il monologo tocca pure punte di alta comicità. “E se mentre mi trovo a letto con Fia, mi spuntassero i carabinieri? Gli direi lasciatemi finire in pace, aspetto da 65 anni per farlo, volete rovinare tutto? Fatemi finire per piacere e poi mi potete anche arrestare e darmi l’ergastolo, condannarmi a morte e persino tagliarmi l’uccello. Vale la pena subire tutto questo per un momento d’amore con la bellissima Fia. Potrei pure vendere l’anima al diavolo per una notte con lei. Per un minuto d’amore con la mia bellissima Fia sarei disposto a bruciare nelle fiamme dell’inferno per l’eternità”. Mosè immaginò nuovamente di essere portato in manette davanti al giudice che lo interroga. “Signor giudice, se lei si fosse trovato alla mia età e al posto mio nella mia baracca solo con una bellissima ragazza di 15 anni tutta nuda che le dicesse: «Scopami», che avrebbe fatto? Non avrei fatto niente perché è troppo piccola, l’avrei riconsegnata ai suoi genitori per farla curare. Allora lei è un finocchio, signor giudice, lei è un finocchio”.

Cari lettori, non mi sembra il caso di soffermarmi ancora sul monologo notturno di Mosè ma una piccolissima considerazione su tale argomento permettetemi di farla con tutta umiltà. Se Mosè lo si vuole giudicare secondo le regole della società e quindi della morale, bisognerebbe subito mandarlo a morte perché individuo molto pericoloso per i suoi simili. Ma se invece si vuole leggere in profondità nei pensieri del vecchio, per capirne la verità basta semplicemente sostituire la figura del giudice al quale Mosè ha dato simpaticamente del finocchio con la società e poi sostituire la figura di Mosè stesso con la parola “libertà” e si capisce tutto. Si legalizzano le guerre, non si dà da mangiare ai bambini che con lebbra e mosche in faccia muoiono nel Terzo Mondo, si costruiscono armi atomiche e centrali nucleari e poi si ha il coraggio di condannare un povero vecchio come Mosè solo per aver passato un pomeriggio d’amore con la sua bellissima Fia.

 

 

… Fia

Ma vi era un’altra persona che poco distante da lui, non riusciva a prendere sonno per lo stesso motivo ed era lei, la piccola e precoce Fia. Aveva ancora davanti agli occhi l’immagine di quel vecchio con le sue rughe, sentiva la sua voce, avvertiva il suo odore. “Ma è giusto quello che sto per fare? Perché tutta questa fretta? Ho solo 15 anni, troverò un ragazzo che mi piaccia e lo farò quando mi sentirò innamorata di lui e sarà bellissimo senza sensi di colpa, senza che poi mi resti un vuoto. Perché devo farlo proprio domani? Non ho mica 65 anni io, lui si deve cercare una della sua età. Ho aspettato tanto, non posso attendere un altro po’ di giorni così poi inizierà la scuola e ci saranno tanti ragazzi della mia età? No, No! Ho deciso e non torno indietro. Ormai gli ho dato la mia parola, gli ho dato appuntamento per domani alle 2 non posso piantarlo, è stato così gentile con me, non se lo merita, non posso fargli questo. Ma che significa? Mica ho fatto un contratto con lui? Non sono obbligata, vado lì e gli dico mi dispiace ho cambiato idea, non me la sento, lui capirà, soffrirà ma poi si dimenticherà di me, non sa dove abito, non mi troverà più. E se lui mi domandasse perché ho cambiato idea? In che guaio mi sono cacciata, che gli dico? Niente, perché devo dargli spiegazioni? non mi va e basta. Poi avrei mille scuse, gli imbroglio che ho un ragazzo, che è troppo grande per me, ho trovato, gli dico che ho l’aids. No, non può essere, gli ho detto che sono vergine. Ma perché devo dargli questo dispiacere? Poverino! Lo ucciderei e se poi si ammazza per colpa mia? Non me lo perdonerei mai. In fondo ha solo bisogno d’affetto e così solo, perché non darglielo? Poi lui non lo direbbe a nessuno anche perché sono minorenne e non gli converrebbe. Se lo facessi con un ragazzo carino, sono sicura che per vantarsi lo direbbe in giro e lo saprebbero tutta Leonforte e tutta Enna. Che sfiga! Sono sempre io che devo decidere da sola, non posso confidarmi con nessuno, quando ero piccola dicevo tutto alla mamma, ma ora come faccio a dirlo a lei? Cosa le dico? Senti mamma vorrei andare a scopare con un vecchio barbone di 65 anni che abita in una baracca di legno, tutta piena di polvere e disordinata, che ne dici mamma ci vado o no? Già so la risposta, non vale la pena interrogarla. Se tenessi un diario, forse mi potrebbe aiutare. No, sarebbe la stessa cosa che parlare da sola, anzi peggio perché potrebbero leggerlo i miei o chiunque e lo saprebbero tutti, almeno così nessuno può leggere nei miei pensieri, rimane un segreto. Ma poi perché non dovrei farlo con quel vecchio? Può anche piacermi, come faccio a sapere se non provo? Anche quando ho provato il mio primo orgasmo avevo sensi di colpa ma poi è stato bellissimo. Ma no, no, non me la sento di farlo con un vecchio, proprio non ci riesco”. Tutte le fantasie erotiche della ragazza ora sembrano frantumate, spente, assopite. È bastato che solo una di esse si stesse realizzando, perché lei si rendesse conto che la fantasia è una cosa, la realtà un’altra. Adesso si sentiva meno libera, meno spregiudicata, meno puttana. “E se poi dovessi sentirmi sporca? Se dovessi pentirmene amaramente. E se uscissi incinta da un vecchio di 65 anni, con che faccia lo direi ai miei? Dovrei abortire, no, a me i bambini piacciono molto, lo terrei, se fosse maschio lo chiamerei Gesù, tanto lui si chiama Mosè. Non ti offendi tu se lo chiamo come te vero?”, e lo disse rivolgendosi al crocifisso che ovviamente non rispose. “Ma cosa sto pensando? Avrà sicuramente un preservativo, alla sua età saprà cosa sono i preservativi e se non lo sa glielo spiego io. E se è ancora vergine? Proprio come me. Ma no, non può essere a quell’età, ma chi si metterebbe con uno come lui conciato in quel modo? Solo io posso farlo, va beh ora, ma quando era giovane con qualcuno l’avrà fatto. Ma se non è manco sposato? Ma cosa vuol dire, mica bisogna essere sposati per forza per farlo. Sarà sicuramente dolce ed esperto, saprà come amarmi a quell’età, avrà rispetto di me e del mio corpo. Certo che sono proprio strana io. Rifiuto bellissimi ragazzi che mi amano sul serio e anche di un certo livello sociale, puliti e ben vestiti, per finire tra le braccia d’un vecchio conosciuto per strada. Potrei fare un libro sulla mia vita, sarebbe un successo. La mia prima volta col vecchio, incredibile, che bella prima volta mi sono scelta”. Ora era l’altra Fia che ragionava, quella più giudiziosa che seguiva le ragioni della logica e non dell’istinto.

Ma quando sembrava che il no fosse più forte del sì, ecco che improvvisamente e senza preavviso, ritorna in lei l’altra natura, quella più bestiale. Ora Fia s’immaginava nuda come sua madre l’aveva fatta, lei piccola ed inesperta come un piccolo fiorellino da cogliere, distesa sul quel letto sporco, pieno di zecche a farsi sbattere da quel vecchio come una piccola cagnetta in calore. Il solo pensiero dell’immagine di quel corpo senile, flaccido, con i peli bianchi, con la pancia, nudo come un verme disteso su quel suo corpicino liscio, serico, caldo e morbido e anch’esso nudo, la fece morire di desiderio. Sentì l’eccitazione salire in tutto il suo corpo e fu scossa da mille brividi. Ora lei si era finalmente decisa che l’avrebbe fatto, si sarebbe concessa a quel vecchio senza pudori e senza reticenze, solo così avrebbe messo in pratica la sua fantasia erotica e giudicato sulla propria pelle se le sarebbe piaciuto o no. Era una prova, una verifica indispensabile che poteva guarirla o comprometterla e macchiarla per sempre. Ma doveva farlo, ormai non si poteva più rimandare e trovata la decisione che cercava, riscaldata dai soliti brividi, s’addormentò a differenza di Mosè. Nel pericolo l’anima di Fia si sentiva al sicuro, il suo male interiore era ambiguo, cambiava forma quando credeva di conoscerlo. Da quale mondo veniva la piccola Fia?

 


… Mosè

Quella mattina Mosè, dopo una lunga notte insonne, non sapeva più cosa fare né da dove cominciare. Aveva mille cose da mettere a posto ma non riuscì a sistemarne una sola. Voleva riordinare la casa, rendere il letto più presentabile, ma era talmente abituato al disordine che nel tentativo di mettere ordine, combinò ancora più confusione. Apriva i cassetti in cerca di un deodorante da spruzzare nella casa, gettò tutto per terra, ma non lo trovò.

Se la prese con i parrocchiani rei di non avergli regalato neppure un deodorante. Ma come facevano a sapere i poveri parrocchiani che dopo 65 anni lui l’avrebbe voluto usare per ricevere la sua ragazzina tuttofare? Cercò allora un profumo per lui gettando tutto per aria ma non trovò manco quello. Gli venne in mente di farsi il bagno dopo un paio di mesi e forse più, ma non vi era completamente acqua. Pensò di farsi la barba ma non aveva lamette. Per la prima volta in vita sua Mosè voleva sembrare più presentabile per la sua Fia, ma non riuscì ad esserlo neanche quando l’avrebbe voluto. Era destino per lui, rimanere così come Fia l’aveva conosciuto e apprezzato. Se anziché la ragazzina, avesse dovuto ricevere una parrocchiana, se lo sarebbe pure dimenticato. Cercò ancora un preservativo sperando di trovare almeno quello ma nel disordine di là dentro, gli fu difficile recuperarlo. Del resto non era neanche sicuro di averne qualcuno. Ma si era autoconvinto che i parrocchiani della chiesa di San Raffaele, nella loro grande generosità, gli avessero regalato anche quello. Allora disperato uscì di corsa, andò dai suoi amici polacchi e chiese al figlio un preservativo. “Un preservativo? Cosa essere un preservativo? Io capire poco la tua lingua!”, disse il ragazzo stupito che non capiva bene l’italiano.

Al povero Mosè non bastavano i problemi che aveva, doveva mettersi a fare pure il traduttore. Il vecchio era ormai un pugno di nervi e non riusciva a stare calmo. Si guardò intorno,vide che non vi erano i genitori del ragazzo ma solo loro due e, per non perdere tempo, si abbassò i pantaloni, poi le mutande e col membro di fuori spiegò al giovane con la mimica che cosa fosse il preservativo.

Doveva andare a letto con una minorenne, che cosa gli poteva importare di uscire l’uccello davanti a un ragazzo poco più che ventenne? Quest’ultimo non rise per quel gesto troppo eloquente ma rimase sbalordito, tuttavia capì subito e gli fece cenno di aspettare. Mosè rimase in ansia a girare nervosamente per la stanza: “Benedetti questi polacchi e chi li ha creati, come avrei fatto senza un preservativo?”

Il ragazzo tornò dopo qualche minuto. Ne aveva due in mano. Mosè glieli strappò letteralmente dalle mani e se li ficcò nei suoi pantaloni senza neanche ringraziarlo. L’avrebbe sicuramente fatto se fosse stato più calmo. Almeno quelli li aveva trovati.

 

 

… Fia

Anche per Fia quella mattina fu tutta speciale. Non vedeva l’ora che fosse pomeriggio per realizzare quella fantasia e perdere la propria verginità. Già sapeva bene come vestirsi, nella maniera più sexy possibile, usando i suoi vestiti più provocanti. Doveva aspettare però che i suoi uscissero di casa e poi ritornare un po’ prima di loro per avere il tempo di cambiarsi, e non farsi vedere vestita in quel modo. Non aveva più dubbi, non poteva tornare indietro e cambiare il destino che aveva voluto così, doveva concedersi completamente a quel vecchio e avrebbe voluto ricordarlo per tutta la vita. “La prima volta dev’essere speciale e lo deve essere anche per me, lascerò tutti i miei sensi in libertà e gusterò fino in fondo quel piacere”. Forse Fia stava confondendo la prima notte d’amore, con la prima notte di sesso.

La mattina passò e il fatidico pomeriggio finalmente arrivò per lei e anche per lui. Fia non vedeva l’ora che i suoi genitori uscissero, li cacciava con la mente e guardando ogni secondo l’orologio. Era tutto calcolato, cronometrato. Sapeva il tempo da rispettare per ogni cosa. Quanto per cambiarsi, quanto per arrivare alla villetta, quanto per scopare, quanto per tornare e quanto per cambiarsi prima che tornassero i genitori. Una ragazza, ma anche una bambina, quando deve fare qualcosa a cui tiene molto e non vuole essere scoperta, diventa diabolica. Finalmente i genitori se ne andarono e Fia, senza perdere un centesimo di secondo, cominciò l’operazione 007. Prese tutto l’armamentario di vestiti che aveva scelto per l’occasione con cura la mattina e li tirò da sotto il letto dove li aveva nascosti.

Cominciò così, come un perfetto Diabolik, l’operazione travestimento. La maglietta più sexy che aveva in casa, la gonna più corta, la mutandina più leggera e trasparente, il profumo più inebriante. Stava per mettersi il rossetto più visibile, quando pensò di presentarsi all’incontro col viso pulito di adolescente senza nessun tipo di trucco o di rossetto. Avrebbe ottenuto così un doppio scopo, quello di sembrare più eccitante come una bambina maliziosa e quello di non perdere tempo. Il bagno l’aveva già fatto. Era praticamente pronta. Si diede solo una rapidissima occhiata nel suo fedelissimo specchio e lascio immaginare al lettore come si giudicò lei stessa che mai nella sua vita si era vestita così sexy dalla testa ai piedi. Se avesse avuto più tempo sarebbe rimasta ad ammirarsi e sicuramente si sarebbe eccitata e toccata ma non aveva tempo per farlo, l’avrebbe fatto qualcun altro molto più grande di lei in un altro posto. Aprì la porta e via più veloce della luce. Camminava di corsa sperando che nessuno la vedesse vestita in quel modo, sarebbe stata la fine per lei, in quel piccolo paese, ne avrebbero detto di tutti i colori, figuriamoci se avessero saputo cosa stava per fare.

La fortuna e soprattutto l’orario l’aiutarono e non la vide proprio nessuno. Arrivò in quella villetta con quindici minuti di anticipo, meglio prima che dopo, aveva fatto bene i suoi calcoli. Con stupore, vi trovò lì Mosè ad aspettarla. E chissà da quanti secoli era lì. Era seduto sulla panchina e si alzò di scatto quando la vide arrivare. Non le aveva portato neanche un fiore, si era vestito male come sempre e non si era nemmeno pettinato. Ma Fia non ci fece per niente caso, neanche lo guardò si può dire, ormai lo aveva conosciuto così e così se lo aspettava. Chi invece rischiò di prendere un infarto e di mandare tutto a monte fu lui che, non appena la vide vestita in quel modo, barcollò ed ebbe quasi un malore: “Cos’hai, stai male?”, gli chiese preoccupata la ragazza. “Nulla, sto bene, stanotte non ho chiuso occhio e sono un po’ stanco”, la rassicurò lui ma non era questo il solo e vero motivo ed era chiaro ad entrambi.

Salirono in fretta sul motorino e si diressero verso l’abitazione di Mosè, non avevano molto tempo a disposizione e dovevano sbrigarsi. Quella ragazza giovanissima, stupenda, vestita in quel modo provocante, seduta sul suo motorino dietro di lui, inebriante di profumo e sensualità che stava portando a casa sua e nel suo letto, con quelle sue mani delicate strette intorno ai suoi fianchi e la testa appoggiata su un lato nella sua schiena, lo fecero stare meravigliosamente male. Era troppo per un vecchio come lui. Avrebbe potuto bere anche mille birre, fumare mille sigarette, ingoiare mille cose scadute, digiunare per mille giorni e mille notti ma non sarebbe mai stato in grado di resistere a quella emozione così forte. Cominciò a girargli la testa e chiese alla ragazza di portare lei il motorino. Fia restò sorpresa e preoccupata, per un attimo avrebbe voluto lasciar perdere tutto, si era quasi pentita di trovarsi lì ma le rassicurazioni sulla sua salute del vecchio e l’eccitazione sempre più crescente che sentiva in lei, le ridiedero l’entusiasmo. Sapeva di poter guidare un motorino, l’aveva fatto qualche volta con le amiche e non vi era confusione per la strada e poi la meta era poco distante. Così accettò, i due si invertirono di posto ma il casco, stranamente, restò sulla testa di Mosè e non della sua che stava alla guida. Ma fu ancora peggio per il povero Mosè che agli occhi della ragazza sembrava ancora più piccolo di quel suo cugino di 10 anni di Bergamo.

Mosè si ritrovò, suo malgrado, attaccato come una calamita, di spalle a quel corpo stupendo d’adolescente, come una foglia ormai ingiallita che tenta disperatamente e con tutte le proprie forze di restare attaccata a quell’albero che la vide verde un tempo, per non essere spazzata via dal vento. Quello stesso vento che ora stava sollevando la gonna già corta della ragazzina, lasciando intravedere chiaramente e in tutto il suo fascino, quelle mutandine bianche finissime. Mosè se ne accorse subito, eccome poteva non farlo?, e cercò di distrarsi, di guardare da un’altra parte, aveva paura che, prima o poi, sarebbe arrivato il colpo di grazia e non avrebbe potuto reggere più, crollando definitivamente rovinando il più bel sogno che aspettava da una vita. Ora il vecchio con sincerità e con fede, pregava dentro di sé Dio, affinché potesse dargli la forza di portarsi a letto quella ragazzina, senza nemmeno rendersi conto della stranezza della richiesta. Fortunatamente per lui, Fia guidava velocemente e con una certa maestria, e così arrivarono finalmente a destinazione. Non vi era proprio nessuno lì vicino, neanche i polacchi, la loro casa infatti la si vedeva chiusa e anche i gattini erano nascosti. Erano completamente soli, il vecchio e la ragazza.

 

 

… il vecchio e la ragazza

Entrarono in fretta nell’abitazione senza neanche chiudere la porta. Fia era troppo decisa, sapeva di non poter perdere molto tempo, aveva calcolato tutto, era quello il momento giusto, ora o mai più e così rompendo gli indugi disse: “Voglio fare l’amore con te, Mosè!, voglio perdere la mia verginità!”. E lo disse con un tono così deciso e sicuro da sorprendere anche se stessa. Mosè sbiancò, si sentì di colpo in paradiso, poi all’inferno, cominciò a sudare, a tremare, a respirare convulsamente, per un attimo pensò di morire e trovò la forza per dire soltanto: “Anch’io sono vergine”.

Sapere che quell’uomo non avesse mai fatto l’amore con nessuno in 65 anni e che lei sarebbe stata la prima, in altre circostanze l’avrebbe sicuramente scioccata ma, in quel momento, lei non ci fece neanche caso, impegnata come era a portare a termine la sua missione.

Fece tutto lei, la ragazza ora sembrava la più grande professionista del sesso pur essendo anche per lei la prima volta. Ma l’istinto è superiore a ogni tecnica e sa guidare nella giusta direzione. Ora la ragazzina pareva molto più grande e matura del vecchio. Afferrò la mano di lui con la sua dicendogli semplicemente: “Vieni”, e lo condusse dritto verso il letto. Lui si lasciò guidare come un automa restando con la bocca aperta più impaurito che eccitato. La ragazza aprì in fretta la porta della, chiamiamola bonariamente, stanza da letto. Vi era un odore nauseante di rinchiuso e di muffa. Il letto, pieno di polvere e formiche, era più sporco che mai, perfino il cuscino si presentava male, non vi erano lenzuola né coperte, forse le aveva tolte Mosè per il troppo caldo. Ma a Fia tutto questo non importava. Poteva essere un letto fatto di urina e melma; poteva essere ricoperto di fiori e d’argento, sarebbe stata per lei la stessa cosa. Era altro che lei cercava, che lei voleva. Fia chiuse la porta, si sdraiò su quel letto, prima si alzò la maglietta sino al collo lasciando scoperta la parte che dal reggiseno arriva sino all’ombelico. Poi si alzò la minigonna lasciando libera quella che dalle mutandine arriva sino ai piedi. Si tolse in fretta le scarpe e quindi anche le calze e rimanendo in quel modo a faccia all’aria, si rivolse a Mosè che guardava incredulo e ammutolito, dicendogli: “Fai di me quello che vuoi, prendimi, scopami, amami”. Una scena così non la si può limitare descrivendola in un libro. Soltanto guardandola dal vivo, le si può rendere giustizia. Anche il più grande scrittore di tutti i tempi non sarebbe in grado di sostituire la visione con le parole e forse neanche capace di entrare in profondità nel corpo e nella mente di quel vecchio e di quella ragazza. La giovanissima ragazzina distesa, abbandonata sul letto con gli occhi un po’ chiusi e un po’ aperti, era bellissima, col suo corpo in penombra, in bilico tra innocenza e peccato, tra inferno e paradiso. Neanche il più inflessibile giudice d’un tribunale, o il più convinto assertore contro la pedofilia, neanche un santo, neanche un angelo, avrebbe potuto resisterle e non desiderarla. Mosè rimase sbalordito a guardarla. Avrebbe voluto farle mille complimenti, dirle mille volte grazie, renderla partecipe di quello che lui provava dentro. Ma nessuna voce poteva spiegare quelle sensazioni. Così non parlò. Timido, imbarazzato, totalmente incapace di effettuare la benché minima mossa, rimase così in estasi a contemplarla come un innocente bambino che vede apparire la Madonna per la prima volta. Ma lei non era una visione né un sogno, era vera, in carne e ossa, pronta per essere toccata, baciata, venerata, amata. La ragazza, sconvolta nei sensi e nell’anima di trovarsi lì ad offrire le sue innocenti nudità allo sguardo d’un vecchio, aspettava impaziente da lui un gesto, un segno ma il vecchio rimase impietrito come una statua senz’anima, dopo un breve tempo che alla ragazza era sembrato un’eternità, riuscì a dirle soltanto sottovoce: “Che devo fare?” A quel punto la ragazzina diventò sua madre. Prese dolcemente la mano destra di quel vecchio e la portò sul suo giovane corpo, guidandola con la sua, accompagnandola dappertutto come un’isola vergine da esplorare, dalle dita dei piedi sino alla punta del capello più alto. Non sono in grado, cari lettori, pur sforzandomi, di trovare le parole adatte per spiegare quello che provavano entrambi in quel momento. Certe emozioni, vanno vissute in prima persona, solo allora ci si può rendere conto. Nessun tribunale, nessuna censura, nessuna morale potevano annullare quelle emozioni così intense e se anche l’avessero fatto, avrebbero commesso un delitto. Il criminale non era il vecchio e neanche la ragazza, ma chi impedirebbe loro di farlo. Fia, poi con le sue mani, spinse dolcemente la testa del vecchio sopra di lei, facendo scorrere la lingua di lui per tutto il corpo. Fu a quel punto che sentì il bisogno di togliersi ogni indumento di dosso, restando completamente nuda alle carezze e ai baci del vecchio. Poteva arrivare di colpo Dio o Satana, un giudice o la polizia, il presidente della Repubblica o il papa in persona, loro due non si sarebbero mossi da quella posizione e avrebbero continuato imperterriti ad amarsi, non avrebbero potuto farlo pur volendolo. La ragazza, più audace che mai, spogliò il vecchio che rimase nudo davanti a lei. Era impressionante la differenza fra quei due corpi, ma gli opposti spesso si attraggono. Se fossero stati entrambi bellissimi, forse sarebbe stato meno eccitante. Il fascino del proibito, del peccato rendevano quel momento ricco di emotività e sensualità.

Era la danza della trasgressione, il trionfo della libertà assoluta. Ora i due giacevano in ombra, su quel letto, nudi. Lei sdraiata, lui inginocchiato davanti a lei. Fia ora osservava quel corpo di vecchio così diverso dal suo e le fece un po’ pena, capì dentro di sé la fortuna di essere giovani, la bellezza della giovinezza. Poi i suoi occhi si posarono su quel membro penzolante, le fece tenerezza, non le fece paura. Era la prima volta che ne vedeva uno in vita sua. Istintivamente allungò la mano e la posò su di esso. Ma fu un gesto sollecitato dalla curiosità e non dal desiderio. La ragazza si trovò in mano quella nuova e sconosciuta creatura e le sembrava di toccare un piccolo serpentello, morbido e caldo, simile ad un bastone di velluto. Il contatto con quelle mani calde e lisce, procurò un effetto devastante sulla psiche dell’anziano che raggiunse di colpo un’erezione notevole da fare invidia a un dio greco bello, muscoloso e potente. La ragazza, avvertendo sul palmo della mano quell’incredibile cambiamento, si spaventò e lasciò quella presa.

Il vecchio capì che era il momento giusto, aveva vinto le sue paure, il suo imbarazzo. Cercò in fretta il suo pantalone e tirò fuori dalla tasca il preservativo ma con le mani tremanti non riuscì a metterselo e forse anche per non averlo mai usato prima in tutta la sua vita. Ancora una volta fece tutto lei, la piccola Fia guidata dall’istinto che è il migliore maestro, più di qualsiasi insegnante o scienziato. L’uomo si distese sul corpo della ragazza ma non fu capace di compiere l’atto, sia per l’inesperienza, sia per l’emozione che stava riprendendo il sopravvento. Per l’ennesima volta, intervenne ad aiutarlo la ragazzina col suo istinto unito alla sua voglia. Aprì le sue gambe, riprese quel membro in mano e lo indirizzò lei stessa dove doveva andare, spingendo in avanti il bacino per favorirne l’operazione. La ragazza sentì solo un lieve dolore e non ebbe perdita di sangue. Non fu doloroso neanche per lui. La natura li aiutò entrambi per non guastare quel sogno. Il vecchio istintivamente cominciò a muoversi sopra di lei con dolcezza facendola gemere e sospirare ma anche lui non poteva fare a meno di emettere piacevoli lamenti. Con la mano destra appoggiata sul suo seno sinistro e con la sinistra sulle cosce e sulle natiche della ragazza, il vecchio aumentò il suo ritmo in un folle vertiginoso crescendo che coinvolse entrambi. Le sensazioni che quel membro le procurava dentro, erano molto più forti ed intense di quelle che si regalava da sola con le sue dita e ora lei si sentiva presa, amata, desiderata, si sentiva totalmente sua. Il vecchio, a sua volta, si trovava ormai in orbita, in un altro pianeta, fuori da ogni spiegazione umana e logica. Aveva aspettato 65 anni per farlo ma non aveva nessun rimpianto di aver atteso tanto. Anzi, se dovesse morire e rinascere un’altra volta in questa terra, aspetterebbe altri 65 anni pur di incontrare poi nuovamente la sua bellissima principessa Fia. Se in quel momento, fosse entrato lì dentro il papa e li avesse visti in quell’atto, avrebbe sorriso e li avrebbe benedetti.

Cari lettori, anche se quello che vi sto per dire vi sembrerà partorito da una mente folle, non posso non scrivervi che la scena di quel vecchio e di quella ragazzina che si amavano consapevolmente stringendosi l’un l’altra, era la più bella poesia che potesse esistere al mondo per mille motivi che non sto qui a enunciare per non sconvolgervi ulteriormente. I due raggiunsero l’orgasmo quasi simultaneamente e fu più bello ancora. Poi rimasero abbracciati e la ragazza decise in quel momento di ringraziare il vecchio facendo quello che non aveva avuto ancora il coraggio di fare. Avvicinò le sue labbra a quelle del vecchio e lo baciò appassionatamente come se si trattasse di un ragazzo della sua età. All’inizio avrebbe voluto soltanto sfiorarle ma poi la passione, unita al desiderio di baciare per la prima volta, la spinsero a unire la sua lingua a quella del vecchio, in una mescolanza di sapori e di saliva che stordì entrambi. La scena di una ragazzina di 15 anni che baciava appassionatamente un vecchio di 65 era pura armonia, il trionfo della vita, l’immortalità dell’anima che aveva il sopravvento sull’età del corpo. Quell’intenso bacio fu persino più bello del rapporto sessuale. Fino all’ultimo istante Fia dimostrò a Mosè la sua grandezza interiore, la sua comprensione, la sua dolcezza. Il vecchio e la ragazza avrebbero voluto restare ancora abbracciati ma tutto, nella vita, prima o poi ha una fine.

La ragazza guardò l’orologio: “È tardi, devo andare”, esclamò preoccupata.

I due si rivestirono in fretta senza dire una parola, non ve ne era bisogno, si erano già detti tutto. Il vecchio salì sul motorino, lei montò dietro e partirono verso quella villetta di Leonforte che li aveva fatti conoscere.

Quel vento che all’andata, alzando la gonna della ragazza, sembrava complice del demonio, ora compiendo lo stesso identico gesto, pareva agli occhi di lui un poeta che scriveva i suoi versi ispirati da un angelo. Per tutto il tragitto non parlarono, a volte il silenzio vale più di mille parole. Entrambi erano consapevoli che quello che era accaduto quel pomeriggio tra di loro, non sarebbe successo mai più, quella era stata la prima e l’unica volta.

Le cose belle, nella vita, non possono ritornare. Avrebbero potuto farlo anche altre cento volte, ma non sarebbe mai stato bello quanto la prima.

Il vecchio e la ragazza desideravano entrambi che finisse tutto lì per conservare insieme, nelle loro menti e nei loro cuori, la poesia del ricordo di quella prima ed ultima volta. Arrivati in quella villetta, osservarono insieme quella panchina dove si erano seduti per la prima volta conoscendosi. Le avrebbero fatto un monumento se solo avessero potuto farlo. Si salutarono con un semplice “ciao” e senza darsi un nuovo appuntamento. Il destino che li aveva fatti unire, ora aveva deciso di dividerli per sempre. Si separarono così ma entrambi avevano una strana luce negli occhi che li rendeva simili nonostante avessero un’età così differente. Quella luce la potevano notare tutti ma nessuno sarebbe stato in grado di capirne l’origine. Quello era un segreto che apparteneva esclusivamente a loro due e a nessun altro e restò tale per tutta la vita. Nessuno seppe mai nulla. Fia tornò a scuola più matura e serena. Era una bella ragazza, avrebbe avuto tanti corteggiatori, magari si sarebbe innamorata di un bel ragazzo, si sarebbe sposata e avrebbe avuto tanti bei bambini che a lei piacevano tanto. Ma non aveva più fretta, aveva una vita davanti per essere felice. E lui Mosè riprese la solita vita di sempre, col suo immancabile motorino, col saluto di tutta la gente di Enna, con la sua chiesa di San Raffaele, il suo parroco padre Santino e tutti i parrocchiani che continuavano a riempirlo di regali e di elemosine.

A me, cari lettori, non resta altro che concludere questo mio libro sperando che non vi abbia deluso e che possa essere servito a qualcosa e a qualcuno.


in foto: L’AUTORE CLAUDIO CISCO

OPERE LETTERARIE DI CLAUDIO CISCO


Appassionato dell’arte in tutte le sue forme e manifestazioni, trova prestissimo la propria realizzazione artistica nella letteratura, anche perchè sollecitato sin da giovanissimo da una innata predisposizione verso la scrittura che si è rivelata sempre viva e costante. Compone incessantemente sia in linguaggio poetico che in quello prosaico. Tra i temi trattati dall’autore con maggiore interesse durante questo cammino letterario spiccano l’amore per l’adolescenza e più in generale per la giovinezza, la continua e spasmodica ricerca di un contatto quasi epidermico con la natura come rifugio personale fin quasi a sentirsi in perfetta simbiosi con essa, la sempre presente attrazione verso l’irrazionale e l’indefinito che trova nel mondo della fantasia e dell’onirico, del misterioso e del fabuloso, la pià alta espressione della sua creatività. Malinconia e tristezza, desiderio d’evasione e tematiche esistenziali ma anche romanticismo e psicologia dell’animo umano, rappresentano i sentimenti e le attitudini più consoni all’autore che traspaiono riflessi emergendo attraverso i personaggi da lui creati che sono sempre gli ultimi e i disadattati, i sensibili e gli incompresi. Una fondamentale svolta nella creatività dell’autore, è stata data dalla sua recente conversione alla religione evangelica e cristiana che, avvicinandolo fortemente alla fede, gli ha permesso un radicale cambiamento di sentimenti e tematiche delle proprie opere, facendolo aprire conseguentemente all’ottimismo e alla certezza della speranza. I testi sprizzano da tutti i pori gioia e positività che hanno sostituito quel buio e quella negatività che vi aleggiavano prima della conversione.

CLAUDIO CISCO letteratura sul web

P R E S E N T A Z I O N E

 

CLAUDIO CISCO nasce il 18-10-1964 a Messina.

 Solitario e meditativo per natura, rivela sin da piccolo, in trasparenza, una sensibilità profondissima ed una straordinaria vocazione per lo scrivere. Scrittore inquieto dall’animo agitato e tormentato, amante della solitudine, esordisce nel 2004 col suo primo libro COME SONO DENTRO, dove la sua natura romantica e dolce si fonde meravigliosamente con la sua indole malinconica e funerea facendo germogliare liriche di ineguagliabile purezza. Ma la sua ispirazione sempre fervida non ha limiti ne’ confini. Decide così di ampliare il suo percorso letterario spaziando nel campo della narrativa. Nasce l’anno dopo il libro COLEI CHE BREVEMENTE FU E CHE MAI IN VITA CONOBBI, nel quale il senso del mistero e la paura della morte si innalzano a vita sospinti dalla forza del sogno e dall’incanto dell’immaginazione, attraverso pagine delicatissime e di commovente bellezza nelle quali impeto del racconto e capacità fabulosa si armonizzano con arte. Libro successivamente modificato leggermente nel testo con due diverse copertine rispetto all’originale. Nello stesso anno sente l’esigenza di fare presa sui lettori e rischia coraggiosamente dando alle stampe il libro IL VECCHIO E LA RAGAZZA, un libro-scandalo che si schiera contro tutte le convenzioni sociali e ogni forma di moralità a difesa d’una libertà d’espressione illimitata e senza freni. Il libro fa molto parlare di se’ ma incuriosisce, viene successivamente riscritto dall’autore col titolo LA FINE DELLA CICOGNA in una nuova stesura nella quale vengono aggiunti nuovi concetti. Nel 2006 torna al suo vecchio amore: la poesia, e crea il libro LA MIA ANIMA E’ NUDA, dimostrando ancora una volta la sua impossibilità di essere e di realizzarsi in un mondo che nega tanto più crudelmente la felicità, quanto maggiore è la nostra virtù. Spinto dalla sua indomabile e istintiva creatività sempre ricca di idee ed emozioni, prosegue nel 2007 verso la strada della lirica e partorisce il suo quinto libro IL SILENZIO NEL SILENZIO. Una vera rivoluzione è in atto nel poeta. L’accessibilità immediata dei suoi versi, viene sostituita da un’accurata e sofisticata ricerca del vocabolo. La sua solitudine estremamente privata senza sbocchi, si apre di colpo al mondo che lo circonda attraverso tematiche di più ampio respiro. Segno evidente d’un artista, e d’un uomo prima, che sa continuamente rinnovarsi come un istrione della scrittura, capace di sorprendere ogni volta. Sempre nel 2007 raccoglie 40 sue poesie tratte dai libri di liriche scritti in precedenza e dà alla luce il libro SENSAZIONI. Focalizzando sempre più la sua genialità creativa e rinnovandosi continuamente da schemi originalissimi da lui stesso creati, scrive ANIMA SEPOLTA, un’espressione poetica d’avanguardia, alternativa, dove fobie ossessive e fantasmi interiori, esternandosi, si tramutano con sepolcralità in energie negative lugubri e macabre, segni indelebili d’una morte interiore eternamente rassegnata nel misterioso mondo della follia e dell’inconscio. Si cimenta poi in un monologo in prosa surrealista di carattere cerebrale e filosofica APOCALISSE MENTALE. Nel 2008 compone altri 2 libri in versi EROS E MORTE (poesie erotiche e dark) e LA LUNA DI PETER PAN, nel quale il romanticismo predomina velato da una indefinibile tristezza. Nel medesimo anno raccoglie tutte le sue liriche assieme a passi significativi delle sue prose e scrive il libro TUTTO SU DI ME. Esterna poi tutto il suo amore per il mare dedicando interamente ad esso il libro di poesie L’ANIMA DEL MARE, seguito in breve tempo da un altro intitolato LUCE dentro il quale emergono poesie di forte impatto emotivo ed intensa meditazione. Sempre nello stesso anno scrive IL MIO MONDO IN VERSI raccolta di sue poesie edite con immagini personali, ATTRAVERSANDO IL SOLE liriche a tema, VIAGGIO NELL’ANIMO DI UNO SCRITTORE nel quale inserisce tutte le sue opere letterarie in poesia, prosa e narrativa ed ENIGMI INTERIORI liriche emotivamente coinvolgenti di difficile impatto e non di immediata assimilazione. Si rivolge quindi di nuovo alla narrativa e scrive il libro intitolato LAILA un breve racconto tenero e struggente in cui scruta, indaga, penetra l’animo umano cogliendone sentimenti e debolezze, svelandoli con finissima introspezione, compone poi PREGHERO’ parole di fede e speranza dedicate alla sua comunità evangelica. Nel 2oo9 esce la definitiva versione del libro “IL VECCHIO E LA RAGAZZA” (GIRALDI editore), nuova la copertina, rivisitato il testo.

 

B I B L I O G R A F I A

-COME SONO DENTRO

-ANIMA SEPOLTA

-APOCALISSE MENTALE

-COLEI CHE BREVEMENTE FU E CHE MAI IN VITA CONOBBI

-IL VECCHIO E LA RAGAZZA

-LA MIA ANIMA E’ NUDA

-IL SILENZIO NEL SILENZIO

-SENSAZIONI

-LA FINE DELLA CICOGNA

-EROS E MORTE

-LA LUNA DI PETER PAN

-TUTTO SU DI ME

-L’ANIMA DEL MARE

-LUCE

-IL MIO MONDO IN VERSI

-ATTRAVERSANDO IL SOLE

-VIAGGIO NELL’ANIMO DI UNO SCRITTORE

-ENIGMI INTERIORI

LAILA

-PREGHERO’


in foto: l’autore Claudio Cisco